Il piccolo immobile, al cui interno sono sbucata alla vita negli anni ’50, apparteneva all’imponente e prestigiosa Industria per la quale lavorava mio padre. Stava incastonato tra molti altri, al terzo piano di uno di quattro affollati caseggiati, allineati come fiammiferi. Gli scrostati rivestimenti esterni mostravano un colore indefinibile, post bellico: un miscuglio di nero, grigio e giallognolo.
Le scale interne, con i loro parapetti e corrimano in legno, usurati e cedevoli, rappresentavano una costante insidia. Al piano terra, una buia e strettissima rampa conduceva ad uno scantinato, al cui centro giganteggiava l’oscura presenza di una porta tagliafuoco. Era stata posta a protezione di un misterioso “Rifugio di Guerra N° 47” e nessuno di noi bambini ebbe mai l’ardire di avvicinarsi troppo.
Per rispettare le condizioni imposte dall’Industria, (il Diktat!), ogni famiglia condivideva l’appartamento con un secondo nucleo. Con spazi vitali insufficienti e l’unica risorsa economica rappresentata dalla paga mensile dei papà, si era talmente poveri da disporre a malapena dello “stretto necessario”. Obbligati a “resistere per esistere”, rinunciando, fatalmente, a buona parte – anzi! alla parte buona – della vita.
Quando, negli anni ’60 la Fabbrica raggiunse il suo massimo splendore, in molti appartamenti si era già dovuto fare spazio ad altre famiglie operaie salite dal sud, i cui figli ci chiamavano “polentoni” per sentirsi apostrofare “terroni”. Purtroppo i comportamenti peggiorarono e le violenze fisiche e verbali si moltiplicarono.
I “grandi” stremati dal lavoro, usciti dalla Fabbrica al suono assordante della sirena, una volta giunti a casa si abbruttivano con l’alcool ed ogni minimo pretesto provocava scintille. Noi bambini assistevamo troppo spesso alle loro liti furibonde. Per questo, ma soprattutto per comportamenti ben peggiori!, i nostri sguardi infantili andavano perdendo presto la freschezza ed il candore dell’innocenza.
Quando urgeva fottere la fame, la tristezza o il senso di soffocamento che pativamo, una volta terminati i compiti, proprio tutti! si scappava fuori casa a giocare all’aria aperta, nei cortili o nei prati. Qui ci sentivamo amici fraterni, autentici compagni di sventura.
La nostra vera ancora di salvezza – il nostro bene supremo – era rappresentato esclusivamente dall’obbligo di frequentare la scuola, nonostante le non poche difficoltà di apprendimento. Lo studio ci consentiva così di starcene lontano dagli adulti, dai loro cattivi esempi, dai rimproveri incessanti e dai loro fuorvianti consigli. L’istruzione era in grado di supportarci nella crescita: apriva i nostri orizzonti, accendeva i nostri cuori e, per qualche spensierata ora, bruciava dispiaceri e paure.
7 Marzo 2017