L’Uomo del Vento

If it hadn’t been for Cotton Eye Joe

I’d been married long time ago

vecchia ballata degli anni Novanta

Alla gente di qui non piace il vento, forse perché è segno del tempo che cambia. Ecco, in questo quel diavolo di Joe è diverso dagli altri, lui non si affida alle previsioni del meteo, ma segue liberamente la direzione di cicloni e anticicloni.

Qualche giorno fa è ricomparso dal niente, da quella sconfortante mancanza di risposte che se l’era portato via. Il suo passo sprezzante contro il sole estivo, si è guardato intorno pensando a quanto fosse cambiato il paese dal giorno in cui se n’era andato. Ha proseguito attraverso la piazza con una smorfia compiaciuta.

Ho riconosciuto all’istante la sua andatura invulnerabile, da autentico pistolero. Ho posato il Campari sul tavolino e ho alzato il braccio per attirare la sua attenzione. Ho sentito risorgere quella sensazione lontana nel tempo, di incontenibile bisogno di avere la sua attenzione, da cui nessuno di mia conoscenza è mai stato immune.

Mi è venuta una voglia matta di ridere. Joe mi ha notato e il suo passo si è fatto più rapido, ha attraversato tutta la piazza nella mia direzione. Avvicinandosi ha calpestato sguardi come blocchetti di porfido, la gente di qui ha la tendenza a dimenticarsi del passato, tanto più se si offre loro da bere, ma non sempre.

Ho visto Joe guardarsi intorno con quei suoi occhi marroni sempre fissi sul mondo, e il sorriso aperto di chi crede con fiducia nel minuto successivo. “Hey!” mi ha gridato “Non posso crederci, sto via trent’anni e ti ritrovo esattamente come ti ho lasciato! Cioè seduto a bere, ma qui è incredibile, è cambiato tutto…”

“Ciao Joe…” ho risposto “Hai ragione, la piazza e i palazzi sono recenti, danno al posto un’aria più rispettabile.”

Si è seduto davanti a me e ha chiamato la ragazzina in shorts per ordinare una birra.

“Dimmi di te, che combini?”

“Le solite cose, e tu? Sei scomparso, non mi sarei mai aspettato di…”

“Ridendo e scherzando, trent’anni… ero partito per quella corsa di moto, in Romagna, poi ho lavorato, sono stato molto molto impegnato, mi sono concentrato sulla carriera sai… mi sono fatto strada nella vendita di ricambi e da lì ho cominciato a viaggiare, anche all’estero, soprattutto Spagna.”

“Quindi… ti sei rifatto una vita?”

“Ma no, che dici? Non mi sono mai fermato, sempre a pensare al lavoro, oggi qui, domani là… quando lavori così poi i risultati cominciano ad arrivare, si guadagna bene nel mio settore se sei bravo.”

“E adesso che fai?”

“Ho ancora qualche aggancio in giro, clienti di lunga data, ma sto rallentando, sai? Vorrei dedicarmi di più a me stesso, ritagliarmi i miei spazi, ma… a proposito… che cosa mi racconti di Dina, sta bene?”

“Mi stai davvero chiedendo di Dina?”

“Sì… lei è ancora qui in paese? Vi vedete ogni tanto?”

“Sempre…”

“Meno male, la vorrei vedere!”

“Calmati Joe, sono trent’anni che non ti fai vedere, abbi pazienza…”

“Io questa cosa te la devo dire, e la posso dire soltanto a te, ci conosciamo da un’intera vita e sai bene come e perché. La conobbi all’inizio del tempo, poi un giorno la vidi per la prima volta, aveva avuto il permesso di rimanere fuori la sera e si era cambiata appena uscita dalla porta. Stava ridendo insieme agli altri, appoggiata al parapetto bianco e nero di un piccolo fosso che attraversava il paese, fin da quel momento e in tutti gli altri attimi della sua vita Dina sarebbe stata più grande di quello che in realtà era. E non parlo solo di un bacio di rossetto o di stivali alti, ma di quell’allegra sofferenza che le galleggiava negli occhi. Come arrivai al ponte vidi i sorrisi delle ragazze brillare, emettere scintille flebili come lucciole d’estate. Dina osservava nella stessa direzione delle altre sue amiche, quindi guardava me, dissi così la prima frottola che mi passava per la testa per distrarla dal tremore delle mie gambe. Quella però era la giovane donna più straordinaria che avessi mai incontrato, ascoltava le mie chiacchiere senza perdersi uno solo dei brividi che affioravano sulla mia pelle.”

“Va bene Joe…” l’ho interrotto “Ma non penso che Dina abbia così tanta voglia di rivederti…”

“Perché dici così? Sono ritornato perché non è mai passato giorno senza che pensassi a lei!”

“Sei partito una mattina dicendole che saresti stato via soltanto per un fine settimana, e da quel momento non ti sei più fatto né vedere né sentire. Le hai distrutto la vita e dopo qualche mese, è nato suo figlio. Che cosa hai pensato quel giorno, Joe? Che cosa ti è successo, chi hai seguito?”

Joe si è ammutolito e la sua faccia è diventata scura, di una tristezza limpida e chiara, che non può somigliare ad altro che a sé stessa.

“È difficile dirlo, forse mi sono reso conto che avevo bisogno di cambiare aria.”

“Le avevi promesso che sareste stati insieme…”

“Lo so, ho sbagliato, chissà se potrà mai perdonarmi. Hey! Mi faccio portare un’altra birra, la settimana scorsa sono andato dal medico, e non mi ha dato una buona notizia.”

“Non dirmi più niente Joe, dillo a lei… Dina sta arrivando.”

È comparsa sotto al portico con i capelli raccolti, la pelle abbronzata ed un vestito leggero, ha salutato con un sorriso i vari tavoli che piano piano si stavano riempiendo per l’aperitivo. Non è soltanto bellissima, ha anche un cuore enorme, due occhi che malgrado il tempo non mi hanno mai perso di vista. Pensando rapidamente a come cavarmela in quella situazione paradossale, cercando le parole migliori per accogliere tutti in uno sconclusionato viaggio nel tempo, ho sentito alzarsi un soffio di brezza, un sollievo quantomai agognato in una giornata così calda. Mi sono voltato, ma Joe se n’era già andato via.

Ritorni

Mi piace quando mi guardi con gli occhi spalancati di chi non si capacita. Sei ancora incredulo che io abbia accettato di rivederti. Sono passati sette anni. Ti ho buttato fuori casa il sette settembre del duemiladiciassette, tutti quei sette avrei dovuto giocarli al lotto, invece ho giocato la mia vita. Sapevo solo di non voler passare un minuto di più con te, con un uomo che non mi rispetta, che non conosce l’abc della comunicazione, che si considera un illuminato, che si crede l’unico in grado di guidare mentre tutto il resto del mondo è composto da deficienti. Non un minuto di più o mi sarebbe venuta l’orticaria, mi sarei ammalata, o ti avrei piantato un coltello nella pancia. Vedi, è stato meglio lasciarci, soprattutto per te. Un maschicidio era in agguato, meglio non farlo accadere, io sono contraria alla violenza. E così ti ho rimosso dalla mia vita, faticosamente, pezzo per pezzo, ricordo dopo ricordo, oggetto dopo oggetto. Tu mi hai restituito fisicamente le cose che ti avevo regalato, il cuscino ricamato per te con tanto amore, moderna Penelope tra computer, lavatrici e lezioni di tedesco. Io ho steso pesanti coltri sul male che mi hai fatto, sull’entusiasmo che mi hai rubato, sulle speranze che hai soppresso, sull’ottimismo che hai annullato, ma per fortuna ne è rimasto ancora.

Ora ti ripresenti a me in candide vesti, le guance e il capo rasato, un moderno Buddha simile a colui che mi aveva rapito quando ti conobbi. Ora però so che la tua lingua è biforcuta, la tua mente scaltra, il tuo cuore vendicativo. Non c’è posto nella mia nuova vita per te. Vado avanti per la mia strada, quale che sia.
Ti allontani a testa china, non ti vedrò mai più. E così sia.

Commerciale e Pasticcere

Commerciale incontra Pasticcere Eataly.
Si amano e vanno a vivere assieme.
Comprano casa insieme in un paesino di provincia.
Trovano una casa vicina anche per la madre di Commerciale.
Dopo vent’anni, sono ormai solo amici.
Non si lasciano per non dare un dolore alla madre di Commerciale.
La madre muore di Covid.
Si lasciano.
La madre di Pasticcere piange.
Commerciale acquista una nuova casa in centro paese e adotta cinque gatti.
Commerciale e Pasticcere si vedono tutte le settimane.
Commerciale impara a cucire.

Nandini

Ginevra scese dal treno regionale e venne investita da una folata di vento tiepido: Nizza le dava il benvenuto con un turbinio di odori; c’era l’odore del mare d’estate, naturalmente, l’odore di stazione, costituito da acciaio e fuliggine, l’odore di cibo fritto in olio scadente.

Si incamminò verso l’indirizzo sul foglietto. Suonò il campanello e venne ad aprire Nandini, torreggiante nel suo pareo colorato incorniciato dai lunghi capelli biondo fragola. Si abbracciarono e Nandini cominciò subito a raccontare di Sokholov, il suo pianista preferito, per il quale le due amiche erano venute in Riviera. Nandini lo seguiva da molti anni e ne era innamorata; ovunque tenesse un concerto in Europa, acquistava il biglietto e andava ad ascoltarlo, rapita dalla sua bravura, meticolosità e inavvicinabilità. Le raccontò che più volte era riuscita ad andare nel suo camerino, aveva tentato di baciarlo, lui si era fin spaventato. Ginevra sussultò.

Dopo essersi cambiate, andarono a esplorare la città, la ricerca di cibo il loro obiettivo implicito.

Nandini era vegana da anni, da quando aveva vissuto in India come seguace di un monaco induista, al fianco del quale aveva approfondito le questioni fondamentali: chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Cosa ci faccio qui? Cosa scelgo di mangiare? Lì aveva anche scelto il suo nuovo nome, con il quale firmava le sue traduzioni.

Ginevra aveva riportato i libriccini di Krishnamurti che l’amica sudafricana le aveva prestato: Nandini le disse di tenerli. Cadevano a pezzi e, in ogni caso, ormai quegli insegnamenti facevano parte di lei.

Non era propriamente bella, ma un guizzo di infantile pazzia e la risata improvvisa la rendevano affascinante, con un corpo ancora attraente a 64 anni, merito dei geni e dell’alimentazione.

Comprarono della frutta al mercato, si fecero dei panini con pane e formaggio che mangiarono sul muretto del lungomare e parlarono degli ultimi articoli di Valdo Vaccaro, l’igienista grazie al quale si erano conosciute, traducendo entrambe come volontarie per la causa.

Il concerto si teneva in un grande anfiteatro vicino alla spiaggia. Presero posto indossando i loro più abiti estivi più belli e si immersero nella musica. Alla fine del secondo movimento, Ginevra notò come un’ombra rossastra che si avvicinava al famoso pianista e lo avvolgeva in larghe vòlute che lo circondarono lungamente e poi lentamente si dissolsero. Era stata così rapita da quello spettacolo talmente inusuale che si accorse solo allora che la sua amica si era alzata ed era andata a sedersi sugli spalti più alti dove c’erano parecchi posti ancora vuoti. Sedeva statuaria nel suo abito rosso di organza, appoggiata alla ringhiera. Ginevra la chiamò, ma non ottenne risposta. Uno strano atteggiamento di quel corpo le mandò una scossa di preoccupazione istantanea giù per la colonna. In un attimo fu a fianco a lei cercando di rianimarla, inutilmente.

L’INTELLETTUALE

C’era una volta un intellettuale tedesco appassionato di cinema e di tennis. Il cinema rappresentò, fin dall’infanzia, una via di fuga dalle situazioni familiari disarmoniose cui assisteva in casa. Il tennis invece lo faceva sentire vivo e giovane, fino in età avanzata, dato che la buona forma fisica e piccole precauzioni gli consentirono di praticarlo regolarmente e con assiduità ben oltre l’età della pensione.

Capitò un giorno che questo signore, che chiameremo Carlo, si recò a trovare una vecchia amica, inizialmente moglie del suo amico, poi amica ella stessa. A casa dell’amica, come spesso succedeva, c’era un’ospite straniera, come se ne erano succedute molte nell’arco degli anni, dato che l’amica era persona ospitale e progressista e amava ricevere il mondo in casa sua, non potendo assentarsi a causa degli obblighi familiari imposti dai genitori anziani. L’ospite era giovane e quieta, ma attenta. Lo studiò con cura, poi fece le sue mosse. Quando lui propose, su suggerimento dell’amica, di accompagnarla a vedere le attrazioni della città, non se lo fece ripetere due volte.

Si incontrarono la prima volta presso la clinica dove era temporaneamente ricoverato l’anziano padre dell’amica in seguito a un piccolo infortunio. L’ospite andava a trovarlo quotidianamente. Quel giorno si incontrarono per visitare una mostra presso un famoso museo di arte moderna. Pioveva. Lei era molto emozionata. Salì sulla Fiat Idea di lui e restò colpita dalla semplicità con cui si poneva il suo interlocutore. La soggezione rimaneva, ma un piccolo spigolo era stato scalfito.

Si rese conto che era un vero appuntamento con lui, il cuore le diede un brivido. La mostra era abbastanza noiosa, ma l’ospite sfruttò quel tempo per studiare il suo accompagnatore. Più lei cercava di porre rimedio con il raziocinio all’emozione che le paralizzava la lingua e le seccava la bocca, più il cervello le si svuotava di cose sensate da dire.

Un’altra volta passeggiarono nel parco, così, semplicemente. Era più facile parlare in quel modo. Lui l’aiutava molto: faceva domande garbate per mantenere in moto la conversazione, ascoltava con attenzione e faceva osservazioni pertinenti e spiritose. Dopo qualche tempo il braccio di lui si appoggiò sulle spalle di lei e camminarono così, lui con fare protettivo, lei emozionata e incerta.

In una di queste peregrinazioni per i meravigliosi parchi della città finirono in un locale tutto legno e vetro immerso nel verde. Era sera e l’interno era illuminato da luci soffuse e tante candele, che vicino alle finestre si rispecchiavano facendo risplendere l’interno come un palazzo principesco.

Al tavolo di quel locale, alle luci delle candele, ebbero la loro prima conversazione seria; socchiusero i rispettivi cuori per condividere le visioni della vita, misero le carte in tavola. Gli occhi di lui risplendevano con tenerezza e desiderio, si offriva all’amore come un bicchiere di cristallo.

 

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