Fortunato e la principessa azzurra

Fortunato, così lo avevano chiamato i suoi genitori. Peccato che nella sua vita, di fortuna, ne avesse avuta poca.

Almeno sino il giorno prima, quando il capo, un signore grande e grosso da sembrare un pachiderma, lo aveva chiamato per andare in aeroporto a prendere Samantha. Samantha Mason.

A Fortunato, non parve vero quando il Direttore commerciale lo convocò per chiedergli di andare a prendere Samantha Mason, top manager del cliente più grande della loro azienda. «Pensa, ha solo trent’anni ed è già la figura più importante», così gli disse il capo, poi aggiunse: «Non mi far fare brutte figure. Ne va di tutti i nostri contratti, e del tuo posto di lavoro, conseguentemente».

Fortunato era tornato alla sua scrivania. Per qualche istante, incredulo, fissò lo schermo. Un suo collega chiese: «Bronto, tutto bene?». Già perché in ufficio nessuno riusciva a chiamarlo Fortunato. Per loro era Bronto. I motivi erano due: la sua sinusite e la sua somiglianza con un Brontosauro.

Infatti, la natura gli aveva assegnato una certa irregolarità nelle proporzioni. Aveva la testa minuta rispetto al collo. Le spalle strette rispetto ai fianchi e alle gambe, stranamente tozze. I denti piccoli e distanti, come gli occhi. Non era certo un adone, ma compensava magnificamente con due cose: Il senso dell’umorismo e un romanticismo quasi agghiacciante. Sognava la principessa azzurra sul cavallo bianco che lo avrebbe portato nel suo castello.

E quel giorno, la principessa azzurra, sarebbe arrivata. A Malpensa. Se il capo aveva pensato di mettergli paura, si sbagliava. Lui aveva iniziato a sognare.

Fortunato si era preparato per bene, la divisa aziendale fresca di lavanderia, sbarbato e profumato. Aveva anche pensato di accoglierla con un mazzo di fiori. Il miglior benvenuto per una principessa.

Per tempo, si era messo in macchina. Non voleva tardare. Ma si sa, a Fortunato qualcosa andava sempre storto.

Quel giorno, sulla tangenziale, il traffico era bloccato. Un camion ribaltato o qualcosa del genere. Fortunato aveva iniziato ad angustiarsi, batteva le mani sul volante. Alla fine raggiunse l’aeroporto proprio mentre il volo di Samantha stava atterrando. Trovare parcheggio gli prese qualche minuto di troppo, poi, quando stava varcando la soglia degli arrivi, dovette tornare indietro, alla macchina, perché aveva dimenticato il mazzo di rose e il biglietto con il nome di Samantha Mason. Quando finalmente raggiunse la sospirata meta, si sentì per un attimo smarrito. Cercava febbrilmente un posto, dove mettersi nella ressa di gente che pareva essere vomitata dal gate. Per di più, un cingalese continuava a tallonarlo, forse attratto dalle rose. All’inizio, Fortunato lo evitava semplicemente, poi quando si era fatto insistente, lo aveva mandato al diavolo: «Ma vai a fanculo!», più propriamente gli disse. Per poco non gli aveva messo le mani addosso.

Finalmente Fortunato si era piazzato in prima fila agli arrivi. Mazzo di rose in bella vista e cartello un po’ alzato, affinché le persone che uscivano potessero vederlo.

Purtroppo, Samantha Mason non lo raggiunse. Forse, si disse, era già sbarcata. Sicuramente aveva preso un taxi per andare in ufficio. Fece un po’ di giri in aeroporto, con le rose e tutto il resto. Ma niente. Solo il cingalese rompiballe. Fortunato era così disperato che piazzò in malo modo il mazzo di rose tra le mani del cingalese, fece a pezzi il cartello e si diresse verso la sua macchina. Non aveva il coraggio di tornare in ufficio. Men che meno di chiamare il capo per giustificarsi.

Riprese la tangenziale, ma era talmente angustiato da sbagliare l’imbocco almeno due volte.

A un certo punto, ovviamente, fu il capo a chiamare lui. Parlava a bassa voce per non farsi sentire, il tono come un sibilo di serpe, le parole dette tutto di un fiato: «Dove sei che Samantha Mason è già qui».

Fortunato farfugliò qualcosa, il traffico bloccato, il camion ribaltato, ma il capo aveva già messo giù.

Quando entrò al lavoro, si diresse mestamente verso l’ufficio del Direttore. La porta era chiusa. In ogni caso, Fortunato si aggiustò la cravatta della divisa, i capelli, fece un bel respirone e bussò. Voleva scusarsi con il capo e con Samantha. Si era già preparato il discorso, qualche battuta per stemperare la tensione e per accattivarsi la top cliente. Qualcosa tipo: «The devil in the traffic[i]».

Quando disse: «Mi scusi, sono…», sentì la voce del capo interromperlo e dire: «Just a moment, please. Un momento per favore. Ti chiamo dopo».

Fortunato sentì di aver di nuovo pestato qualche uovo.

Si diresse alla scrivania. I colleghi erano stranamente silenziosi. In ufficio aleggiava un’aria diversa. Lui aveva salutato distrattamente, apposta, perché non voleva che nessuno gli chiedesse nulla.

Si era buttato subito a leggere le mail, così per distrarsi. Infatti, quando il telefono sulla scrivania squillò, Fortunato fece un salto sulla sedia.

Era l’interno del direttore. Alzò la cornetta così di fretta che gli scivolò di mano e cadde a terra. La raccolse più in fretta che poteva, quando rispose, sentì il capo fare un sospiro. Un sospiro di quelli che fanno i vulcani prima di eruttare. Comunque disse solo: «Vieni qua».

Fortunato si lisciò i capelli con le mani e nel farlo, si rese conto di puzzare di sudore. Il deodorante non aveva retto. Cercò di ritrovare tutta la sua baldanza, voleva essere positivo, così a lunghi passi tornò verso l’ufficio del direttore, spalancò la porta e rimase immobile come un fermo immagine.

Davvero non riusciva nemmeno a respirare, nel vedere Samantha Mason. Samantha Mason. Samantha cognome, Mason nome. Samantha, cognome di origine dello Sry Lanka. Mason, nome del cingalese che continuava a tampinarlo all’aeroporto. Le rose erano buttate sul tavolino, malamente.

Fortunato ebbe, per la prima volta in vita sua, uno svenimento.

 

[i] Parafrasi di ‘the devil in details’, associabile al nostro ‘quando il diavolo ci mette la coda’.

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