La bambina e la baby sitter

Roxana piangeva lacrime amare, chiusa nell’armadio per non farsi trovare dalla baby sitter. Era buio lì dentro e aveva paura che la vecchia serratura difettosa si inceppasse. Ripensava a quando la maestra, alla fine dell’anno, aveva premiato la classe con la lettura de “Il leone, la strega e l’armadio”. Erano in seconda, allora. Magari avesse potuto fuggire in un altro mondo attraverso l’armadio! Tastò il pannello di legno, ma era solido e inchiodato.

Il groppo che aveva in gola le aveva impedito di difendersi e spiegare perché non era colpa sua per ciò che era successo a Billy, così la baby sitter l’aveva ritenuta colpevole. Avrebbe riferito tutto ai genitori.

 

Roxana non aveva pianificato nulla. Era stata una specie di vocina dentro la sua testa che le aveva suggerito di prendere il coltello più grosso dal ceppo in cucina, prima di rifugiarsi nell’armadio. Quando la baby sitter, cercandola a gran voce, aprì l’anta dell’armadio, le si scagliò contro con un grido e affondò il coltello senza guardare. Giustizia era fatta!

 

La vista del sangue la fece barcollare. Sgorgò fuori con un ‘blob’, come nei fumetti, poi la sua mano fu investita da un liquido caldo e appiccicoso.  Puzzava.

 

Si ritrasse istintivamente,  gettò il coltello e scappò giù dalle scale senza sapere bene dove andare. La nonna! La nonna sicuramente le avrebbe offerto rifugio e protezione. In fondo, era l’unica parente vera che le fosse rimasta, dopo la morte dei genitori per un’overdose quando Roxana era piccola. I servizi sociali l’avevano sballottata da una famiglia all’altra, ma la nonna c’era sempre durante le vacanze estive e qualche volta anche nei fine settimana. Però era vecchia e malata, non poteva occuparsi di lei sempre, così le aveva spiegato l’assistente sociale.

 

Era stato facile scappare dalla prima famiglia quando l’avevano rinchiusa in casa da sola mentre andavano a fare compere. Con una forcina per capelli, in venti minuti Roxana era riuscita ad avere la meglio sulla serratura e se l’era svignata. Sfortunatamente l’avevano trovata subito dalla nonna e l’avevano rispedita a casa.

Nella seconda famiglia erano più guardinghi, forse li avevano avvisati. Le porte avevano dei catenacci che si potevano aprire solo dall’esterno. Scappare era impossibile. Lei però aveva escogitato un modo per  avvelenarli pian piano, mettendo una mezza pastiglia di sonnifero sbriciolata nella minestra ogni sera. Ogni settimana aumentava la dose. Quando era arrivata a tre pastiglie e mezza, la madre aveva avuto un incidente d’auto mentre era alla guida ed erano morti sia lei che il marito. Nessuno aveva sospettato nulla.

 

Così era finita nella terza famiglia, dov’era ora. All’inizio le cose sembravano andare bene, poi il fratello aveva cominciato a prendersi delle libertà. La picchiava quando i genitori non c’erano e aveva anche provato a spogliarla per “farle vedere come si fa”. Lei si era ribellata e lo aveva morso. Così era cominciata la guerra fredda tra di loro, a colpi di agguati.

 

La sera in cui i genitori erano andati al cinema avevano chiamato la baby sitter per curare entrambi. Roxana stava giocando nella sua stanza quando Billy era entrato senza far rumore. Le aveva fatto cenno con un dito sulla bocca di tacere. La schiena di Roxana si era irrigidita subito, tutti i suoi campanelli interni di allarme suonavano. Urlare subito o saltargli addosso prima che avesse modo di preparare una difesa? Optò per la seconda e gli si avvinghiò a una gamba. Gli arrivava fino al petto, in fondo Billy aveva solo quindici anni ed era pure in ritardo con lo sviluppo. Lo graffiò in viso e sulle braccia con tutte le sue forze, come un gatto, come una tigre. Il ragazzo non poté trattenere un urlo e cercò di scalciarla via. Lei ritornò alla carica con una gragnola di pugni che lui non si aspettava, cercò di restituirli, ma Roxana fu più veloce e lui non si muoveva più.

Fu a quel punto che arrivò la baby sitter, allertata dal fracasso che avevano fatto cadendo e rotolando in mezzo alla stanza.

 

Roxana scappò per i campi fino a una fermata dell’autobus, che aveva visto arrivare. Saltò su e scese al capolinea, prese la metropolitana e si avviò a casa della nonna, attenta a nascondere la mano insanguinata dentro il maglione. Qualche adulto la guardava un po’ più a lungo del solito, ma poi prevaleva il disinteresse e la paura di cacciarsi in qualche bega. Arrivò dalla nonna che era già buio. Sgattaiolò nel capanno degli attrezzi e aspettò che la nonna accendesse la luce della camera da letto. Solo allora si arrischiò a bussare tre volte contro il vetro. Era il loro segnale. La nonna sapeva che in quel modo bussava solo Roxana al vetro della finestra. Infatti si precipitò ad aprire la porta sul retro. Roxana entrò. Da principio la nonna non si accorse del sangue, non ci vedeva molto bene e la luce dell’abat jour era fioca. Era anche un po’ sorda, così Roxana dovette urlare per farsi comprendere.

 

Un vicino che era ancora in giardino a tagliare le piante nonostante il buio sentì tutto. Sentì come la bambina raccontò dell’attacco col coltello alla baby sitter e come chiese alla nonna di nasconderla.

Fu la sua testimonianza in tribunale che la inchiodò. Per l’omicidio della baby sitter fu condannata a sette anni di carcere. La nonna morì di crepacuore poco dopo la sentenza.

“Ti puoi rifare una vita” le dicevano le suore che venivano a trovarla in cella una volta alla settimana.

 

Quando riuscirono a spegnere l’incendio della villa di Sean Diddy Combs a Los Angeles fu trovato un cadavere carbonizzato. Sulla base dell’esame del DNA, gli esperti forensi determinarono che il corpo corrispondeva a un individuo di razza caucasica, di sesso femminile, di circa quindici anni, in stato avanzato di gravidanza.

Il mio nono compleanno

A scuola quest’anno abbiamo cominciato a studiare musica. La mia maestra di musica diceva che sono portata. Ho studiato le note facendo finta, disegnando i tasti del pianoforte sul banco. Per molti mesi ho supplicato mio papà di comprarmi un pianoforte, o almeno di noleggiarlo. Lui diceva sempre che non avevamo soldi per un pianoforte.

Due giorni prima del mio nono compleanno, il venerdì mio padre si è assentato tutta la mattina. Io ero a casa da scuola perché c’erano disordini e le scuole avevano chiuso prima.

Il giorno del mio compleanno mi sono svegliata presto, abbiamo fatto colazione tutti insieme e ho scartato i regalini che i miei genitori e i miei fratelli avevano messo sul mio piatto. Nel pomeriggio abbiamo fatto una festa in cortile: sono venuti i miei compagni di scuola e alcuni amichetti con cui gioco solitamente in strada. Abbiamo giocato a nascondino, soffiato sulle candeline della torta e mangiato patatine. A un certo punto si è fermato un furgone bianco e ha chiesto se abitava lì la signorina Haziz. “Sono io!” ho detto. “Ho una consegna per te” ha detto l’uomo. “Firma qui”.

Quando si è aperto il furgone, sono scesi altri tre uomini e in quattro hanno cominciato a spingere un’asse su rotelle su cui poggiava un grosso pacco nero imballato. Non senza fatica l’hanno trasportato in casa, io saltellavo intorno cercando di capire cos’era. Alle mie domande nessuno dava risposta.

Una volta in casa i trasportatori hanno lanciato uno sguardo d’intesa a mio padre e se ne sono andati.

Io ho cominciato a scartare il pacco, il mio cuore batteva forte. Non osavo nemmeno sperare.

Quando ho tolto il cellophane ai miei occhi si è presentato il più bel pianoforte verticale che avessi mai visto. Nero nero, lucido lucido, con una bella forma sinuosa e arrotondata, non spigoloso come quello della mia amica Fatima. Ho saggiato il do centrale, poi le note dell’ottava superiore, i bassi, l’ottava centrale. Aveva un suono meraviglioso, puro e cristallino. Non vedevo l’ora di suonarlo.

Mi sono messa in piedi così com’ero, senza nemmeno scartare lo sgabello regolabile. A un certo punto, dopo un bel po’ di tempo che suonavo in piedi, mia mamma me lo ha spinto contro le ginocchia e io mi sono seduta.

Oh felicità, gioia pura!

Ho provato tutti gli esercizi che solitamente suonavo sul banco, poi sono andata a prendere i libri di musica e ho cominciato a suonare pezzi nuovi, ne iniziavo uno, poi passavo subito al successivo e così via finché non diventavano troppo difficili.

Mia mamma sorrideva guardandomi. Sono corsa ad abbracciare mio padre e l’ho ringraziato stringendolo stretto stretto e stampandogli un grosso bacio sulla guancia. Mi è scesa anche qualche lacrima di gioia.

I miei fratelli guardavano divertiti e non troppo interessati. Mia sorella era troppo piccola per capire, ma era contenta pure lei, contagiata dall’allegria generale, percepiva che era un momento di festa, un momento bello.

I due giorni successivi dovetti andare a scuola. Contavo le ore che mancavano al suono della campanella per tornare a casa ed esercitarmi. Mi immaginavo che, ora sì, avrei potuto avere un grande futuro come pianista: viaggi all’estero, concerti, concorsi, fiori per me sul palco, applausi. Sapevo però che mi dovevo impegnare per ottenere tutto questo, dunque non volevo perdere nemmeno un minuto.

Due giorni dopo mio padre mi disse che dovevamo lasciare la città e andare per un po’ dalla nonna. Pensai che stesse male la nonna, invece mio padre disse che era scoppiata la guerra. Chiesi se potevamo portare con noi il pianoforte. “E’ troppo grande” disse mio padre. “Dobbiamo lasciarlo qua, ma torneremo a prenderlo”.

Raggiungemmo la nonna, che ci accolse con grande calore. Era contenta e sollevata di vederci. Il giorno dopo ricevemmo una telefonata dai nostri vicini di casa: avevano bombardato la nostra casa, il nostro soggiorno non esisteva più. Io non riuscivo a crederci. Il mio pianoforte nuovo! Il mio futuro!

Piansi a lungo.

Mio papà cercò di consolarmi: mi disse che, sì, sapeva che per me era un grosso dispiacere, ma la cosa importante era che noi fossimo tutti vivi. Quando i razzi cominciarono a colpire la città della nonna, sfollammo tutti insieme in  una città vicina che doveva essere più sicura, ma poco dopo arrivarono le bombe anche lì.

Nel frattempo papà era stato all’ambasciata turca a Tel Aviv e gli avevano concesso i documenti per imbarcarci tutti su una nave che andava a Istambul. Mio papà ha la doppia nazionalità palestinese-turca, così abbiamo potuto essere accolti qua. La vita è più tranquilla qua, vado a scuola, i miei compagni sono simpatici, ma a me manca il mio pianoforte.

Mi chiamo Raja Haziz e sono una bambina palestinese che ama la musica classica.