Mi chiamo Sofia e oggi compio 50 anni.
Per essere più precisa, mi chiamavo Sofia e oggi avrei compiuto 50 anni se mio marito, 20 anni fa, non mi avesse uccisa.
L’uomo che aveva giurato davanti a Dio e agli uomini di amarmi, onorarmi e rispettarmi sempre, nella buona e nella cattiva sorte, mi ha strappata alla vita e a nostro figlio di soli 5 anni in quello che, dai giornalisti dell’epoca, fu descritto come un delitto passionale, frutto del raptus di un uomo che non voleva rinunciare alla donna che amava.
A me non fu possibile parlare e raccontare la mia versione dei fatti: non avevo più una voce per farlo, mi si era strozzata in gola insieme all’ultimo respiro che ho esalato. Avevo appena compiuto 30 anni e avrei voluto vivere con tutte le mie forze, vedere crescere mio figlio Luca proteggendolo con tutto l’amore di cui una madre è capace, quell’amore che mi aveva fatto trovare il coraggio e la forza di scappare da un marito violento.
All’inizio lui era sembrato diverso, anche se a mia madre non era mai veramente piaciuto. Lo aveva annusato, con l’istinto di una chioccia che difende i suoi pulcini. «Ha gli occhi brutti, non è sincero», mi aveva ammonita. Ma io avevo poco più di 20 anni e me ne ero innamorata con l’irruenza della mia età.
Di lui mi erano subito piaciute le mani. Forti, grandi, mani da lavoratore. Me le immaginavo ad accarezzarmi il volto, a stringermi a sé in un abbraccio. Mani in grado di proteggermi, di farmi sentire a casa.
Mai avrei potuto immaginare, nemmeno nei miei peggiori incubi, che quelle mani invece si sarebbero strette, strette, strette attorno al mio collo fino a soffocarmi.
Lui era più grande di me, un uomo fatto. Proprio quello che cercavo, essendo rimasta orfana di padre da bambina.
I primi tempi del matrimonio furono abbastanza felici, nonostante lui si fosse rivelato gelosissimo e possessivo. Io avevo occhi e cuore solo per lui, eppure non gli bastavo mai.
Non cucinavo bene, non sapevo tenere pulita la casa a dovere, non ero una vera donna neanche a letto. Di mandarmi a lavorare non se ne parlava neanche, nonostante il mio diploma. «A te ci penso io perché io sono l’uomo. Tu fuori di casa ci esci solo con me», affermava con convinzione. Forse era geloso anche della mia istruzione, lui che non aveva finito le superiori per andare subito a lavorare. «Le donne non devono riempirsi la testa di sciocchezze, altrimenti finiscono come te, una buona a nulla», mi ripeteva di continuo come un mantra al quale, alla fine, anch’io ho cominciato a credere.
Non mi accorgevo neanche che ogni giorno mi spegnevo un poco di più. Poi finalmente rimasi incinta e la mia vita cambiò: quando mi misero in braccio Luca, il mio bambino bello e perfetto, tutto acquistò finalmente un senso.
Così mio marito ebbe una ragione in più per dispiacersi di me. Non ricordo se cominciò prima a picchiarmi e poi a bere ma ricordo bene entrambe le cose: le sue guance rosse di vino e le mie nere di lividi.
Quando mi picchiava cercavo di farmi piccola, di non fare rumore per non svegliare Luca e non farlo assistere alla scena. Poi le sberle non bastarono più e cominciarono le botte cattive, a calci e pugni e a ricoveri in pronto soccorso con le ossa rotte.
Io non lo denunciavo. Avevo paura. «Vuoi lasciarmi? Il bambino resterà con me, lo crescerò come un uomo», mi minacciava mio marito, e io gli credevo. Cosa avrebbe potuto fare da sola una nullità come me?
Poi, quando Luca stava per compiere 5 anni, la svolta che segnò per sempre le nostre vite: mio maritò alzò le mani anche su di lui. «Viziato e pusillanime come tua madre, ti insegno io l’educazione!». Urlava e picchiava il mio bambino, poi anche me perché cercavo di difenderlo. Quando finalmente crollò sul letto a smaltire la sbornia e il cattivo umore, ebbi il tempo sufficiente per radunare poche cose in una valigia e scappare insieme a mio figlio.
Ci rifugiammo da mia madre che ci accolse a braccia aperte. A casa sua cominciò la mia seconda vita, bella ed entusiasmante ma purtroppo così breve!
Durò qualche mese, il tempo per rivolgermi a un centro antiviolenza per ricevere aiuto, denunciare mio marito e iniziare le pratiche per la separazione.
La sera del mio omicidio, avevo da poco compiuto 30 anni, stavo tornando a casa dal mio primo giorno di lavoro. Ero inebriata di felicità: avevo trovato un buon impiego, ero in grado di pensare a me e a Luca e rifarmi una vita. Il futuro era pieno di promesse. Per quello forse non ho notato l’ombra nera proprio dietro di me. Era mio marito che mi aveva seguita fin sotto casa. Il tempo di aprire il portone e me lo sono trovato addosso.
Io sono sicura di avere lottato con tutte le mie forze. Ho urlato, ho scalciato, ho graffiato. Nessuno, nessuno nel palazzo ci ha sentiti. Nessuno è corso in mio aiuto. Mia madre era fuori con mio figlio, almeno loro non hanno dovuto assistere al mio omicidio.
Quanto dolore ho patito! Ogni istante che è passato mentre la vita mi lasciava è stato duro e cattivo come una coltellata. Poi il pensiero di Luca, io volevo vederlo crescere, volevo stare con lui! Non potevo morire, non potevo. Quanto ho lottato!
Poi improvvisamente il dolore è cessato. È stato come se l’androne buio si riempisse di luce e io, dall’alto, potevo osservare la scena. Un uomo ansimante curvo su un corpo di donna. Un manichino senza vita, con il collo spezzato.
Con orrore, mi resi conto che quel corpo era il mio. Ero morta! Finito il dolore, cominciò l’odio. Un odio profondo, un rancore senza fine che mi accompagnò ogni giorno mentre vagavo nella mia valle oscura.
Passarono quelli che per voi viventi furono anni, per me furono solo un tempo indefinito, senza notte o giorno. Non abbandonai mai mio figlio. Lo vidi diventare grande grazie a mia madre, quella donna coraggio che, dopo aver cresciuto da sola una figlia, crebbe da sola anche il suo nipote.
Mio marito lo mandarono in galera per scontare una pena irrisoria. Sarà stato anche tutto il male che gli ho augurato, fortunatamente un giorno il suo cuore ha smesso di battere dopo l’ennesima bevuta eccessiva. Non l’ho mai incontrato qui nel mio mondo di ombre, spero che sia andato direttamente all’inferno.
Un giorno, seguii mia madre e mio figlio, ormai adolescente, fino alla piazza principale del nostro paese. Avevano il vestito delle occasioni importanti e il volto serio. Si tenevano per mano, chissà se potevano sentire che anche la mia stringeva la loro.
In piazza s’era radunata molta gente. Erano tutti lì per inaugurare una panchina, un simbolo contro la violenza alle donne, rossa come il sangue innocente da loro versato.
Dopo il sindaco prese la parola mio figlio. Il mio Luca, quanto mi ha saputo rendere orgogliosa! Ha parlato di me, della sua mamma strappata alla vita a soli 30 anni, uccisa da un mostro. Mentre non sapeva trattenere le lacrime ringraziava per quella panchina, perché tutta la città mi avrebbe ricordato per sempre insieme a lui.
È passato del tempo da quel giorno e arriviamo a oggi, il giorno in cui avrei compiuto 50 anni, il giorno in cui ho ritrovato la voce per raccontarvi la mia storia.
Ho seguito ancora mio figlio, che questa volta teneva per mano una ragazza giovane, fino alla panchina rossa. Si sono seduti che ancora si tenevano per mano e lui le ha raccontato di me. «Ho ereditato il sangue da mio padre – le ha spiegato – ma il cuore no, quello l’ho preso da mia madre. Oggi ti ho portato sulla panchina rossa a lei dedicata per prometterti che, se accetterai di sposarmi, ti rispetterò come donna, come moglie e come amica e, un giorno, anche come madre dei nostri figli. Te lo giuro sul sangue versato dalla mia mamma».
Mentre lei gli diceva di sì, e si abbracciavano piangendo, qualcosa dentro di me si è sciolto e mi sono sentita finalmente libera. Mio figlio era al sicuro, la sua futura moglie era al sicuro, i loro figli sarebbero stati al sicuro. Per me era arrivato il tempo di abbandonare l’odio e il dolore.
Un ultimo sguardo verso i miei cari, un ultimo pensiero. Ora è tempo di andare verso la luce.