Uomini pipistrello – Parte tre

Tempo

 

Miro non si era aspettato che a guardia del deposito ci fossero umani. Aveva raccolto molti dati, era certo di non trovarne. Eppure…
Quel giorno era prevista una grossa consegna, così oltre ai Bite e ai Cop, c’erano poliziotti armati. La differenza tra Cop e poliziotti saltava subito all’occhio. I primi non avevano cannule né bombole d’ossigeno: erano androidi. I secondi avevano la testa protetta da grandi caschi tondi che ricordavano quelli degli astronauti.
Per fortuna, Miro li aveva visti da lontano. Non aveva avuto scelta. Era stato costretto a ordinare al Notabile di fermarsi e invertire la rotta verso l’ingresso delle fognature.
Era rientrato tanto illeso quanto sconfitto. Ma non era quello il problema.
Il Notabile lo aveva lasciato scendere con un ghigno in faccia: «Vaff, Bat», aveva sibilato.
«Anche a te, carogna», aveva risposto Miro scandendo bene le parole, come se il fatto di non badare all’ossigeno sprecato fosse un’ulteriore offesa nei confronti dell’uomo grasso e roseo.
Quando Miro raggiunse il luogo dove viveva con sua madre Gala e la moglie Leda, non vide né l’una, né l’altra.
Era pieno giorno, ma le tre loro amache pendevano dal soffitto come sacchi vuoti.
Si girò verso il loro rifugio, il Rif. Un tenue bagliore proiettava sulle pareti di plastica due sagome accucciate. Si precipitò con il cuore in gola verso di loro.
Quando scostò la tenda d’ingresso, quattro occhi lo guardarono spaventati. Miro si bloccò per un istante, scrollò la testa e alzò le mani vuote. Gala e Leda compresero.
La madre di Miro gli fece cenno di avvicinarsi. In quel momento, Leda chiuse gli occhi e sul suo viso si disegnò una smorfia di dolore. Miro girò intorno alle due donne e si accucciò dietro Leda. Le cinse le braccia mettendo le sue mani su quelle della moglie. Si sedette per sostenerne il corpo.
Gala era intenta a misurare il tempo delle contrazioni. Tempo tra una e l’altra. Tempo tra la nascita di Hope e i suoi primi respiri. Gala aveva preparato una piccola bombola. L’aveva riempita giorno dopo giorno, rinunciando a qualche minuto di respiro.
Leda doveva soffrire in silenzio. Meno gente si accorgeva della nascita, meglio era.
Qualcuno avrebbe potuto denunciarli, segnalare la presenza del neonato ai droni di controllo che ogni giorno attraversavano le fogne per la conta delle teste.
Nei mesi precedenti, Gala e Leda avevano preparato stoffe pulite e fatto sobbollire il fango per raccogliere il vapore, goccia dopo goccia, tanto da riempire un piccolo mastello.
Leda si era rilassata tra le braccia di Miro. Piangevano entrambi, per l’emozione e per il loro bambino: non era ora di metterlo al mondo. Non ancora. Ma la natura se n’era fregata. La natura era diventata ostile all’umanità tanto quanto l’umanità lo era stata con lei nel corso dei millenni.
Di nuovo, una contrazione fece irrigidire Leda. A Miro parve di sentirne le scosse in petto. Gala fece cenno che erano passati quattro minuti dalla precedente. Fece un sospiro e si preparò a gestire la parte finale del travaglio della nuora.
Prese le mani di Miro e le mise sotto le ascelle di Leda perché la sostenesse, poi s’inginocchiò tra le gambe aperte e prese a massaggiare la zona pelvica, controllando la dilatazione.
Le contrazioni si fecero sempre più ravvicinate. Leda aveva afferrato una mano di Miro e la mordeva ogni qualvolta gliene arrivava una. Miro era grato per quel dolore che gli puliva la testa, lo rendeva più lucido e concentrato.
Hope nacque dopo un paio d’ore. Era una bambina bellissima.
Gala la prese, ne pulì il corpo e liberò le vie respiratorie, poi le attaccò la piccola bombola.
La bambina era piccola ma piangeva a squarciagola, sana e forte come non si aspettavano, data la nascita prematura.
Intorno al Rif si formò un capannello di Bats. Leda aveva preso in braccio la sua bambina e guardava le ombre fuori in segno di sfida. Miro le accarezzava entrambe, protettivo.
Gala si sedette vicino a Leda, riprese in braccio la piccola Hope e iniziò ad annusarle la testolina, a baciare le manine. Piangeva di gioia e d’amore. Era nonna, il suo sogno.
Riconsegnò Hope ai genitori e uscì dal Rif. Leda attaccò la bimba al seno gonfio del primo latte. Colostro.
Gala si fermò qualche istante per parlottare brevemente con gli altri Bats che si dileguarono.
Poco dopo, Leda, Miro e la piccola Hope si addormentarono profondamente.
Anche Gala, nella sua amaca, si addormentò profondamente, ma il suo sonno era indotto.
Fu Miro a svegliarsi per primo, angosciato dal fatto che presto sarebbe terminato l’ossigeno della piccola.
Uscì dal Rif un po’ intontito. A terra, vide una bombola. Era quella di Gala.
Istintivamente alzò gli occhi verso l’amaca di sua madre e vide un braccio sporgere, una mano pendere verso il tetto del Rif, chiusa quasi a pugno. Solo due dita erano rimaste aperte, come a benedire quella piccola capanna sottostante. Tutto, in quell’amaca, sembrava aver abbandonato la vita ed essere in un altro dove, in un altro tempo. Miro capì.
Gala si era sacrificata per la piccola Hope, la sua nipotina.
L’aveva presa in braccio e si era riempita gli occhi di quel visino perfetto. L’aveva stretta, ne aveva respirati l’odore e il pianto.
Poi, con un senso di compiutezza, aveva fatto senza esitare il suo più grande gesto d’amore.

Spleen

Il sogno si palesa.

Immagini di ieri
in un chiaroscuro
di lampi e di ombre
svelano
volti scavati
dalle rughe del tempo.

Ricordo le dolci carezze
prima del brusco risveglio.
Ah come vorrei essere là ora
come vorrei che ora fosse allora
quando il sogno palesava
frementi aspettative

mentre oggi
è un torrente gelato che corre
fino a morire nel mare.

Tilda

Milano 1863

 

Ettore Albinò scese dal landò che ripartì scomparendo nella nebbia grigia e densa d’autunno. Nella via, i contorni delle case parevano dissolversi. Altro non restava che lo scalpitio degli zoccoli sul selciato.
Ettore era un giovane matematico catanese molto istruito e avrebbe presto ottenuto un incarico nella neonata università di Milano. In realtà, ambiva a trovare fondi per le sue ricerche sulla fisica sperimentale, studi che condivideva con un gruppo di scienziati provenienti da tutta Italia.
Nel frattempo, si guadagnava da vivere come precettore, stimatissimo dalla ricca nobiltà milanese. Per questo, si apprestava a entrare nel palazzo dei Conti Dè Pozzi
Ettore si spazzolò la cappa con le mani, calcò il cappello sulla testa e picchiò il battente contro il portone massiccio. Gli fu aperto da un lacchè.
«Buongiorno, sono il Professor Ettore Albinò», disse al valletto.
«Buongiorno Professore, prego, vogliate seguirmi, », disse l’uomo con una voce nasale.
Percorsero il cortile, poi attraverso un giardino interno, colmo di crisantemi che parevano quasi fluttuare nella foschia, giunsero allo studio dove Ettore era atteso dal Conte Giorgio Dè Pozzi. Quando entrò, fu raggiunto da un uomo elegante, austero e che aveva l’aria delle persone granitiche, saldamente aggrappate ai principi dei propri padri e dei padri dei propri padri. Un uomo d’altri tempi, pensò.
«Caro dottore Albinò, vorrei offrirvi dell’ottimo Marsala, appena giuntomi dalla Sicilia. Colore a calore a riscaldare il freddo di queste giornate», disse il Conte dopo le presentazioni. A Ettore parve di cogliere una sfumatura di tensione, come di cordialità forzata. Ne fu stupito ma accettò di buon grado, anelando ai profumi della propria terra.
Il Conte gli indicò una poltrona davanti al camino e si diresse verso la scrivania per poi tornare con due calici pieni di liquore scuro e ambrato al tempo stesso. Brindarono, ma il Conte non si sedette, piuttosto si affrancò con un braccio teso alla mensola di pietra.
Di nuovo, Ettore notò nell’uomo un certo nervosismo.
Il Conte si schiarì la voce. Questo fu l’impulso iniziale di un discorso che pareva strozzarlo: «Dottor Albinò, sono qui a ringraziarvi per aver accettato l’incarico di maestro per mio figlio Gianrico», poi, senza attendere risposta, continuò: «Ho la fortuna di avere due figli, Gianrico e Tilda. Il primo compirà otto anni, la seconda sette».
Ettore ascoltava sorseggiando il marsala, il Conte, invece, non aveva ancora assaggiato il suo.
«Gianrico è, come dire, più svogliato nelle questioni d’intelletto che non nel fioretto. Ama l’arte della spada, tanto quanto odia lo studio. Avrete un osso duro da modellare». Il Conte fece una piccola pausa e finalmente assaporò il liquore.
«Spero di essere all’altezza ma sarete voi stesso a giudicare non appena concluso il primo semestre», rispose Ettore.
Il Conte scosse la testa per annuire, poi disse: «Non è su questo che voglio mettervi in guardia, bensì …». L’uomo s’interruppe come spossato, poi riprese: «Tilda, al contrario, è… posseduta da un demone, da una sete di conoscenza. Ho ceduto alle sue insistenze, permettendole di assistere alle vostre lezioni. Ora me ne dispiaccio. In ogni caso, Tilda ha l’ordine di rimanere in silenzio. Per lei, abbiamo previsto un percorso di devozione. Ha mostrato molto interesse per la Bibbia, sapete?».
Il tono del Conte diventò imperativo: «Vi chiedo, quindi, di non considerare Tilda. Intendo dire che voi sarete il precettore solo di mio figlio maschio. Questo è tutto».
Benché lo ritenesse ingiusto, Ettore era abituato a vedere le sorelline dei suoi alunni nascoste tra le tende a spiare le lezioni. Assentì chinando il capo.
Non sapeva, Ettore, quanto gli sarebbe stato difficile mantenere la promessa.
Già alle prime lezioni, colse negli occhi di Tilda una luce che si accendeva e si spegneva come un faro: era l’interesse seguito dalla delusione.
Quando Ettore domandava a Gianrico di risolvere una semplice operazione, Tilda, seduta in fondo alla stanza, lasciava cadere le mani lungo i fianchi, annoiata. Le dita, però, indicavano sempre il risultato esatto.
Presto egli comprese che la piccola aveva una dote quasi soprannaturale. Fu così che iniziò a dare lezioni silenziose alla bambina: a Gianrico spiegava le tabelline mentre su una parte della lavagna scriveva formule per Tilda.
Un giorno, Ettore disegnò la sequenza di Fibonacci. Gianrico l’osservò, poi disse: «È una chiocciola!». Tilda gonfiò le guance, quasi sbuffando, poi tracciò nell’aria il numero successivo.
I quesiti, le formule proposte da Ettore diventarono sempre più difficili. Gianrico, ancora incagliato sulle tabelline, agitava le gambe guardando ora la lavagna,ora la finestra, senza fare caso alla sorellina che, in piedi dietro di lui, rispondeva con le mani febbricitanti: Tilda aveva in sé un genio, non un demone. Ella avrebbe portato il mondo verso nuove scoperte.
Al termine del semestre, Ettore ebbe un colloquio con il Conte.
Si era preparato un lungo discorso sull’ineluttabilità di mettere il dono di Tilda al servizio dell’umanità.
«Voi non avete rispettato i patti, signor Albinò, pertanto vi prego di subito », disse il Conte con il collo che si arrossava dalla rabbia e con un tono che non ammetteva repliche.
Ettore non poté fare di più se non sperare che quella bambina trovasse il modo per affermare le sue capacità: se non era ancora tempo, lo sarebbe stato di lì a poco.

Prima di lasciare la casa, posò sulla cattedra il trattato di fisica che aveva appena pubblicato: Teoria del tempo, s’intitolava.
Uscendo, con la coda dell’occhio vide Tilda fiondarsi sul volume.
Le sembrò un topolino che aveva trovato il formaggio.

© 2018 LE PAROLE PER DIRLO. All Rights Reserved.