Sapevo che sarebbe arrivato questo momento e ora che sono qui temo di non essere pronto.
È la mia prima volta, ho il fiato corto, mi tremano le gambe.
Non ho avuto scelta ma adesso questo è il mio dovere, non posso tirarmi indietro. Chissà se Dio potrà perdonami.
Devo concentrarmi, frenare l’ ansia,
è solo un piccolo movimento ma che cambierà anche la mia vita, per sempre.
Mi dicono di non incrociare gli sguardi, sarà più facile.
Un colpo preciso senza esitazione.
Fuoco!
Il fuoco della passione
Florence sentiva un sacro fuoco ardere dentro di sé. Non un fuoco qualunque, ma una di quelle fiamme che ti fanno sentire invincibile, destinato a grandi cose. Peccato che il fuoco di Florence fosse alimentato dal carburante sbagliato: l’assoluta convinzione di essere una grande cantante.
Fin da piccola aveva deciso che avrebbe coltivato questo suo talento innato. Durante una recita scolastica, mentre tutti gli altri bambini cantavano “Jingle Bells”, lei, senza alcun preavviso, aveva trasformato la melodia in una specie di assolo metal. L’insegnante aveva pianto, ma non per commozione.
L’anno successivo pensò a una crudele beffa del destino quando, alla nuova recita, le assegnarono la parte della sirenetta che, a causa di un sortilegio, era diventata muta. «É un delitto sprecare una voce come la mia!» aveva protestato invano.
Crescendo, iniziò a esibirsi ovunque: compleanni, matrimoni, persino funerali. Una volta cantò Amazing Grace durante la commemorazione funebre di uno zio, e il prete si dovette fermare per spiegare ai presenti che l’ululato che era risuonato per tutta la chiesa non era un segno apocalittico.
Lei, sorda a ogni critica o consiglio, tirava dritto per la sua strada. «Ho il fuoco della passione!», diceva, e chi lo ascoltava pensava che fosse piuttosto un incendio fuori controllo.
Decise di iscriversi a un talent show locale chiamato “Falling Stars”. Lì, di fronte a una giuria composta da un macellaio, un’insegnante in pensione e un DJ che sembrava allergico alla vita, Florence diede il meglio di sé. O il peggio, dipende dai punti di vista.
Scelse di cantare “My Heart Will Go On”. Ora, immaginate un cinghiale innamorato che grugnisce alla luna dopo una sbronza epica: quello era il livello. I giudici non sapevano se ridere o chiamare un veterinario. Quando finì di cantare, ci fu un silenzio surreale, poi la gente cominciò a fischiare e a lanciare pomodori.
Nonostante il fallimento, Florence non si arrese: «La passione vincerà su tutto!» insisteva, mentre la sua famiglia disperata si barricava in casa ogni volta che lei tirava fuori il karaoke.
Un giorno, però, accadde qualcosa di straordinario. Durante una sagra di paese, il sistema audio si guastò. La gente iniziò a rumoreggiare e il presentatore, disperato, chiese a Florence di cantare a cappella per intrattenere il pubblico. «Almeno tireranno i pomodori a lei e non a me!» pensava.
Lei salì sul palco con la stessa sicurezza di un elefante, ignaro della sua stazza, che entra in un negozio di porcellane. Cominciò a cantare una versione improbabile di “My Sharona” e qualcosa di magico accadde: il pubblico scoppiò a ridere. Ma non una risata cattiva, bensì una risata contagiosa, sincera. Florence, senza saperlo, aveva trovato il suo vero talento: far divertire le persone.
Da quel giorno, abbandonò i sogni di essere una cantante famosa e divenne l’attrazione comica più richiesta delle sagre di tutta la provincia. Il fuoco della passione bruciava ancora ma, finalmente, aveva trovato la sua vera vocazione: portare gioia, stonature e un po’ di follia ovunque andasse.
E così visse felice, storta e (quasi) contenta.
La vita come il fuoco
Alberto sedeva elegantemente sulla poltrona di seta, souvenir di qualche viaggio di sua madre, la Contessa. La donna aveva almeno una mezza dozzina di cognomi, ma per tutti, era semplicemente la Contessa Madre. Anche per Alberto.
Di fronte a lui, Morando, l’amico di sempre: nobile, ricco, vizioso, dedito all’ozio e all’arte della conversazione salace. Se ne stava annoiato, steso sul canapè di pregiata fattura, sul quale pare che Lincoln sognò le premesse del XIII emendamento: l’abolizione della schiavitù.
Alberto si alzò per rintuzzare il fuoco. Nel grande camino si levarono faville come lucciole rosse deliranti. Dalla legnaia in argento prese un ciocco e lo gettò sulle braci producendo altri barbagli e un suono sordo e stridente di tizzoni smossi. Come affamato, il camino prese ad ardere con schiocchi riconoscenti.
Morando rivolse lo sguardo velato dall’oppio all’amico: «Mio caro Alberto, non pensi che la vita sia come il fuoco. Occorre sempre alimentare le giornate con fiamme. Grandi fiammate, altrimenti ti spegni. E presto diventi cenere».
Alberto prese qualche secondo prima di rispondere. Tornò a sedersi sulla poltrona sollevando leggermente i pantaloni di vigogna per accavallare le gambe.
«Piuttosto mi chiedo se sia meglio una vita, un fuoco, che bruci costantemente. Se pensi che siano le fiamme a dare calore, allora rischi di fare solo falò di saggine che crolleranno senza nemmeno scaldare. Non è forse meglio un buon ceppo, pesante e secco, che lentamente si consumi in un quieto calore?».
Morando si ravviò il ciuffo riccio che gli cadeva su un occhio. «È per questo che hai deciso di prendere moglie la prossima primavera?», gli chiese con un tono sarcastico.
Alberto incrociò le mani afferrandosi le ginocchia. Era per quello?, si chiese. Il suo matrimonio era combinato dalle famiglie. Non aveva ancora conosciuto la futura sposa. Lo avrebbe fatto quella sera stessa. Nel grande salone fervevano i preparativi per la cena di gala e danze a seguire.
«Lo spero tanto», rispose Alberto più a se stesso che non all’amico.
Improvvisamente, udirono un rumore d’auto. Lo stridore dei freni e lo sbattere di portiere incuriosì i due amici.
Le voci dei domestici si sovrapposero a quella della Contessa Madre, la quale, dopo qualche istante, aprì le porte della stanza del camino, tossicchiando per l’intrusione.
I ragazzi si girarono e videro la donna con le guance paonazze e gli occhi in fiamme. Dietro di lei s’intravvedeva una figura esile. Se non fosse stato per i lunghi capelli neri, si sarebbe detto che fosse un ragazzino. Era invece una donna, vestita da cavallerizza, con giacca, pantaloni e cappello in tweed.
«Alberto, mio caro, ho il piacere di presentarti la marchesina del Brenno degli Infant…».
La ragazza si fece avanti. Ringraziò la donna con un inchino che aveva qualcosa di voluttuoso e sarcastico al tempo stesso.
Alberto e Morando rimasero a fissare come statue colei che sarebbe stata la futura sposa.
Non era solo la bellezza che rendeva quella donna speciale. Erano piuttosto i suoi occhi, vivi, sfrontati, divertiti. E le fossette. Due fossette sulle guance che delimitavano un sorriso aperto, franco.
«Cecilia», si presentò avanzando nella stanza con movenze sinuose. Lo faceva apposta, si capiva. La Contessa Madre era così scandalizzata dall’esser prossima a una crisi isterica.
Alberto si alzò all’istante per protendere la mano. Quando strinse quella piccola di Cecilia, percepì una lieve scossa. Morando si era messo seduto senza staccare gli occhi dalla ragazza.
«Contessa Madre, può lasciarci soli qualche minuto?», chiese Alberto sperando che uscisse di scena per darsi una calmata.
«D’accord mon cher, a bientôt petit marquise. Le diner sera servi d’ici dans un peu plus d’une heure». Faceva sempre così la contessa madre. Se qualcosa la turbava, usava il francese.
E certo, una futura nuora che si presentava sola, in largo anticipo e senza abito da sera era quantomeno disdicevole. La Contessa Madre girò impettita lasciando che il domestico richiudesse le porte.
«Cecilia, permettetemi di presentarvi Morando, mio caro amico e fine intellettuale». Cecilia si sfilò i guanti. Alberto nemmeno si era reso conto di aver stretto una mano guantata.
Morando fece per alzarsi dal canapè ma Cecilia lo bloccò con un gesto assai elegante.
«Oh, rimani pure seduto. Mi tratterrò pochi istanti», disse Cecilia dirigendosi verso il camino e continuando a parlare rivolgendo loro la schiena: «Alberto, sono arrivata in anticipo per farti una domanda, una sola. Poi ripartirò e forse, in base alla risposta, tornerò per la soiree».
I due erano divertiti e paralizzati al tempo stesso.
Un’amazzone bellissima era piombata nelle loro vite rompendo qualsiasi schema del bon ton aristocratico.
«Non mi resta che tentare la sorte, Cecilia», rispose Alberto guardandola con un ardore che superava le fiamme del camino».
Cecilia si appoggiò alla trave e senza staccare gli occhi dal fuoco chiese: «Supponiamo che la vita sia come questo fuoco, tu come vorresti ardesse?».
Alberto rimase perplesso. Si chiese se la sua affermazione di prima fosse quella appropriata. Pensò di no, che non lo fosse.
E nemmeno quella di Morando lo era.
Rispose dopo qualche secondo: «Divampante e ardente di mattino, fiammeggiante e vivace nel pomeriggio, quieto e struggente la sera».
Cecilia sorrise. Alberto avrebbe voluto prendere quel viso tra le mani e baciare le due fossette.
«Tornerai?», le chiese come inebetito.
Cecilia si rimise i guanti senza smettere di sorridere. Si voltò e uscì dalla stanza salutando con un silenzioso cenno del capo. Il cuore di Alberto la seguì.
Quando la cena era ormai servita, Alberto avvilito, la Contessa madre inviperita e Morando contento, i domestici richiamarono l’attenzione per le presentazioni dei nuovi arrivati: «Il Marchese e la Marchesa del Brenno degli Infanti e loro figlia, la Marchesina».
Cecilia pareva splendere.
Alberto si alzò di scatto facendo cadere la sedia. Sentì che il suo cuore era tornato.