La città in cui vivo

Alle 16 inforco la bicicletta, pedalo per circa venti minuti costeggiando corsi d’acqua e campi coltivati, mi fermo a raccogliere qualche verdura a pagamento che sistemo nelle tasche laterali della bici e sono a casa. Ravvivo la stufa a legna che Lars ha acceso la mattina, dò da mangiare alle ragazze e mi butto sul divano. La mia giornata lavorativa è finita. Accendo una candela e mi godo la quiete della pioggia che comincia a cadere, le ragazze pian piano vengono a farmi compagnia sul divano, prima una, poi due, poi tre. Siamo tutte vicine, pelose e capellute, sprofondate nella morbida pelliccia del copridivano che fa sparire almeno due di loro, perfettamente mimetizzate.

 

Le giornate scorrono lievi, qui. C’è un’alternanza armoniosa di lavoro manuale e intellettuale, propaggini dell’uno si inseriscono nell’altro senza soluzione di continuità ed io mi sento completa.

 

Sull’isola dove vivo non sono ammesse auto. Ci si sposta in bicicletta, in barca, a piedi. Siamo in 1500 e si conoscono tutti. Io no perché sono arrivata sei mesi fa. Non parlo ancora la lingua, anche se la sto studiando, mi arrangio con l’inglese, qui tutti parlano un inglese eccellente, anche se con accento.

 

La mia casa è costruita in paglia e argilla, ha il tetto di alghe impregnate di sale e i muri spessi 50 cm. E’ costruita con tecniche tradizionali che la rendono perfettamente coibentata e traspirante, oltre che ignifuga. Mi colpisce il fatto che quando entro non sento altro odore se non quello delle erbe della cucina e degli oli essenziali che uso per pulire.

 

Decisi di trasferirmi qui una sera di gennaio mentre guardavo un programma di viaggi alla televisione tedesca quando vivevo in Italia. Fu una folgorazione: mi erano sempre piaciuti i Paesi dell’area scandinava, vuoi per la loro oggettiva superiorità di vita, vuoi per l’affinità estetico-emotiva che ho con i Paesi del nordeuropa per via delle mie origini tedesche.

 

Da tempo ero preoccupata per il mio futuro: per il costo della vita, per la mancanza di prospettive lavorative nel mio Paese alla soglia dei cinquant’anni, per  le nuove normative che l’Unione Europea sfornava a ogni piè sospinto e che stavolta rischiavano di azzerare il valore dell’immobile ereditato dai miei genitori in cui vivevo.

 

In quattro e quattr’otto ho deciso: mi sono candidata per gestire un negozietto di seconda mano specializzato in abiti d’epoca femminili e accessori tessili, ho cercato una camera in affitto nella stessa località, ho caricato in macchina le ragazze e il minimo necessario per vivere felice con le mie piccole comodità e sono partita per la Danimarca.

 

Della mia vecchia casa, troppo grande per me, si occupa una mia amica d’infanzia, l’unica di cui mi fidi veramente per queste cose, occasionalmente mio fratello. Le bollette finiscono direttamente sul mio conto bancario.

 

Col mio lavoro guadagno appena il necessario per sopravvivere, ma è una sfida che tutto sommato non mi pesa. Fortunatamente non ho grandi vizi, i beni accumulati nella mia vita precedente bastano fino alla fine dei miei giorni e oltre.

Tra sei mesi deciderò se vendere la mia vecchia casa con tutto il suo contenuto.

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