La Fiamma del Drago

Un tuono. Un fragore improvviso che squarcia l’estate, il cielo si richiude su se stesso catturando l’aria sotto al suo mantello. Cala una notte cupa e inattesa che impone le sue leggi, spegnendo il tramonto con un soffio di aria fredda.

Una fila vociante di bambini varca la porta della biblioteca, accompagnati per mano dai grandi che, chiacchierando fra loro, di tanto in tanto si distraggono e si lasciano sfuggire qualche rincorsa e spintone. Sfilano uno dopo l’altro davanti al bancone dietro al quale, rigida nella sua postazione, Malva li osserva. Cerca di rimanere seminascosta dalla pila di libri da catalogare, non può sottrarsi però al saluto cordiale di alcuni dei frequentatori più abituali. Per quanto si sforzi di risultare antipatica, col desiderio di essere lasciata in pace a rimuginare sul suo passato, c’è sempre qualcuno che si mostra lieto di incontrarla.

Ormai consumata dal disappunto a Malva risulta sempre più difficile comprenderli. Non sembra anziana, forse dimostra una certa età per via del suo modo di vestirsi così intessuto di trascuratezza e insoddisfazione. Tuttavia ogni congettura sui suoi anni si rivela inutile, più che un segreto ben tenuto la data della sua nascita ha tutte le sembianze di un autentico mistero, come se si parlasse di epoche lontane.

Dall’altro lato dei suoi occhiali i bambini corrono verso l’angolo dei giochi, cercano il loro preferito rovistando nelle ceste, ridono del loro disordine mentre le chiacchiere degli adulti formano un costante brusio. Malva ne ha vista tanta di confusione nella sua vita, non è il trambusto a disturbarla, ma spensieratezza e gioia, certa ormai che i suoi giorni lieti se ne siano andati e non ritorneranno più. Non sopporta le aperture serali della biblioteca, ma non può negare che qualche ora di straordinario le faccia comodo. Un altro rimpianto, mai nella sua esistenza ha dovuto preoccuparsi della sua sopravvivenza, come in questo tempo.

Il tormento di tali emozioni rimbomba tra le sue tempie. Mentre osserva le persone che affollano la biblioteca solleva un sopracciglio, il destro, ma non per qualche inconscio riflesso, nessuna delle azioni da lei compiute è mai stata involontaria. In quello stesso istante un tuono tremendo fa tremare i vetri della stanza, una pioggia nera comincia a battere sui muri ammutolendo il mormorio delle voci all’interno. Gli adulti si affrettano a salutare i bambini e corrono via, verso i portici al di là della strada.

Rimane soltanto un ragazzo insieme ai piccoli avventori, li richiama intorno a sé e li fa sedere su un tappeto, circondati da giocattoli di legno e libri colorati.

“Questa sera raccontiamo una storia… la volete sentire?”

“Sìììì!” Rispondono in coro i bambini.

“Questa però non è una storia come le altre, lo sapete perché? È una storia vera…”

“Le storie non sono vere!” Commenta una bambina.

“Chi lo può mai dire? È successo tanti anni fa, qualcuno ci crederà, qualcuno no.”

Lo sguardo di Malva si sporge oltre lo schermo del computer, curioso di ascoltare.

“Lo sapevate che mille anni fa, proprio dove oggi si trova il vostro paese, si estendeva un’immensa palude, la terra era ricoperta da un velo d’acqua da cui emergevano isole, umide boscaglie e canneti, formando un intricato labirinto dove si procedeva solo a bordo di lente imbarcazioni con il fondo piatto. Una volta avventuratisi in mezzo agli acquitrini era difficile orientarsi e si potevano perdere i punti di riferimento, rimanendo invischiati fra vegetazione e fanghi insidiosi. Le acque si estendevano per chilometri e chilometri, la palude diventava un lago immenso su cui la nebbia non si sollevava mai. Gli abitanti delle città, Lodi, Crema, Cassano, al sicuro dentro le loro spesse mura di pietra, lo chiamavano Lago Gerundo.

“Questa brava gente, rispettosa delle leggi e osservante dei precetti religiosi, si guardava bene dall’inoltrarsi oltre le rive del lago. Sapeva che al di là di quel muro di quel muro di nebbia si aggiravano spettri, un popolo che parlava una lingua antica, venerava déi pagani e offriva sacrifici al Drago. Il nome di questa temibile creatura era…”

“Tarantasio…” Sussurra Malva allo scoppio lontano di un nuovo tuono.

“Tutti quanti sappiamo che cosa si fa quando un paese è infestato da un drago, giusto? Bravi, si chiama un valoroso cavaliere per ucciderlo e liberare il contado dall’orrendo flagello. Volete sapere come si chiama l’eroe che sconfisse Tarantasio? Non ve lo posso dire, poiché nessun avventuriero che si fosse inoltrato nel Gerundo a caccia del mostro è mai tornato.

“Nel corso dei secoli il lago è stato bonificato, vuol dire che sono stati scavati dei canali che hanno permesso a tutta l’acqua di defluire, lasciando al suo posto una grande e fertile pianura. Forse il Gerundo si è portato via con sé il suo terribile drago, chi potrà mai saperlo? Scomparve così, senza lasciare traccia.”

Un nuovo boato fa sussultare i bambini sul tappeto, una lama di luce strazia quel buio corporeo che inghiotte il mondo oltre i vetri delle finestre. Le lunghe lampade al neon sul soffitto della biblioteca emettono un inquietante ronzio fino a spegnersi. Per un momento vi sono solo buio e silenzio, poi qualche bambino comincia a gridare ma il ragazzo li rassicura, non è successo nulla, è solo un’interruzione dell’elettricità.

Un bambino si alza e cammina verso il banco dei prestiti. Malva lo sente arrivare, piccolo e impaurito ma determinato a non lasciarsi sopraffare dall’oscurità che lo circonda. Si avvicina alla bibliotecaria, avverte soltanto il profumo erbaceo dei suoi vestiti, la sente che armeggia con alcuni oggetti finché come per incanto i suoi occhi increduli tornano a vedere.

Ciò che scorge è il volto della bibliotecaria rischiarato da una luce tremolante, le sue labbra contratte soffiano piano sullo stoppino di una candela. Non ha in mano altro che questa, il suo respiro calmo, infuocato,e la fiamma che divampa davanti alla sua bocca.

Pioggia

Mino si guardò intorno sconsolato, scacciando infastidito un moscone che si ostinava a girargli intorno. Ormai erano mesi che non pioveva, il suo campo coltivato a granturco aveva da tempo perso il colore verde delle tenere foglioline e le pannocchie stentavano a crescere, secche e protese verso l’alto come in uno strenuo tentativo di ricevere qualche goccia consolatrice.
«Per annaffiarle mi rimane solo il mio sudore», pensò disperato. Tocco le pianticelle rinsecchite con le dita callose di chi la terra l’ha lavorata per tutta la vita e la conosce bene, fin troppo bene per sperare in un capovolgimento della sorte.
«Quest’anno il raccolto rischia di essere compromesso», si disse quasi con rassegnazione. Pensò a sua moglie, a cui da tempo nulla riusciva a strappare una risata, e che contava sempre meno su di lui per il vivere quotidiano, a suo figlio che aveva perso ogni fiducia nel futuro e alla terra non voleva più pensare, ai progetti di vita che anno dopo anno andavano in fumo, bruciati dalla stessa arsura che stava prosciugando la vitalità dai suoi campi.
Eppure quella era la vita che da generazioni aveva sostenuto la sua famiglia, quelli erano i terreni che si erano tramandati di padre in figlio. Non conosceva altro, Mino. Non si era mai spostato dai confini delimitati dalle sue rogge.
Un tempo, i campi maturavano rigogliosi e gli anni sterili erano pochi, catastrofi naturali come grandinate o siccità venivano raccontate dai vecchi ai bambini a cui la sera, raccolti nel granaio per scaldarsi a vicenda, raccontavano le storie di messi perdute, disperazione e ripresa fra difficoltà superate e nuove sfide all’orizzonte.
Una vita faticosa ma a cui nessuno avrebbe mai pensato di poter rinunciare: la terra era il loro destino, la loro ragione di essere.
Ora però tutto era cambiato. Ogni anno era più caldo, meno piovoso, e i raccolti si facevano sempre più striminziti.
«Acqua, serve acqua! Dio del cielo, o comunque tu ti chiami: se ci sei, se mi ascolti, fai piovere, fai bere i miei campi e restituiscimi la mia vita!».
Uno sguardo al cielo e uno alla terra secca, rimase fermo ancora un po’, come in attesa.

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