L’uomo dei cavoli

In un paese del Sudeuropa dove gli abitanti vivevano ancora del lavoro dei campi e l’olio scorreva a fiumi abitava una giovane coppia di sposi.
Il marito aveva mani grandi con cui manovrava sapientemente sia l’aratro che la cazzuola. Nel corso degli anni, tra la nascita dei figli e l’acquisto degli armenti, riuscì a edificare una casa per sé e per la sua famiglia.

La moglie era dedita alla casa e all’educazione dei figli, si occupava di preparare pasti nutrienti con i prodotti che dava la terra, curava che le figlie imparassero a ricamare per preparare la propria dote e che il ragazzo andasse bene a scuola. Nei giorni di festa madre e figlie indossavano l’abito tradizionale, costituito da una camicetta e da una gonna scura che si raccoglieva a pieghe. Tutti insieme si recavano allora in piazza, dove si svolgeva la vita della comunità: i suonatori intonavano le canzoni antiche con i tamburelli, le note incalzanti spingevano i piedi dei ballerini, le mani si alzavano al pari delle fiamme, gli sguardi tra i giovani si incrociavano furtivi.
Entrambi i coniugi si dedicavano all’educazione dei figli dando il buon esempio. Le scelte generose cementavano la vita della comunità, il tempo intrecciava una fitta tela di favori tra gli abitanti; al pari di un arazzo in via di tessitura, la tela mostrava il suo disegno generazione dopo generazione.

Le tre figlie avevano ereditato dalla nonna materna delle abilità particolari. Alla nascita del fratellino, ognuna gli aveva fatto dono di una qualità speciale: la più grande gli aveva donato occhi belli, la mediana un’energia inesauribile, la più piccola un cuore buono.

Una a una le figlie si sposarono e andarono a vivere in altre case, dove fondarono le rispettive famiglie. Durante le feste si ritrovavano tutti nella casa dei genitori in cui si celebrava in pompa magna: le figlie aiutavano a preparare i dolci tradizionali, attorno al desco ci si scambiavano le notizie sugli ultimi avvenimenti, nel pomeriggio si giocava a tombola, dopo cena si suonava e si ballavano le danze popolari con grande diletto di adulti e bambini.

Il figlio maschio però tardava ad accasarsi. Nonostante ne avesse grande desiderio, il suo sogno segreto di avere una famiglia tutta sua non si era realizzato. Il suo cuore si gonfiava di tenerezza alla vista dei nipoti, per i quali d’inverno aveva sempre un posto speciale sulla slitta che trascinava nella neve, carica del raccolto del suo orto. L’uomo aveva una predilezione per i cavoli. Aveva trovato, infatti, che i cavoli erano l’ortaggio che più si addiceva al suo appezzamento di terreno, dove crescevano, rinvigoriti da buon letame maturo, come per magia. Ogni mattina, prima di nutrire le galline e recarsi al lavoro, l’uomo ispezionava il suo orto e ne constatava il buono stato di accrescimento. Un giorno, controllando alcune foglie secche da rimuovere da sotto alcune piante di cavolo, ne trovò una grande di una forma inusuale che non si staccava: tirò allora un po’ più forte e ne uscì un vagito. Stupito, scostò le foglie vicine fino a scoprire un piccolo fagotto che si muoveva leggermente: una bambina. Grande fu la sua meraviglia e ancora più grande il suo sollievo nel constatare che la piccola era sana e vigorosa. La portò svelto in casa e la adagiò in una scatola di cartone foderata di lana morbida. Di lì a poco informò la famiglia, che fece festa grande e organizzò una cerimonia in cui la piccola venne battezzata Cavolina.

Da quel momento la vita dell’uomo dei cavoli fu dedicata alla figlia. Cavolina crebbe lieta e leggiadra, aiutando il padre nei lavori dell’orto e imparando da lui i segreti delle erbe selvatiche commestibili e medicamentose, oltre a studiare diligentemente a scuola. Quando arrivò alla pubertà scoprì di possedere anch’ella dei poteri particolari. Per l’amore che portava al padre, Cavolina desiderava ardentemente donargli ciò che nella loro casa mancava di più. Fu così che, una notte, dopo molte preghiere, Cavolina si addormentò sognando la madre mai conosciuta. La madre era una fata e nel sogno le indicò un bosco dove mandare l’uomo a fare legna. Il giorno dopo, su indicazione di Cavolina, il padre andò nel bosco e incontrò una giovane donna; i due si piacquero, si innamorarono e poco tempo dopo si sposarono. La loro gioia fu allora completa e vissero insieme felici e contenti per molti anni a venire.

Basta terra!

Ho nove anni, i miei genitori hanno bisogno di me, del mio contributo.
Mi mandano in campagna a lavorare da un proprietario terriero.
Sono troppo giovane per riuscire ad immaginare cosa mi aspetta.
Appena arrivato mi mostrano la mia sistemazione per dormire: un lercio materasso nella stalla.
Al mio risveglio conosco il primogenito del mio padrone, ha un’aria crudele e nessun riguardo per i bambini. È un tempo in cui i bambini come me sono solo manodopera.
Le giornate di lavoro mi lasciano esausto.
La terra è bassa e il sole picchia, anche il figlio del padrone. Quando torno nella mia nauseabonda dimora non dimentica mai di venire a tormentare la sua vittima. Non c’è nessuno a difendermi, non mi resta che subire.
Sono troppo piccolo per reagire e devo portare i soldi a casa. Mi sento un prigioniero.
Non credo che resisterò a lungo, mi manca la mia famiglia, mi manca mia madre.
Provo a rassegnarmi ma è troppo da sopportare.
Trovo il coraggio, scappo!
Decido di farlo di notte così nessuno se ne accorgerà. Mi immergo nel buio pesto nella campagna, e la vista non è il mio senso più efficiente, solo un tenue bagliore della luna ad indicarmi la direzione. Ogni minimo fruscìo mi terrorizza, forse un serpente o peggio un orso. Corro più veloce che posso verso casa che mi sembra più lontana che mai. Finalmente giungo in paese e realizzo che non posso presentarmi dai miei, le botte potrebbero moltiplicarsi. Vago per due giorni nascondendomi come posso finché un paesano mi trova e scopro che i miei genitori mi stanno disperatamente cercando.
Mi porta a casa. Mia madre corre verso di me e mi abbraccia, incrocia lo sguardo di mio padre, lui non osa dire niente.
Da quel momento basta terra.

Il giardino dei ricordi

Stamattina Giuditta è più mesta del solito. Non è andata, come ogni giovedì, al bar per la colazione con le sue amiche. È triste e malinconica, guarda il giardino della sua casa avvolto da una nebbiolina umida e i ricordi arrivano cattivissimi e implacabili a marcare la differenza tra ieri e oggi.
Si rivede giovane sposa, attraversare la porta d’ingresso di casa tra le braccia del suo Guglielmo, come tradizione vuole, e suggellare il passaggio con un bacio appassionato.
Quella casa così tanto desiderata ma fonte di molti pensieri, preoccupazioni e con un mutuo trentennale da pagare.
Lei e il suo Elmo, così lo chiamava, si sentivano invincibili insieme e pronti ad affrontare qualsiasi imprevisto.
Rivede il loro giardino, oggi verde, colmo di ortensie rose e gelsomini, incolto e secco e il loro orto, allora pieno di sterpaglie, dissodati, seminati e coltivati con tanto amore per la gioia dei loro figli.
Ricorda ancora le voci dei piccoletti: «Papà, possiamo assaggiare i pisellini?»
«Posso strappare le carote?»
«Ma quando possiamo mangiare le more?»
Le stagioni si susseguono e l’orto e il giardino ne scandiscono il tempo.
È Pasqua! Lei ha preparato gli ovetti di cioccolato avvolti nella carta crespa e li ha nascosti tra le siepi delle azalee, sull’albicocco, in mezzo alle ortensie e tra i rami del gelsomino.
«Si parte per la caccia al tesoro. Siete pronti? Via!»
Otto bambini tra figli e nipoti corrono per il giardino alla ricerca degli ovetti.
«Acqua… acqua… acqua… fuochino… fuochino… fuoco!»
Ecco il primo è stato trovato e via via si continua fino a trovarli tutti.
Lei ha voluto ripristinare la caccia al tesoro degli ovetti perché era una tradizione della sua famiglia di origine.
Il nonno materno nascondeva nell’orto le uova sode e poi invitava i piccoli di casa a trovarle. Un nonno avanti, moolto più avanti della Ferrero che decenni dopo ha portato la caccia agli ovetti in televisione.
«Mamma, ci hanno copiato!» dicono i figli ormai divenuti adulti.
Adesso il giardino nasconderà gli ovetti per i nipotini.
Li vede correre coi piedini nudi sull’erba tagliata dal suo Guglielmo e pensa che é stata molto felice con lui anche se il giorno del matrimonio lei è arrivata prima di lui in chiesa.
Ebbene sì! Si è fatto aspettare: già da allora avrebbe dovuto capire come sarebbero andate le cose . Anche stavolta è arrivata prima, ma oggi non è impaziente, lo aspetterà con trepidazione e quando arriverà si abbracceranno nuovamente, vestiti di luce.

Uomini pipistrello – Parte due

Terra

Miro mostrava a Leda e Gala, sua madre, il disegno che aveva fatto con un carboncino. Sembrava quasi una mappa del tesoro.
Una croce indicava un punto, altri simboli segnalavano i terribili Bite, droni di terra pronti a eliminare qualsiasi presenza non riconosciuta, alcuni numeri mostravano i Cop, androidi a scorta dei vagoni di bombole e cibo che ogni mattina, all’alba, erano depositati all’ingresso delle fogne, luogo dove i Bat vivevano. Meglio, sopravvivevano.
Due rette parallele contrassegnavano il percorso che faceva la motrice con al seguito i vagoni. Per la maggior parte, il percorso era sotterraneo. Nessun umano si occupava della distribuzione. Il primo lo s’incontrava nella stazione di ricarica: esattamente sulla croce, luogo da dove il treno partiva e tornava.
Lì si prelevava elettricità. I Notabili potevano farlo, avevano autoblindo generatori. Loro, i Bats, no.
Un notabile alla volta, dopo il riconoscimento, conduceva il proprio mezzo al tappeto di ricarica: qualche istante e poteva ripartire con il pieno. Tutto nella massima sicurezza, protetto dai feroci Bite e dagli altrettanto spietati Cop. Nessuno si sarebbe mai sognato di fare un colpo in quel luogo. Miro sì.
L’intento era di arrivare alla stazione nascosto in un vagone. Sotto la giacca avrebbe custodito il Kill. Ne aveva sperimentato più e più volte l’efficacia: emetteva ultrasuoni che inducevano qualche secondo di confusione ai Cop così come ai Bite. Poco tempo, ma poteva bastare per saltare dentro un autoblindo, puntare un bastone al naso di un Notabile e ripartire verso il nuovo deposito di ossigeno. Lì doveva rubare cento bombole per Hope, e tornare nelle fogne. Cento bombole per il suo bambino che sarebbe nato tra poche settimane. Forse prima: Leda aveva avuto contrazioni e perso il tappo.
Per fortuna, gl autoblindo erano protetti da uno scudo di sorveglianza. Una volta dentro, si era al sicuro.
Gala e Leda osservavano la mappa. Tutto sembrava semplice. Tutto era ragionevolmente impossibile. Tutto sarebbe avvenuto il giorno dopo.

La luce dell’alba illuminava a stento l’ingresso della fogna. Miro poteva vederne i contorni perché un buco mai chiuso lasciava penetrare raggi di luce giallastra. Non era per dimenticanza che quella breccia nel terreno era stata lasciata. No. Semplicemente serviva a ferire gli occhi dei Bats durante la consegna. Loro potevano muoversi solo di notte. Il giorno non doveva appartenergli.
Miro aveva gli occhi protetti dalle bende velate che sua madre aveva preparato. Stava nascosto in un anfratto della roccia, schiacciato contro la parete. La terra sudava gocce nere che gli penetravano nel collo della giacca. Le sentiva scivolare giù per la collottola. Alcune avevano raggiunto le sue mani. Era fango. Fango e terra, terra e fango. Dal fango, i Bats recuperavano l’acqua. Dalla terra nulla. Era completamente sterile. Miro, a testa bassa, ne guardava l’aspetto. Era come sabbia nera coagulata dal grasso acido caduto dal cielo.
Tempo addietro, una pioggia mefitica aveva causato l’apocalisse e l’atmosfera ne era ancora pregna. Perciò l’ossigeno scarseggiava. Attribuivano la causa al fato, in realtà tutti sapevano che era il frutto di diverse esplosioni: gli stati erano corsi al riarmo e qualche pazzo aveva innescato il primo ordigno. In risposta, era partita una seconda bomba, una terza, altre, tante, troppe. Nuvole nere continuavano a levarsi e correre sospinte da venti atomici. La terra aveva sporcato il cielo, il cielo aveva poi restituito alla terra deiezioni vischiose.
Miro sentì il sibilo della cabina muovere l’aria nel condotto.
All’arrivo, i vagoni si ribaltarono velocemente per scaricare e ripartire. Miro accese il suo Kill. Con soddisfazione, vide quei maledetti Bite girare su se stessi come scarafaggi capovolti. Saltò dentro un vagone.
Nel frattempo, si erano ammassati molti Bats, ma nessuno fece caso, presi com’erano a distribuire bombole e cibo. C’era anche Gala tra loro. Seguì il figlio con lo sguardo, la bocca le tremava in una preghiera.
Miro avvertì una piccola spinta: il treno era ripartito. Per fortuna, le pareti dei convogli erano spesse e alte. Supino, espirava in un panno umido per evitare che il calore del fiato fosse rilevato dagli infrarossi. Aveva un buon lasso di tempo prima che le emanazioni del suo corpo saturassero il vagone.
Passarono un paio di minuti, poi il treno iniziò a frenare e si fermò. Una scarica di adrenalina pervase Miro. Si sistemò la benda sugli occhi prima di azionare il Kill. Ancora una volta iniziò a fremere. Senza guardarsi intorno, Miro era saltato fuori ed era corso verso il tappeto di ricarica. Una cinquantina di metri, non di più. Cercò di rimettere il suo Kill nella giacca, ma le mani scivolose lo fecero cadere. Miro non poteva fermarsi per raccoglierlo.
Piombò dentro l’autoblindo di un Notabile che, grasso e roseo, sorrideva al nulla mentre ricaricava il suo mezzo.
La faccia dell’uomo si trasformò in una maschera di terrore quando vide il bastone appuntito vicino alla cannula. Come d’istinto alzò le mani, ma Miro fu più veloce, gliene prese una e gli girò il braccio dietro la schiena. Poi intimò: «Input coordinate». Aveva indicato il simbolo da mostrare al lettore ottico. Il Notabile aveva obbedito e autorizzato la scansione. Il mezzo partì veloce.
Miro aveva lanciato un’occhiata in direzione del suo Kill. Stava ancora fremendo, così come parevano tremare i Bite e i Cop tutt’attorno. Si chiese come avrebbe fatto senza di lui al deposito. Sperava che il Notabile, sotto minaccia, avrebbe collaborato.
«Se aiuti, no mal», gli aveva sibilato nell’orecchio. L’uomo aveva annuito terrorizzato. I suoi vestiti candidi avevano vistose macchie di terra.

Non era quello il problema.

Segue parte 3 in ‘Tempo’

 

Il viaggio di Dante

Cosa hai provato, o Dante,
quando hai raggiunto i meandri della Terra
e i suoi anfratti più bui,
dove l’afrore del dolore umano
era l’unico segno di vita?

Hai forse tremato,
nel vedere anime strette in catene d’ombra,
grida spente nell’eco dei secoli,
o hai camminato saldo,
sapendo che oltre quel buio
giaceva ancora la speranza?

Il dolore è un vento sordo,
che piega l’anima come fronda d’autunno,
eppure tu, poeta,
hai guardato negli occhi di quel vuoto
e hai cercato la scintilla nascosta,
l’ultimo battito,
il filo sottile che non si spezza.

Cosa hai provato, o Dante,
quando la terra si apriva sotto i tuoi passi,
e le urla del tempo ti scavavano il petto?
Forse hai sentito il freddo dell’eterno,
l’indifferenza delle stelle lontane,
o forse hai scorto, nel cuore del dolore,
il segno di una redenzione lontana.

Cosa hai provato, o poeta,
quando hai lasciato l’Inferno alle tue spalle?
Forse nulla di più
che l’eco di un battito,
che continua a vibrare,
come il canto delle stelle,
oltre il tempo e oltre la notte.