Tenendoci per mano: I MELONI DI MIO PADRE

Sono nata in un piccolo paesino della Lombardia, dove gli inverni sono freddi e umidi e le estati calde e afose. Il vento non sapevo neanche cosa fosse. Io l’ottava di nove tra fratelli e sorelle, mio padre un padre-padrone. Quando avevo dodici anni mia madre morì, mio padre si risposò praticamente subito ed io, quasi la più piccola, imparai a fare da schiava ai miei fratelli più grandi. Fu così che appresi la gerarchia tra uomini e donne.

Mio padre commerciava in meloni. Avevamo campi e campi a perdita d’occhio, mio padre assumeva lavoranti per l’estate, che governava con pugno di ferro. Più tardi arrivarono le serre e più avanti ancora gli immigrati che lavoravano in nero per un tozzo di pane. I meloni si vendevano bene. Nella mia famiglia, nonostante fossimo in tanti, non abbiamo mai sofferto la fame.

Il giovedì e la domenica mio padre li caricava su un carretto trainato da due cavalli e li portava sulla piazza del mercato del paese vicino, a venti minuti di cammino. Là, sotto il sole, le massaie tastavano, annusavano, se li rigiravano tra le mani fino a scegliere il migliore, poi lo infilavano nella sporta a rete, a volte due, tre, quattro alla volta, e li portavano alle loro famiglie.

Io da bambina qualche volta aiutavo: mi arrampicavo in cima al carretto e sceglievo quelli che mi venivano indicati, ritiravo il denaro, quando fui in grado di contare davo anche il resto.

All’una, dopo aver ripulito lo spiazzo a noi assegnato, caricavamo l’invenduto e tornavamo a casa leggeri, dove la mia aveva preparato tre marmittone fumanti di pastasciutta al pomodoro, o la polenta. I miei fratelli ed io mangiavamo avidamente e in men che dica era tutto finito. A me toccava aiutare a rigovernare, poi si faceva il bucato e verso sera ci si ritrovava attorno al camino e alla stufa a legna a raccontare storie e a commentare i fatti della giornata mentre mia madre, le mie sorelle ed io ricamavamo. Le donne non dovevano mai essere inoperose, nemmeno nei momenti di riposo. Fu così che iniziai a preparare il mio corredo da sposa.

Poi non lo usai mai. Mi sposai presto, che il corredo non era ancora pronto, per sfuggire a quella vita di solo lavoro.

Conobbi mio marito in una calda sera d’estate profumata di fieno appena tagliato.

Siccome ero la ribelle di famiglia – ed essendo la penultima di acqua sotto i ponti ne era passata – decisi di saltare la cerimonia in chiesa e mi sposai solo in Comune, a Palazzo Reale a Milano. Per la mia famiglia fu uno scandalo e mi predissero morte e sventura. Fortunatamente non andò così male: con mio marito regalammo la vita a tre figli, che studiarono e ci diedero grandi soddisfazioni, vivemmo insieme fino a tarda età, in discreta salute e in buona armonia.

Quando morì mio padre, l’azienda fu rilevata da uno dei suoi fratelli più giovani, che aveva una nidiata di figli. Ogni tanto vedevo una delle sue figlie arrampicarsi sul pianale del furgone nella piazza del mercato e gestire le richieste di meloni delle massaie che, come nella mia infanzia, non mancavano. Le terre della mia famiglia sono ricche e i meloni ci crescono bene. Sono sodi, colorati, zuccherini. Ogni tanto ne sparisce qualcuno, dice mio zio, ma è nell’ordine delle cose. Una delle mie nipoti prenderà in mano le redini dell’azienda, lo vedo già, lei molto più capace e intraprendente dei suoi fratelli: ci sa fare con le signore, è gentile, complice, fa qualche euro di sconto e loro si sentono speciali, sentono di avere un’alleata, perché è donna, sta dalla loro parte. Mio zio è inflessibile e burbero, un gran lavoratore, ma con le persone non ci sa fare. Sua moglie lo assiste defilata, quasi spaventata e grata di quella figlia tardiva che le evita certe incombenze, questo regalo di Dio che sta tirando su le sorti della famiglia, con i suoi doni di diplomazia e il suo fidanzato instancabile lavoratore dalle mani d’oro, che ha rimesso a nuovo l’impianto elettrico di tutta la casa.

I miei fratelli sono tutti sposati, in chiesa naturalmente, e ognuno ha la propria famiglia. Non ci siamo spostati di molto, ci incontriamo ancora spesso per un motivo o per l’altro nei paesini intorno a quello dove siamo nati, spesso ci incrociamo al mercato o a qualche festa di famiglia. Io sono rimasta la pecora nera, ma nessuno mi deride più. La maggior parte di loro ha tresche o vive di apparenze, io amo mio marito: per strada ci teniamo per mano e aspettiamo la pensione mia per poter realizzare il nostro sogno di viaggiare. Nel frattempo mio marito si tiene impegnato, anzi, non ha un minuto libero e dice che non gli basta il tempo! Da pensionato!!

Appena è andato in pensione si è iscritto a un progetto di apicoltura alternativa, top-bar credo che si chiami, nel quale le api non vengono sfruttate come col sistema tradizionale. Nel giro di un anno ha fatto installare sul tetto della nostra casa pannelli fotovoltaici e un sistema di recupero dell’acqua piovana che ci fa risparmiare 600 metri cubi di acqua all’anno.

Le domeniche d’autunno traffica con i telai per gli alveari, le domeniche di primavera va alla ricerca di nuovi pascoli per le famiglie di api ormai cresciute, durante la settimana sforna pane e focacce che regaliamo ai figli e agli amici, poi si è aggregato a un progetto per far partire una comunità energetica nei paesi vicini, che purtroppo non si è realizzato. Mi sento fortunata quando riusciamo a fare qualcosa insieme!

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