Il giardino dei ricordi

Stamattina Giuditta è più mesta del solito. Non è andata, come ogni giovedì, al bar per la colazione con le sue amiche. È triste e malinconica, guarda il giardino della sua casa avvolto da una nebbiolina umida e i ricordi arrivano cattivissimi e implacabili a marcare la differenza tra ieri e oggi.
Si rivede giovane sposa, attraversare la porta d’ingresso di casa tra le braccia del suo Guglielmo, come tradizione vuole, e suggellare il passaggio con un bacio appassionato.
Quella casa così tanto desiderata ma fonte di molti pensieri, preoccupazioni e con un mutuo trentennale da pagare.
Lei e il suo Elmo, così lo chiamava, si sentivano invincibili insieme e pronti ad affrontare qualsiasi imprevisto.
Rivede il loro giardino, oggi verde, colmo di ortensie rose e gelsomini, incolto e secco e il loro orto, allora pieno di sterpaglie, dissodati, seminati e coltivati con tanto amore per la gioia dei loro figli.
Ricorda ancora le voci dei piccoletti: «Papà, possiamo assaggiare i pisellini?»
«Posso strappare le carote?»
«Ma quando possiamo mangiare le more?»
Le stagioni si susseguono e l’orto e il giardino ne scandiscono il tempo.
È Pasqua! Lei ha preparato gli ovetti di cioccolato avvolti nella carta crespa e li ha nascosti tra le siepi delle azalee, sull’albicocco, in mezzo alle ortensie e tra i rami del gelsomino.
«Si parte per la caccia al tesoro. Siete pronti? Via!»
Otto bambini tra figli e nipoti corrono per il giardino alla ricerca degli ovetti.
«Acqua… acqua… acqua… fuochino… fuochino… fuoco!»
Ecco il primo è stato trovato e via via si continua fino a trovarli tutti.
Lei ha voluto ripristinare la caccia al tesoro degli ovetti perché era una tradizione della sua famiglia di origine.
Il nonno materno nascondeva nell’orto le uova sode e poi invitava i piccoli di casa a trovarle. Un nonno avanti, moolto più avanti della Ferrero che decenni dopo ha portato la caccia agli ovetti in televisione.
«Mamma, ci hanno copiato!» dicono i figli ormai divenuti adulti.
Adesso il giardino nasconderà gli ovetti per i nipotini.
Li vede correre coi piedini nudi sull’erba tagliata dal suo Guglielmo e pensa che é stata molto felice con lui anche se il giorno del matrimonio lei è arrivata prima di lui in chiesa.
Ebbene sì! Si è fatto aspettare: già da allora avrebbe dovuto capire come sarebbero andate le cose . Anche stavolta è arrivata prima, ma oggi non è impaziente, lo aspetterà con trepidazione e quando arriverà si abbracceranno nuovamente, vestiti di luce.

Uomini pipistrello – Parte due

Terra

Miro mostrava a Leda e Gala, sua madre, il disegno che aveva fatto con un carboncino. Sembrava quasi una mappa del tesoro.
Una croce indicava un punto, altri simboli segnalavano i terribili Bite, droni di terra pronti a eliminare qualsiasi presenza non riconosciuta, alcuni numeri mostravano i Cop, androidi a scorta dei vagoni di bombole e cibo che ogni mattina, all’alba, erano depositati all’ingresso delle fogne, luogo dove i Bat vivevano. Meglio, sopravvivevano.
Due rette parallele contrassegnavano il percorso che faceva la motrice con al seguito i vagoni. Per la maggior parte, il percorso era sotterraneo. Nessun umano si occupava della distribuzione. Il primo lo s’incontrava nella stazione di ricarica: esattamente sulla croce, luogo da dove il treno partiva e tornava.
Lì si prelevava elettricità. I Notabili potevano farlo, avevano autoblindo generatori. Loro, i Bats, no.
Un notabile alla volta, dopo il riconoscimento, conduceva il proprio mezzo al tappeto di ricarica: qualche istante e poteva ripartire con il pieno. Tutto nella massima sicurezza, protetto dai feroci Bite e dagli altrettanto spietati Cop. Nessuno si sarebbe mai sognato di fare un colpo in quel luogo. Miro sì.
L’intento era di arrivare alla stazione nascosto in un vagone. Sotto la giacca avrebbe custodito il Kill. Ne aveva sperimentato più e più volte l’efficacia: emetteva ultrasuoni che inducevano qualche secondo di confusione ai Cop così come ai Bite. Poco tempo, ma poteva bastare per saltare dentro un autoblindo, puntare un bastone al naso di un Notabile e ripartire verso il nuovo deposito di ossigeno. Lì doveva rubare cento bombole per Hope, e tornare nelle fogne. Cento bombole per il suo bambino che sarebbe nato tra poche settimane. Forse prima: Leda aveva avuto contrazioni e perso il tappo.
Per fortuna, gl autoblindo erano protetti da uno scudo di sorveglianza. Una volta dentro, si era al sicuro.
Gala e Leda osservavano la mappa. Tutto sembrava semplice. Tutto era ragionevolmente impossibile. Tutto sarebbe avvenuto il giorno dopo.

La luce dell’alba illuminava a stento l’ingresso della fogna. Miro poteva vederne i contorni perché un buco mai chiuso lasciava penetrare raggi di luce giallastra. Non era per dimenticanza che quella breccia nel terreno era stata lasciata. No. Semplicemente serviva a ferire gli occhi dei Bats durante la consegna. Loro potevano muoversi solo di notte. Il giorno non doveva appartenergli.
Miro aveva gli occhi protetti dalle bende velate che sua madre aveva preparato. Stava nascosto in un anfratto della roccia, schiacciato contro la parete. La terra sudava gocce nere che gli penetravano nel collo della giacca. Le sentiva scivolare giù per la collottola. Alcune avevano raggiunto le sue mani. Era fango. Fango e terra, terra e fango. Dal fango, i Bats recuperavano l’acqua. Dalla terra nulla. Era completamente sterile. Miro, a testa bassa, ne guardava l’aspetto. Era come sabbia nera coagulata dal grasso acido caduto dal cielo.
Tempo addietro, una pioggia mefitica aveva causato l’apocalisse e l’atmosfera ne era ancora pregna. Perciò l’ossigeno scarseggiava. Attribuivano la causa al fato, in realtà tutti sapevano che era il frutto di diverse esplosioni: gli stati erano corsi al riarmo e qualche pazzo aveva innescato il primo ordigno. In risposta, era partita una seconda bomba, una terza, altre, tante, troppe. Nuvole nere continuavano a levarsi e correre sospinte da venti atomici. La terra aveva sporcato il cielo, il cielo aveva poi restituito alla terra deiezioni vischiose.
Miro sentì il sibilo della cabina muovere l’aria nel condotto.
All’arrivo, i vagoni si ribaltarono velocemente per scaricare e ripartire. Miro accese il suo Kill. Con soddisfazione, vide quei maledetti Bite girare su se stessi come scarafaggi capovolti. Saltò dentro un vagone.
Nel frattempo, si erano ammassati molti Bats, ma nessuno fece caso, presi com’erano a distribuire bombole e cibo. C’era anche Gala tra loro. Seguì il figlio con lo sguardo, la bocca le tremava in una preghiera.
Miro avvertì una piccola spinta: il treno era ripartito. Per fortuna, le pareti dei convogli erano spesse e alte. Supino, espirava in un panno umido per evitare che il calore del fiato fosse rilevato dagli infrarossi. Aveva un buon lasso di tempo prima che le emanazioni del suo corpo saturassero il vagone.
Passarono un paio di minuti, poi il treno iniziò a frenare e si fermò. Una scarica di adrenalina pervase Miro. Si sistemò la benda sugli occhi prima di azionare il Kill. Ancora una volta iniziò a fremere. Senza guardarsi intorno, Miro era saltato fuori ed era corso verso il tappeto di ricarica. Una cinquantina di metri, non di più. Cercò di rimettere il suo Kill nella giacca, ma le mani scivolose lo fecero cadere. Miro non poteva fermarsi per raccoglierlo.
Piombò dentro l’autoblindo di un Notabile che, grasso e roseo, sorrideva al nulla mentre ricaricava il suo mezzo.
La faccia dell’uomo si trasformò in una maschera di terrore quando vide il bastone appuntito vicino alla cannula. Come d’istinto alzò le mani, ma Miro fu più veloce, gliene prese una e gli girò il braccio dietro la schiena. Poi intimò: «Input coordinate». Aveva indicato il simbolo da mostrare al lettore ottico. Il Notabile aveva obbedito e autorizzato la scansione. Il mezzo partì veloce.
Miro aveva lanciato un’occhiata in direzione del suo Kill. Stava ancora fremendo, così come parevano tremare i Bite e i Cop tutt’attorno. Si chiese come avrebbe fatto senza di lui al deposito. Sperava che il Notabile, sotto minaccia, avrebbe collaborato.
«Se aiuti, no mal», gli aveva sibilato nell’orecchio. L’uomo aveva annuito terrorizzato. I suoi vestiti candidi avevano vistose macchie di terra.

Non era quello il problema.

Segue parte 3 in ‘Tempo’

 

Il viaggio di Dante

Cosa hai provato, o Dante,
quando hai raggiunto i meandri della Terra
e i suoi anfratti più bui,
dove l’afrore del dolore umano
era l’unico segno di vita?

Hai forse tremato,
nel vedere anime strette in catene d’ombra,
grida spente nell’eco dei secoli,
o hai camminato saldo,
sapendo che oltre quel buio
giaceva ancora la speranza?

Il dolore è un vento sordo,
che piega l’anima come fronda d’autunno,
eppure tu, poeta,
hai guardato negli occhi di quel vuoto
e hai cercato la scintilla nascosta,
l’ultimo battito,
il filo sottile che non si spezza.

Cosa hai provato, o Dante,
quando la terra si apriva sotto i tuoi passi,
e le urla del tempo ti scavavano il petto?
Forse hai sentito il freddo dell’eterno,
l’indifferenza delle stelle lontane,
o forse hai scorto, nel cuore del dolore,
il segno di una redenzione lontana.

Cosa hai provato, o poeta,
quando hai lasciato l’Inferno alle tue spalle?
Forse nulla di più
che l’eco di un battito,
che continua a vibrare,
come il canto delle stelle,
oltre il tempo e oltre la notte.

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