Quante volte diciamo “ti amo” nella vita?
Non contano i “ti amo” buttati in mezzo ad una frase tanto per dire, ma quelli detti sul serio, con il cuore che batte a mille, le pupille dilatate e le farfalle nello stomaco.
La tesi di Amy consiste nel fatto che i bambini lo dimostrano più frequentemente, attraverso l’affetto e la sincerità, gli adolescenti lo sussurrano sotto voce, ancora increduli di ciò che provano e un po’ timorosi nel dare il loro cuore in mano a qualcun altro, mentre gli adulti sono un genere a sé. Alcuni pretendono di basarsi sulle esperienze, più o meno negative, che si portano alle spalle facendo in modo, molto spesso, che quelle tre paroline non vengano mai più pronunciate e finiscano nascoste sotto pile di scuse e menzogne, a prendere polvere in un angolo remoto di sé.
Qualche giorno prima, mentre Amy stava parlando con una sua amica, si era decisa a chiederle di punto in bianco: «Secondo te cos’è l’amore?»
L’amica l’aveva osservata come si guarda un pazzo o qualcuno che non sa bene ciò che sta dicendo e le aveva sussurrato: «A me lo chiedi? Dovresti essere tu a dirmelo».
Amy l’aveva guardata con fare assente e poi si era girata verso la finestra aperta, come faceva sempre quando pensava ad una risposta sensata da dire.
Con fare deciso aveva risposto: «L’amore è un uomo che sta seduto in un bar la mattina prima di andare al lavoro, pensa alla carriera e alla Gazzetta sportiva che tiene tra le mani mentre sorseggia il suo caffè. Sente di essere soddisfatto, non ha bisogno di nulla. Ad un tratto, però, la porta del bar si spalanca e lei entra. In quel momento lui sa che nulla sarà mai più come prima». L’amica l’aveva guardata dubbiosa: «Beh allora non resta che scoprirlo», le aveva detto con un sospiro.
Quel pomeriggio Amy tornò al bar. Lo trovò al solito posto, con in mano un caffè e la Gazzetta sportiva aperta alla pagina dei risultati del campionato.
Mark teneva gli occhi fissi sulla Gazzetta anche se non la stava leggendo realmente. Mentre sorseggiava il suo caffè ripensava alla ragazza che aveva intravisto il giorno prima e di cui aveva incrociato lo sguardo. Gli aveva sorriso e lui era rimasto colpito dai suoi occhi sereni e remoti.
La sentì entrare nel bar con un brivido, come se improvvisamente stesse respirando aria fresca, e si voltò a guardarla.
Lei indossava un vestitino azzurro, con una gonna lunga. I capelli a caschetto le mettevano in risalto il viso, mentre gli occhi verdi brillavano.
«Indossa i colori del cielo e delle foglie scosse al vento», pensò, e sentì abbattersi tutte le barriere.
«Tu sei una creatura eterea, non puoi stare nel chiuso di un bar, – riuscì a dirle quasi con timidezza – perché non usciamo a fare una passeggiata all’aria aperta?»
Lei accettò con un sorriso.
Mentre camminavano Amy lo prese sotto braccio, con una confidenza che lo stupì piacevolmente, e cominciò a raccontargli della sua passione per il pianoforte che suonava fin da piccola. Le piaceva moltissimo ascoltare i suoni che le sue dita creavano solo sfiorando i tasti di quello strumento. Potevano essere brividi o lacrime le sensazioni che trasmetteva ogni volta che le note entravano nella sua anima.
Mark, si scoprì a desiderare di riuscire a parlarle di sé.
Negli anni aveva costruito attorno a sé così tanti muri da non riuscire più a fidarsi di nessuno. Preferiva non entrare troppo in sintonia, in confidenza con nessuno.
In quel momento, tuttavia, le cose avevano cominciato a cambiare e le sue nubi interiori a diradarsi, spazzate vie dalla brezza degli occhi di lei.
Come leggendogli nella mente, lei gli chiese: «Cosa c’è che ti turba dietro tutta questa imperturbabilità di cui ti travesti? Continui a dire che sei felice, che non hai bisogno di nulla, ma sento in te una malinconia e un dolore profondi. Confidati».
La voce gli uscì come un fiume in piena: «Sono stato ingannato e ferito molte volte, soprattutto da una donna con cui pensavo sarebbe stato per sempre. Così mi sono creato una nuova routine e sto molto bene, sono felice».
«Ma ti manca qualcosa – Amy lo riprese subito prima che lui lasciasse cadere il discorso – sogni una famiglia».
Mark sussultò, si chiese come lei avesse fatto a intuire il suo più grande rammarico.
«Puoi farcela, Mark. Puoi trovare qualcuna che ti restituirà amore e fiducia. Devi solo crederci», lei sussurrò.
Mark chiuse gli occhi per un istante, sentendo che si stavano riempiendo di lacrime.
Quando li riaprì, lei era sparita, come rapita da un turbinio di vento.
Non la rivide mai più.
Amy entrò in ufficio e la sua amica, Malinconia, l’accolse con un sorriso languido: «Alla fine il tuo assegnato ce l’ha fatta, ha trovato una persona che lo ama e lo rende felice. Il capo apprezzerà l’esito positivo di questa tua missione».
Per la prima volta Amy sentì il peso del suo lavoro: interagire con gli umani salvandoli dalle loro stesse emozioni.
Alzò le mani verso l’alto e creò un vortice d’aria. Ci guardò dentro e vide Mark sorridente accanto a una donna. Questa volta c’era mancato poco che si affezionasse sul serio, o forse quel confine lo aveva superato e le faceva male sapere che la sua corsa verso la felicità non aveva mai pace, ogni missione andata a buon fine rendeva felice sempre qualcun altro e lei si ritrovava di nuovo al punto di partenza.
Il capo la richiamò all’ordine: «Ti sei meritata una pausa, ma non dimenticarti di chi tu sei, mi raccomando Amore, o Amy come hai deciso di farti chiamare tra gli umani».
Amore pensò che, forse, l’amore per gli umani è un’emozione temporanea, che li fa sentire vivi anche solo per un momento e che poi, con il tempo, si trasforma in qualche altro suo collega: Affetto, Stima, Fiducia.
«Chissà se il mondo degli umani differisce così tanto dal mio», si chiese mentre camminava verso casa. Una figura le si mise di fianco, la guardò con fare disinvolto e le si presentò: «Mi chiamo Disillusione, ti andrebbe di prendere un caffè?»
Amore esitò ma poi, sentendosi a suo agio, lasciò da parte il suo lato più romantico e innocente e accettò la proposta. Era arrivato il tempo di crescere.
Apnea
Squilla il telefono. Lo ignoro.
È il mio weekend di libertà e i bambini sono dal padre.
Di certo è lui che ha bisogno di aiuto perché li convinca ad obbedirgli.
Il telefono insiste più volte, rispondo: sono i Carabinieri.
Mio figlio è rimasto coinvolto in un incidente stradale.
Sentirsi gelare il sangue. Ora capisco la sensazione! Per un attimo sembra rimanere bloccato nelle vene.
È in viaggio in elicottero verso l’ospedale di Brescia, quello più vicino per i casi gravi.
Condizioni del ferito: non comunicate.
Posso farcela ad arrivare fino là senza morire di paura!
Mi metto in viaggio, in apnea, ancora non ho notizie ma tengo duro.
Qualunque emozione deve essermi estranea.
Il mio secondo cervello non la pensa allo stesso modo, mi costringe a fare tappa in ogni bagno disponibile.
Finalmente arrivo all’ospedale, lo vedo per meno di un minuto, il tempo per spostarlo dal pronto soccorso alla rianimazione.
Il piccolo volto tumefatto, non può accorgersi di me. Coma.
Anche in questo momento il mio bambino è il più bello del mondo.
Per quattro giorni resto fuori dalla rianimazione, sono pochi i momenti in cui posso vederlo. Continua a non vedermi, a non sentirmi.
Resisto distaccata altrimenti potrei morire.
In attesa la mia mente cerca costantemente un contatto con la sua.
Non mollare piccolo mio, puoi farcela.
Ce la faremo.
Sono passati ormai vent’anni, mio figlio si è appena laureato.
Non penso più a quei giorni, sembra quasi che nulla sia mai accaduto, ma se il telefono squilla…corro subito a vedere chi mi chiama.
Il respiro del Cosmo
In principio, non vi era nulla. Solo un silenzio infinito, un vuoto senza tempo, privo di luce e di ombra, di emozioni e materia. Poi, il respiro di Dio scosse quel nulla, una lenta e profonda espirazione che fece vibrare il vuoto come una corda tesa. Da quel respiro, arcaico e potente, nacque il primo suono, un’onda che si espanse e plasmò la luce e le stelle.
L’universo si aprì come un fiore nel vento, e l’aria, il respiro stesso del Cosmo, riempì ogni spazio, invisibile e onnipresente. Non vi erano ancora confini tra il tutto e il nulla: l’aria era il tessuto sottile che teneva insieme ciò che era e ciò che sarebbe stato. Era il battito di ali del creatore, l’impulso vitale che aveva dato inizio alla danza cosmica.
Tra le correnti di questo respiro primordiale nacque Etere, una creatura fatta di pura essenza. Non era carne né luce, ma il riflesso vivo del soffio divino. Etere si destò al deflagrare del primo respiro, tra le nebulose nascenti e i vortici delle galassie in formazione, sentendo dentro di sé il ritmo del cosmo, il suo perpetuo alternarsi di inspirazione ed espirazione.
E fu sera e fu mattino: il primo giorno. Ogni alba che si accendeva era un nuovo respiro che infondeva forza ai mondi appena nati. Ogni tramonto era un esalare, una carezza di pace sul volto dell’universo in divenire. Etere ascoltava l’aria e ne percepiva la melodia: canti di nebulose lontane, sospiri di stelle morenti, il mormorio delle onde su pianeti sconosciuti, la vita che si affacciava prepotente a popolare i pianeti.
Si muoveva tra le correnti del vento, ascoltando le storie che l’aria portava con sé: il canto dei mari lontani, i bisbigli delle foreste, le grida degli uomini e il silenzio delle montagne.
Accarezzava con un soffio ogni nascita e ogni morte, danzando allo stesso ritmo del respiro cosmico che tutto aveva originato.
Ma col passare degli eoni, il respiro del cosmo si fece più irregolare. Etere udì un lamento, un’ombra di dolore nell’aria. «Cosa accade?» chiese, alzandosi sopra le galassie come un soffio invisibile.
«Il mio respiro si spezza», rispose una voce antica e vasta. «I miei figli dimenticano il dono dell’aria. Dimenticano che ogni respiro li unisce a me. Chiudono le loro menti e i loro cuori, costruiscono muri, soffocano i venti, e il mio soffio si appesantisce».
Etere sentì la pena del Creatore e decise di riportare l’armonia. Viaggiò attraverso i mondi, guidata dal ritmo del respiro divino, per ricordare agli esseri viventi la sacralità dell’aria. Sul pianeta della Terra, si insinuò sotto un cielo grigio nei sogni dei neonati, insegnando loro a inspirare profondamente per trovare forza e calma, sussurrò ai morenti, mentre esalavano il loro ultimo respiro, mostrando che ogni soffio è parte di un cerchio eterno.
Col tempo, gli esseri viventi iniziarono a ricordare. Alcuni si fermarono a respirare consapevolmente, sentendo in quell’atto semplice il legame con il Cosmo. L’aria si fece più leggera, la danza del respiro riprese il suo ritmo.
Etere, leggera come il primo soffio, tornò a dissolversi nell’aria, lasciando dietro di sé solo un sussurro: ogni respiro è il respiro del Cosmo.
Da quel giorno, ogni volta che qualcuno si ferma per respirare profondamente, l’aria sembra cantare, come a ricordare che siamo tutti parte dello stesso respiro infinito. E il Cosmo, grato, sospira dolcemente.
Uomini pipistrello. Prima parte
Uomini pipistrello – Parte 1
Aria
La luce del fuoco illuminava i volti scavati e neri di fuliggine delle tre figure che sembravano assorte in una meditazione penosa. Ognuna di esse respirava lentamente attraverso le cannule delle bombole messe a disposizione dal Governo. Per loro, Bats, uomini pipistrello, era prevista una quantità di ventiquattro ore. Non un secondo di più. Bisognava stare attenti, centellinare il fiato. Era perciò, ad esempio, che era loro vietato avere nomi più lunghi che quattro lettere. Solo i Notabili potevano arrivare fino a sei. C’erano molte altre cose vietate ai Bats e permesse ai Notabili. Come avere un figlio. Ai ricchi ne era concesso uno per coppia.
Si chiamavano Bats, perché come pipistrelli vivevano e a questi, ormai, assomigliavano.
Abitavano le fogne di una metropoli pressoché abbandonata. Tutte le città si erano svuotate di gente. Morivano, semplicemente.
Gli alti grattacieli erano stati trasformati in orti o allevamenti.
Molto cibo era per i notabili, poco per gli uomini pipistrello. Come l’ossigeno, che scarseggiava di giorno in giorno.
Non per i notabili che addirittura facevano feste, si ubriacavano d’aria.
I Bats potevano girare solo di notte e solo nei limiti segnalati da cartelli fluorescenti, lontano dai quartieri alti. Di giorno, vivevano nelle tubature e passavano la maggior parte del tempo a dormire in amache che pendevano dal soffitto. In alto, si poteva respirare meglio. Prima di ritirarsi nei giacigli appesi, disseminavano il terreno di trappole per topi. Quella carne schifosa andava ad aggiungersi al cibo scarso fornito, una volta il giorno, insieme all’ossigeno.
Tutto, in quei recessi bui, era nero per via della fuliggine. Volte nere, amache nere, facce nere.
In quel momento, dove fuori era mattino, tre persone stavano parlando davanti a un fuoco celato sotto pochi teli. Avevano un problema maggiore della carenza di ossigeno o di cibo: Leda, la donna più giovane, era incinta. Al suo fianco, Miro, padre del bambino. Di fronte, Gala, madre di Miro.
Era semplice nascondere la gravidanza di una Bat. Nessuno veniva mai a fare controlli così specifici. Piuttosto mandavano droni per contare i capi. Tante bombole quante teste.
Il problema veniva dopo la nascita.
Leda, Miro e Gala avevano lungamente sperato nella coincidenza che Tom morisse a ridosso del parto. Ma il vecchio se n’era andato troppo presto e, al momento, nessun altro sembrava avere intenzione a tirare le cuoia.
Se Tom fosse morto con qualche settimana di ritardo, avrebbero praticato un cesareo: il capo del vecchio passava sul neonato.
Lo avrebbero chiamato Hope, speranza, sia fosse stato maschio, sia femmina.
Era da molto che non nascevano bambini Bats. Nessuno voleva una bocca in più da sfamare e da far respirare: Leda, Gala e Miro dovevano sbrigarsela da soli.
«Nuovo deposito tangenziale nord», diceva sottovoce Miro, attento a dosare le lettere.
«Bite», aveva risposto Leda accarezzandosi la pancia ormai voluminosa. Era bella, Leda, era meraviglioso il suo sguardo azzurro, amorevole, tanto da illuminare le anime di Miro e Gala.
I Bite erano droni di terra. Viaggiavano a duemila chilometri orari intorno ai depositi di ossigeno. La forma ricordava uno scarafaggio e avevano antenne che potevano cogliere movimenti a centinaia di metri, terra o cielo. Volatilizzavano ogni cosa o persona non riconosciuta. Chi era intercettato, aveva dieci secondi di tempo per fornire matricola e riconoscimento facciale. I Bats avevano tutti lo stesso numero: 111. Fine sicura. Nessuno andava per il sottile se moriva un Bat.
«Rapirò notabile», aveva detto Miro. Ormai le frasi erano tagliate, ridotte al minimo. Si parlava mentre si espirava. Le voci strozzate erano sempre più simili agli stridi dei pipistrelli.
«Notabite», aveva sussurrato Gala. Gala era vecchia, quasi cinquant’anni. Diventava nonna. Il suo sogno. Ciò che intendeva per notabite era che anche i notabili avevano al loro seguito almeno un Bite.
Miro si alzò lentamente. I muscoli tendevano ad atrofizzarsi e i tendini ad allungarsi. Le braccia, le gambe lunghe e sottili, sembravano lanciarsi dal breve busto. Sempre più pipistrelli senz’ali.
Camminava piano, Miro, attento a non svegliare gli altri. Si era fermato in prossimità del loro rifugio: tre pareti e il soffitto in telo agricolo delimitavano l’area a loro disposizione. Rif, li chiamavano ed erano meno che capanne. Il loro era di tre metri per tre. Ogni Bat aveva un metro a disposizione. Se si consociavano, potevano sommare i metri. I Rif erano ricoveri e latrine al tempo stesso. Nei secchi si facevano i bisogni, con la cenere ci si lavava, a terra si curavano i malati. In caso di necessità, nei Rif era addirittura possibile farsi operare da qualche chir. Miro era il chir che aveva operato il vecchio Tom. Aveva sperato di allungargli la vita sino alla nascita di Hope. Ma l’uomo era morto quando Leda era ancora alla trentesima settimana. Troppo presto.
Miro tornò dalle donne con un involto nelle mani: «Kill bite», aveva detto scostando i lembi della stoffa sporca. Le donne guardarono l’oggetto. Sembrava un piccolo armadillo argentato. Sul dorso, si riflettevano i bagliori del fuoco.
Miro fece cenno di seguirlo. Andarono verso una breccia nella parete nera. La luce entrava diafana, ma lo stesso ferì i loro occhi. Miro liberò il piccolo robot dopo avergli assegnato le coordinate del rione di ricchi più vicino.
Il Kill era rientrato dopo un po’, illeso. Non era stato intercettato. Incredibile.
Le donne esultarono silenziose. Il sorriso di Leda aveva svelato due piccole fossette sulle guance.
Qualcuno si era svegliato e aveva iniziato a protestare verso di loro: ancora attivi, rubavano ossigeno.
«Ora dormir», disse Gala indicando le amache. L’indomani Miro avrebbe studiato un piano dettagliato. Aveva già messo da parte un foglio di carta, una rarità ottenuta in cambio di una tracheotomia.
Contava di arrivare al nuovo deposito e rubare cento bombole: sarebbero bastate al bambino per un anno intero. Nel frattempo, qualche Bat sarebbe morto.
Non era quello il problema.
Segue parte 2 in ‘Terra’
Mi manca l’aria
Ho prenotato l’esame da quindici giorni e il poco tempo che mi rimane prima di avventurarmici mi rende preoccupata e nervosa. Non so se sarò pronta ad affrontarlo.
Devo sottopormi a una risonanza magnetica e per me, così claustrofobica tanto da non prendere gli ascensori dove é possibile salire per le scale, è fonte di notevole disagio, mi manca l’aria.
Vado in farmacia.
«Dottore, devo sottopormi a una risonanza magnetica, ma questa volta non so se riuscirò a stare tranquilla e ferma per tutto il tempo necessario. Mi potrebbe dare qualcosa per calmarmi?»
Il farmacista mi guarda e poi dal suo retrobottega arriva con un flaconcino di un liquido a base di valeriana, biancospino e passiflora.
«Lo facciamo noi» mi dice «ne prenda 20 gocce un’ora prima della risonanza».
A casa leggo le indicazioni che ne consigliano trenta e decido che ne prenderò venticinque. Non si sa mai: questa volta ho proprio bisogno di un aiuto in più.
La mattina dell’esame arrivo al centro medico in anticipo, cammino nervosamente avanti e indietro nel grande atrio prima di pagare il ticket poi finalmente raggiungo la sala d’aspetto del reparto di radiologia. Zeppa. Più di otto persone stanno aspettando e la mia ansia aumenta, non ho idea se le gocce che ho preso faranno ancora effetto fra tanto tempo.
Dopo un’ora e mezza arriva il mio turno. Entro nello spogliatoio e già mi manca l’aria. Non so se questa volta ce la farò.
Mi spoglio, indosso il camice e mi presento al tecnico che mi ha appena chiamato.
«Si sdrai con la testa verso il tunnel, tenga le braccia lungo il corpo e stia ferma, questo è il campanello se dovesse avere bisogno», puntualizza.
Mi sdraio, sento il rullo che piano piano entra nel tunnel, chiudo gli occhi. Mi manca l’aria.
Mi dico che devo stare tranquilla altrimenti è tempo perso e tutto è da rifare.
Allora, come ogni volta, inizio a recitare il rosario nella mia mente, anche con le intenzioni per ogni decina e premo leggermente le dita sul lettino per contare le ave marie.
Dieci per i miei figli.
Dieci per i miei nipotini.
Dieci per mio marito perché ne ha bisogno da solo.
Mi manca l’aria. Prendo dei piccoli respiri con il naso, non profondi per non muovermi troppo.
Dieci per la mia famiglia di origine.
Dieci alla fine per me.
«Signora, abbiamo finito», dice il tecnico radiologo.
Il rullo piano piano mi riporta fuori da tunnel. Faccio un respiro profondissimo che muove tutto il mio corpo: anche stavolta ce l’ho fatta.
L’aria… invisibile e apparentemente inesistente eppure così necessaria, adesso non mi manca più.
Brezza
Sfilo lo giacca la butto sulla sedia, appoggio la borsa e resto qualche minuto nell’angolo scuro del soggiorno: ti guardo rimestare una pietanza che sobbolle nella pentola.
Cosa ci faccio qui come una ladra, non voglio altro che scappar via!
Spegni il fornello, metti il coperchio, vieni a salutarmi “Ciao Mara, non ti aspettavo tanto presto, niente straordinari questa sera?”. Adesso dico il suo nome che non mi da pace gli dico che non mi sono mai sentita così viva prima di lui che con lui ho incontrato la donna meravigliosa che sono che è uno strazio separarci quando stiamo insieme.
Adesso glielo dico che sono qui pesche’ lui mi ha dato buca “Un imprevisto“ . SMS sul cellulare. “Non cercarmi chiamerò”.
Intanto stappi un prosecco, versi il vino mi offri il calice prendi il tuo, ti seguo in terrazza. “ Sei bella, sai, come non ti vedevo da tempo”. Distolgo lo guardo, cerco le luci che calmano il buio al cielo.
Voci di ragazzi allegri accompagnano una leggera brezza avvolgente: porta con se il tepore della primavera e carezza l’inverno per allontanarlo.
La stessa brezza che ho visto oggi sconvolgere le giovani foglie di un Prunus, stuzzicarmi con il suo profumo intenso e sospingermi da te.
Un brivido mi corre lungo la schiena un senso di eccitazione, terrore, forse tenerezza. Sei bello così affaccendato in cucina con la t shirt attillata e i capelli lunghi, li noto solo ora, ti vengo vicino ti tolgo la frutta dalle mani ti abbraccio.
Adesso te lo dico che ho bisogno di te che non devi lasciare sola che ti voglio bene che… non c’è niente di male se mi sono innamorata…passerà. Ti bacio, sai di ananas e per un istante del nostro sapore ritrovato, ti bacio ti stingo ti bacio. Mi restituisci uno sguardo stupito mentre mi slacci la camicetta e io ti bacio ancora e ti voglio Luca. Prima che questa brezza svanisca per sempre.
L’Uomo del Vento
If it hadn’t been for Cotton Eye Joe
I’d been married long time ago
vecchia ballata degli anni Novanta
Alla gente di qui non piace il vento, forse perché è segno del tempo che cambia. Ecco, in questo quel diavolo di Joe è diverso dagli altri, lui non si affida alle previsioni del meteo, ma segue liberamente la direzione di cicloni e anticicloni.
Qualche giorno fa è ricomparso dal niente, da quella sconfortante mancanza di risposte che se l’era portato via. Il suo passo sprezzante contro il sole estivo, si è guardato intorno pensando a quanto fosse cambiato il paese dal giorno in cui se n’era andato. Ha proseguito attraverso la piazza con una smorfia compiaciuta.
Ho riconosciuto all’istante la sua andatura invulnerabile, da autentico pistolero. Ho posato il Campari sul tavolino e ho alzato il braccio per attirare la sua attenzione. Ho sentito risorgere quella sensazione lontana nel tempo, di incontenibile bisogno di avere la sua attenzione, da cui nessuno di mia conoscenza è mai stato immune.
Mi è venuta una voglia matta di ridere. Joe mi ha notato e il suo passo si è fatto più rapido, ha attraversato tutta la piazza nella mia direzione. Avvicinandosi ha calpestato sguardi come blocchetti di porfido, la gente di qui ha la tendenza a dimenticarsi del passato, tanto più se si offre loro da bere, ma non sempre.
Ho visto Joe guardarsi intorno con quei suoi occhi marroni sempre fissi sul mondo, e il sorriso aperto di chi crede con fiducia nel minuto successivo. “Hey!” mi ha gridato “Non posso crederci, sto via trent’anni e ti ritrovo esattamente come ti ho lasciato! Cioè seduto a bere, ma qui è incredibile, è cambiato tutto…”
“Ciao Joe…” ho risposto “Hai ragione, la piazza e i palazzi sono recenti, danno al posto un’aria più rispettabile.”
Si è seduto davanti a me e ha chiamato la ragazzina in shorts per ordinare una birra.
“Dimmi di te, che combini?”
“Le solite cose, e tu? Sei scomparso, non mi sarei mai aspettato di…”
“Ridendo e scherzando, trent’anni… ero partito per quella corsa di moto, in Romagna, poi ho lavorato, sono stato molto molto impegnato, mi sono concentrato sulla carriera sai… mi sono fatto strada nella vendita di ricambi e da lì ho cominciato a viaggiare, anche all’estero, soprattutto Spagna.”
“Quindi… ti sei rifatto una vita?”
“Ma no, che dici? Non mi sono mai fermato, sempre a pensare al lavoro, oggi qui, domani là… quando lavori così poi i risultati cominciano ad arrivare, si guadagna bene nel mio settore se sei bravo.”
“E adesso che fai?”
“Ho ancora qualche aggancio in giro, clienti di lunga data, ma sto rallentando, sai? Vorrei dedicarmi di più a me stesso, ritagliarmi i miei spazi, ma… a proposito… che cosa mi racconti di Dina, sta bene?”
“Mi stai davvero chiedendo di Dina?”
“Sì… lei è ancora qui in paese? Vi vedete ogni tanto?”
“Sempre…”
“Meno male, la vorrei vedere!”
“Calmati Joe, sono trent’anni che non ti fai vedere, abbi pazienza…”
“Io questa cosa te la devo dire, e la posso dire soltanto a te, ci conosciamo da un’intera vita e sai bene come e perché. La conobbi all’inizio del tempo, poi un giorno la vidi per la prima volta, aveva avuto il permesso di rimanere fuori la sera e si era cambiata appena uscita dalla porta. Stava ridendo insieme agli altri, appoggiata al parapetto bianco e nero di un piccolo fosso che attraversava il paese, fin da quel momento e in tutti gli altri attimi della sua vita Dina sarebbe stata più grande di quello che in realtà era. E non parlo solo di un bacio di rossetto o di stivali alti, ma di quell’allegra sofferenza che le galleggiava negli occhi. Come arrivai al ponte vidi i sorrisi delle ragazze brillare, emettere scintille flebili come lucciole d’estate. Dina osservava nella stessa direzione delle altre sue amiche, quindi guardava me, dissi così la prima frottola che mi passava per la testa per distrarla dal tremore delle mie gambe. Quella però era la giovane donna più straordinaria che avessi mai incontrato, ascoltava le mie chiacchiere senza perdersi uno solo dei brividi che affioravano sulla mia pelle.”
“Va bene Joe…” l’ho interrotto “Ma non penso che Dina abbia così tanta voglia di rivederti…”
“Perché dici così? Sono ritornato perché non è mai passato giorno senza che pensassi a lei!”
“Sei partito una mattina dicendole che saresti stato via soltanto per un fine settimana, e da quel momento non ti sei più fatto né vedere né sentire. Le hai distrutto la vita e dopo qualche mese, è nato suo figlio. Che cosa hai pensato quel giorno, Joe? Che cosa ti è successo, chi hai seguito?”
Joe si è ammutolito e la sua faccia è diventata scura, di una tristezza limpida e chiara, che non può somigliare ad altro che a sé stessa.
“È difficile dirlo, forse mi sono reso conto che avevo bisogno di cambiare aria.”
“Le avevi promesso che sareste stati insieme…”
“Lo so, ho sbagliato, chissà se potrà mai perdonarmi. Hey! Mi faccio portare un’altra birra, la settimana scorsa sono andato dal medico, e non mi ha dato una buona notizia.”
“Non dirmi più niente Joe, dillo a lei… Dina sta arrivando.”
È comparsa sotto al portico con i capelli raccolti, la pelle abbronzata ed un vestito leggero, ha salutato con un sorriso i vari tavoli che piano piano si stavano riempiendo per l’aperitivo. Non è soltanto bellissima, ha anche un cuore enorme, due occhi che malgrado il tempo non mi hanno mai perso di vista. Pensando rapidamente a come cavarmela in quella situazione paradossale, cercando le parole migliori per accogliere tutti in uno sconclusionato viaggio nel tempo, ho sentito alzarsi un soffio di brezza, un sollievo quantomai agognato in una giornata così calda. Mi sono voltato, ma Joe se n’era già andato via.