Papà, radice e luce,
portami ancora per mano
nell’ottobre dorato
del primo giorno di scuola.
Le rondini partivano,
strillavano:
“fra cinquant’anni
ci ricorderai”.
Maria Luisa Spaziani, Papà, radice e luce
Una passata di rossetto leggero sulle labbra, due gocce di profumo ai polsi, mi do un’ultima occhiata allo specchio. Sono pronta.All’uscita di casa vengo salutata dalla bellissima giornata di sole, una carezza di calore sulla pelle ad annunciare che la primavera è alle porte e la vita si risveglia. Mi sento carina e leggera nel mio vestitino a fiori mentre mi reco all’appuntamento con l’uomo più speciale di tutto il mio mondo. Eccolo lì, già seduto al tavolino del bar, che mi sta aspettando.
Mi vede arrivare e mi saluta con un grande sorriso e gli occhi luccicanti di gioia.
«Ciao papà, che bello rivederti!» esclamo mentre mi faccio avvolgere dal suo abbraccio, morbido e rassicurante.
«Mi sei mancato, papi. Non farmi più questi scherzi di non farti vedere così a lungo. Sei che ho sempre bisogno di sapere tutto, come stai, se va tutto bene, se sei sereno».
Lui mi rivolge uno di quei suoi sorrisi dolci, quasi malinconici, che hanno sempre avuto il potere di smuovermi un mondo dentro al cuore.
«Eh, come vuoi che vada. Tutto il giorno nel mio laboratorio a ricavare porta penne con i ferri di cavallo. Che fra l’altro ho quasi esaurito. Quando me ne porti altri?»
Ora, mio padre chiama laboratorio un cantinotto buio e polveroso che, secondo me, non gli fa neanche troppo bene alla salute ma, finché si tiene occupato, tutto sommato è il male minore e quindi lo assecondo.
«Presto ti porto altri ferri, non è che posso sferrare i cavalli apposta con quello che costa il maniscalco, non ti pare?».
Dalla sua smorfia poco convinta capisco che sì, a lui invece parrebbe. Ma preferisce cambiare discorso.
«Ordiniamo?».
Faccio un cenno al cameriere: «Due cappuccini con molta schiuma e una spruzzata di cacao».
Quando arrivano, mio papà si tuffa goloso nella sua tazza. Ne riemerge con i baffi bianchi e marroni. Prendo un tovagliolino, ridendo: «Fai proprio come i bambini! Aspetta che ti pulisco la faccia, non ti si può guardare!».
Torniamo seri, come se avessimo esaurito gli argomenti della classica conversazione di chi non si vuole impegnare in qualcosa di più coinvolgente, forse per pudore di mostrare i propri sentimenti. Quante cose vorrei dirti, papà mio! Sono stata una brava figlia? Ho mai saputo farti capire quanto io ti ami e quanto bisogno ho sempre avuto di te? Ti ho reso felice?
Chissà se anche il tuo silenzio è, come il mio, riempito da mille domande inespresse. Vorrei non lasciarti andare più, ti afferro le mani, come se bastasse per trattenerti ancora. Ma il tempo stringe inesorabilmente. C’era il sole, ora il cielo è già buio. Come è possibile?
«Sai che devo andare ora», mi sgrida con gentilezza staccandosi dalla mia presa.
«Lo so, papi. Ma è troppo triste questo pensiero. Quando ci rivedremo?»
«È compito tuo più che mio. Io faccio tutto il possibile ma sei tu che mi devi chiamare, è così che funziona».
«Va bene, papà. Allora ti lascio andare, per il momento. Arrivederci al prossimo sogno!».