Sono a letto, fuori piove, e piove forte.
Stasera è stata una bella serata, mamma ha fatto la torta di mele, la mia preferita. Mio fratello però non lo sopporto più, con quel suo modo di prendermi sempre in giro. Ora voglio dormire, chiudere gli occhi e sognare Matteo. Quanto è bello!
Domani voglio indossare il vestitino a fiori che mi ha fatto la nonna, magari mi noterà.
Fuori continua a piovere, non so se riuscirò a prendere sonno. Piove così forte che sembra di avere la pioggia in casa.
Ma cos’è questo rumore, sembra che qualcuno abbia spalancato la porta di casa.
Scendo dal letto. Oh mio Dio! Ho l’acqua fino alle ginocchia.
Sento papà che urla: “Venite qui che moriamo tutti insieme!” Cosa sta succedendo?! Urlo: “Papà?! mamma?! Antonio?!”
Riesco faticosamente ad arrivare fino in cucina mentre l’acqua continua a salire.
No! Non mi lascerò trascinare via.
Mi aggrappo a qualcosa, non so cosa sia ma presto anche questa comincia a fluttuare nell’acqua che ormai mi arriva quasi alla gola, è sporca e ha un cattivo odore. Ho paura!
Non trovo più mamma, neanche papà. Vorrei urlare ma l’acqua mi inghiottisce. Forse è solo un brutto sogno o forse ora smetterò di sognare per sempre…
Per sempre.
La Fiamma del Drago
Un tuono. Un fragore improvviso che squarcia l’estate, il cielo si richiude su se stesso catturando l’aria sotto al suo mantello. Cala una notte cupa e inattesa che impone le sue leggi, spegnendo il tramonto con un soffio di aria fredda.
Una fila vociante di bambini varca la porta della biblioteca, accompagnati per mano dai grandi che, chiacchierando fra loro, di tanto in tanto si distraggono e si lasciano sfuggire qualche rincorsa e spintone. Sfilano uno dopo l’altro davanti al bancone dietro al quale, rigida nella sua postazione, Malva li osserva. Cerca di rimanere seminascosta dalla pila di libri da catalogare, non può sottrarsi però al saluto cordiale di alcuni dei frequentatori più abituali. Per quanto si sforzi di risultare antipatica, col desiderio di essere lasciata in pace a rimuginare sul suo passato, c’è sempre qualcuno che si mostra lieto di incontrarla.
Ormai consumata dal disappunto a Malva risulta sempre più difficile comprenderli. Non sembra anziana, forse dimostra una certa età per via del suo modo di vestirsi così intessuto di trascuratezza e insoddisfazione. Tuttavia ogni congettura sui suoi anni si rivela inutile, più che un segreto ben tenuto la data della sua nascita ha tutte le sembianze di un autentico mistero, come se si parlasse di epoche lontane.
Dall’altro lato dei suoi occhiali i bambini corrono verso l’angolo dei giochi, cercano il loro preferito rovistando nelle ceste, ridono del loro disordine mentre le chiacchiere degli adulti formano un costante brusio. Malva ne ha vista tanta di confusione nella sua vita, non è il trambusto a disturbarla, ma spensieratezza e gioia, certa ormai che i suoi giorni lieti se ne siano andati e non ritorneranno più. Non sopporta le aperture serali della biblioteca, ma non può negare che qualche ora di straordinario le faccia comodo. Un altro rimpianto, mai nella sua esistenza ha dovuto preoccuparsi della sua sopravvivenza, come in questo tempo.
Il tormento di tali emozioni rimbomba tra le sue tempie. Mentre osserva le persone che affollano la biblioteca solleva un sopracciglio, il destro, ma non per qualche inconscio riflesso, nessuna delle azioni da lei compiute è mai stata involontaria. In quello stesso istante un tuono tremendo fa tremare i vetri della stanza, una pioggia nera comincia a battere sui muri ammutolendo il mormorio delle voci all’interno. Gli adulti si affrettano a salutare i bambini e corrono via, verso i portici al di là della strada.
Rimane soltanto un ragazzo insieme ai piccoli avventori, li richiama intorno a sé e li fa sedere su un tappeto, circondati da giocattoli di legno e libri colorati.
“Questa sera raccontiamo una storia… la volete sentire?”
“Sìììì!” Rispondono in coro i bambini.
“Questa però non è una storia come le altre, lo sapete perché? È una storia vera…”
“Le storie non sono vere!” Commenta una bambina.
“Chi lo può mai dire? È successo tanti anni fa, qualcuno ci crederà, qualcuno no.”
Lo sguardo di Malva si sporge oltre lo schermo del computer, curioso di ascoltare.
“Lo sapevate che mille anni fa, proprio dove oggi si trova il vostro paese, si estendeva un’immensa palude, la terra era ricoperta da un velo d’acqua da cui emergevano isole, umide boscaglie e canneti, formando un intricato labirinto dove si procedeva solo a bordo di lente imbarcazioni con il fondo piatto. Una volta avventuratisi in mezzo agli acquitrini era difficile orientarsi e si potevano perdere i punti di riferimento, rimanendo invischiati fra vegetazione e fanghi insidiosi. Le acque si estendevano per chilometri e chilometri, la palude diventava un lago immenso su cui la nebbia non si sollevava mai. Gli abitanti delle città, Lodi, Crema, Cassano, al sicuro dentro le loro spesse mura di pietra, lo chiamavano Lago Gerundo.
“Questa brava gente, rispettosa delle leggi e osservante dei precetti religiosi, si guardava bene dall’inoltrarsi oltre le rive del lago. Sapeva che al di là di quel muro di quel muro di nebbia si aggiravano spettri, un popolo che parlava una lingua antica, venerava déi pagani e offriva sacrifici al Drago. Il nome di questa temibile creatura era…”
“Tarantasio…” Sussurra Malva allo scoppio lontano di un nuovo tuono.
“Tutti quanti sappiamo che cosa si fa quando un paese è infestato da un drago, giusto? Bravi, si chiama un valoroso cavaliere per ucciderlo e liberare il contado dall’orrendo flagello. Volete sapere come si chiama l’eroe che sconfisse Tarantasio? Non ve lo posso dire, poiché nessun avventuriero che si fosse inoltrato nel Gerundo a caccia del mostro è mai tornato.
“Nel corso dei secoli il lago è stato bonificato, vuol dire che sono stati scavati dei canali che hanno permesso a tutta l’acqua di defluire, lasciando al suo posto una grande e fertile pianura. Forse il Gerundo si è portato via con sé il suo terribile drago, chi potrà mai saperlo? Scomparve così, senza lasciare traccia.”
Un nuovo boato fa sussultare i bambini sul tappeto, una lama di luce strazia quel buio corporeo che inghiotte il mondo oltre i vetri delle finestre. Le lunghe lampade al neon sul soffitto della biblioteca emettono un inquietante ronzio fino a spegnersi. Per un momento vi sono solo buio e silenzio, poi qualche bambino comincia a gridare ma il ragazzo li rassicura, non è successo nulla, è solo un’interruzione dell’elettricità.
Un bambino si alza e cammina verso il banco dei prestiti. Malva lo sente arrivare, piccolo e impaurito ma determinato a non lasciarsi sopraffare dall’oscurità che lo circonda. Si avvicina alla bibliotecaria, avverte soltanto il profumo erbaceo dei suoi vestiti, la sente che armeggia con alcuni oggetti finché come per incanto i suoi occhi increduli tornano a vedere.
Ciò che scorge è il volto della bibliotecaria rischiarato da una luce tremolante, le sue labbra contratte soffiano piano sullo stoppino di una candela. Non ha in mano altro che questa, il suo respiro calmo, infuocato,e la fiamma che divampa davanti alla sua bocca.
Nero è il fiume
Maria stava lavando i panni nel torrente che scendeva impetuoso dalle colline per poi allargarsi giù a valle dove avevano sistemato i sassi per strofinare la biancheria e batterla.
A Maria piaceva fare la lavandaia. Quasi tutte le sue amiche preferivano andare nei campi a fare le mondine.
A Maria, piacevano gli odori e i rumori che sentiva mentre lavorava. Si divertiva ad attribuirgli colori, come se lei stessa appartenesse a un quadro.
Sapone di Marsiglia? Bianco
Erba schiacciata? Verde
Narcisi in fiore? Giallo
Vento che asciuga i panni? Azzurro
Pietra bagnata? Grigio.
Maria era giovane, forte e bella. Promessa sposa, anche se lei mica ci pensava al matrimonio.
Quel giorno d’inverno, Maria aveva le mani rosse e screpolate dal freddo. Faceva fatica a sbattere i panni, ma lo stesso, si distraeva con i colori. Il cielo aveva tonalità antracite e prometteva neve, quella grossa.
Avrebbe steso i panni in casa, in solaio. Suo padre aveva sistemato una stufa ricavata da vecchi mattoni delle case distrutte dalla guerra. Guerra? Marrone scuro, si diceva Maria, come le camicie dei tedeschi che si vedono sempre più di frequente in paese.
Lei non ci capiva nulla della guerra. Fascisti, nazisti, alleati, le sembravano figure distanti, come i rombi degli aerei che spesso passavano nelle notti.
Improvvisamente il vento condusse a Maria un rumore di passi, cauti, attenti a non spaventare.
«Come ti chiami?», le chiese una voce maschile. Maria pensò al colore del suono. Rosso. Come quello che si affacciava sul suo volto.
Si girò di scatto senza lasciare il panno che stava lavando.
Di fronte a lei, in piedi, un ragazzo magro ma bellissimo. Non vestiva divise e portava un fucile appeso alla spalla.
«Ciao Maria», il ragazzo si sedette a fianco, il fucile in grembo, «hai da mangiare?».
Forse il tono di voce, forse quel sorriso così aperto, forse quegli occhi grigi come il cielo, Maria si sentì subito a proprio agio.
«Non ora, domani se vuoi. Tu come ti chiami?».
«Pietro, nome di battaglia. Sono un partigiano».
Maria tacque e si concentrò sul bucato.
Pietro rimase a guardarla mentre lavorava. Ogni tanto le parlava. Raccontava storie di guerra e Maria pensava che Pietro se le inventasse per fare colpo su di lei. Questo le piaceva. Come alcune parole, tipo ideali. Ideali? Maria se li immaginava di tutti i colori, come l’arcobaleno.
Sapeva che dai monti, ogni tanto, scendeva qualche partigiano. «Non immischiatevi», aveva tuonato suo padre, rivolgendosi soprattutto al figlio maggiore, benché più piccolo di Maria, «la nostra guerra dobbiamo combatterla per avere da mangiare e da dormire. I padroni non gradiscono la politica, soprattutto quella dei partigiani. Se ci cacciano dalla cascina, hai voglia a riempirti la pancia con gli ideali. Testa piena e pancia vuota!».
Il giorno dopo Maria tornò al fiume. Pietro arrivò dopo un po’ di tempo.
Maria allungò al ragazzo il pezzo di pane che si era portata. Pietro ne prese una parte e il resto lo infilò nel tascapane: «Per i compagni», le disse.
Da quella volta, Pietro arrivava sempre al fiume dopo di lei e parlava, parlava, parlava.
La primavera sembrava affacciarsi anzitempo. Le piogge rendevano tutto più difficile. Maria cercava ogni scusa per andare giù al torrente. E ancora, Pietro arrivava sempre.
Un giorno le prese la mano. Maria ne ebbe vergogna. La pelle era screpolata e ruvida. Le mani di Pietro erano calde e morbide. Si capiva che era di buona famiglia, forse ricco, addirittura.
Un giorno si baciarono. I baci divennero sempre più carichi di desiderio.
Quando fecero l’amore, la primavera aveva stanato le prime margherite. Alcuni iris si allungavano lungo le sponde del fiume.
Maria tornò a casa ebbra, ubriaca di tanto amore, tanta passione. Pietro era stato molto dolce, dolce e impetuoso al tempo stesso, proprio come il torrente dove lavava i panni.
Nella notte si sentirono gli aerei volare. Di solito passavano per bombardare in città. Quella notte no. Le bombe cadevano fischiando non lontano dalla cascina. Tutti scesero nelle cantine per ripararsi. In lontananza, arrivavano anche echi di spari.
Il giorno dopo, il sole splendeva come sempre, ignaro della guerra.
Maria corse al fiume preoccupata per Pietro.
Lo vide in lontananza. Era arrivato prima.
Stava seduto contro un albero, il capo chino su un lato.
Dorme, pensò Maria, poi urlò: «Stupido! Dormi con i piedi dentro l’acqua?».
Pietro non rispose. Non poteva e non l’avrebbe mai più fatto.
Era stato ferito nell’imboscata. I fascisti o forse i nazisti, che stavano indietreggiando.
Maria si avvicinò e vide il sangue. Tanto sangue. Era sceso lungo l’erba colando verso il fiume. Si era rappreso, formando un rivolo scuro.
Prima che le gambe la facessero crollare in ginocchio lasciandola senza più colori nella testa, Maria pensò Fiume nero.
Maifreda da Pirovano. La Papessa.
Abbazia di Mirasole, febbraio 1300.
Frate Candido correva alzando ora le mani, ora l’orlo del saio per non inciampare.
Nei corridoi rimbombavano lo scalpiccio dei suoi sandali e l’ansimare del suo fiato che gli spegneva la voce in gola.
Quando si fermò davanti alla porta dell’Abate, deglutì per recuperare la lucidità. Per un attimo, alzò lo sguardo al cielo recitando le prime quattro strofe del Pater Noster. Lo faceva sempre quando chiedeva l’aiuto di Dio.
Bussò alla porta e rimase in attesa. Una voce chiara e ferma lo invitò a entrare.
«Magister», esordì Fra Candido saltando ogni preambolo canonico, «l’acqua!».
Il giovane Abate rimase fermo, in piedi davanti alla sua scrivania. Attendeva che il monaco si riprendesse. Era evidentemente in preda all’ansia.
Passò qualche secondo, poi Fra Candido disse ancora: «L’acqua dei pozzi!», interrompendosi subito dopo.
Il giovane Abate lo esortò: «Ebbene?».
«Avvelenata! Qualcuno ha gettato pezzi di carogna in ognuno di essi!».
Sul viso dell’Abate si disegnò un’espressione profonda, lo sguardo di chi cerca prima le domande, poi le risposte. Era entrato nell’ordine degli Umiliati diversi anni prima. Subito, aveva percepito l’energia infusa dagli ideali ispirati a una profonda religiosità. Ora era incaricato di condurre l’Abbazia e di gestirne l’economia basata principalmente sulla produzione di feltro. L’acqua era dunque fondamentale.
Ma non era questo che aveva turbato tanto Fra Candido, e non era a questo che stava pensando il giovane Abate mentre rifletteva a capo chino con la punta delle dita unite sotto il naso.
«Chi mai può aver fatto questo?», chiese quasi a se stesso.
«Non lo so», rispose Fra Candido aprendo le braccia per poi lasciarle cadere.
L’Abate sospettava che l’obiettivo di tale gesto fosse impedire la visita prevista l’indomani: Maifreda da Pirovano, detta la Papessa. Donna nobile, di rara intelligenza, suora dell’ordine degli Umiliati. Professava i principi di Guglielma di Milano, altrettanto nobildonna in attesa di beatificazione per i miracoli compiuti. Prima di morire, Guglielma stessa elesse Maifreda sua Vicaria. Ecco perchè Papessa.
L’Abate decise di concentrarsi sul problema più imminente: l’acqua dei pozzi inutilizzabile. Per nulla al mondo avrebbe rinunciato a sentire i discorsi della Papessa.
In seguito, si sarebbe occupato di trovare l’autore del misfatto.
L’Abate guardò per un istante fuori dalla finestra. Le campagne intorno all’Abbazia erano striate di bianco e di nero. Il cielo aveva quella luce tenue e rosata dell’alba invernale. Si sedette alla scrivania. A Fra Candido parve si fosse allontanato di mille chilometri.
«Fratello Candido, dai ordine di recuperare quante più pertiche di feltro possibili. Legatele assieme e gettatele nei pozzi dopo averle affrancate ai bordi».
Fra Candido rimase immobile. Gettare il loro prezioso feltro nei pozzi? E perché?
Trasalì quando il Priore batté un pugno sul piano della scrivania: «Presto, Fratello, fai come ti dico». Il tono era benevolo e Fra Candido uscì di corsa seguito dalla benedizione del priore che gli scaldò il cuore.
Il feltro prosciugò i pozzi, ne pulì i fondi, i fianchi e bonificò la sorgente. L’acqua tornò potabile.
L’indomani la Papessa arrivò all’Abbazia di Mirasole con il suo nutrito seguito. Celebrò messa, predicò la beatificazione di Guglielma da Milano. Usò parole che non lasciavano fraintendimenti: Cristo è stato figlio di Dio, sua incarnazione maschile. Guglielma e stata figlia di Dio, sua incarnazione femminile. Ella risorgerà.
I frati, le monache dell’ordine degli Umiliati la ascoltavano attenti e rapiti. Tutti tranne uno. Colui che riportò le parole di Maifreda al tribunale inquisitorio. Divenne sorvegliata speciale.
Il 10 aprile 1300, Pasqua, Maifreda, in abiti sacerdotali, celebrò Messa solenne secondo le liturgie.
Morì nello stesso anno, a settembre, dopo un processo che la vide colpevole di eresia e per questo condannata al rogo.
Il giovane Priore conservò per sempre nella memoria il significato delle parole che Maifreda da Pirovano gli aveva sussurrato: Dio è uomo, Dio è donna, Dio è tutto.
Nota dell’autrice: i fatti sopra descritti relativi all’Abbazia di Mirasole sono frutto di pura fantasia. Il resto è liberamente ispirato dalla storia.
Il pescatore errante dell’Asia
Me lo racconti ancora, papà? Mi racconti di quando ad Aral c’era il mare?
La testa si riempie di sogni se si vive di un sussidio statale e poco altro, il tempo scorre tumultuoso come acqua nelle fogne e la puzza sale al cervello, i pensieri muoiono e marciscono diventando incubi terribili. Levent è troppo giovane per essere vaccinato contro il vaiolo, per aver visto uomini e cani partire per lo spazio, per aver assistito alla caduta dello Stato, per aver sperato nella democrazia e per aver visto il mare. Sebbene nato dopo tutto, ignorante di un passato troppo lungo, non gli serve certo un’illuminazione per accorgersi che lì intorno è tutto uno schifo. Basta guardare i volti dei più grandi, che tengono dentro agli occhi una nostalgia schiacciante, come il sole a picco che opprime il deserto intorno alla città.
È vero papà? È vero che le ragazze si vestivano bene e passeggiavano la sera sul lungomare?
Si va via quando non se ne può più. Se il lavoro non c’è non si può mai cominciare, e se mai si inizia mai si finisce. Chi lo dice che da un’altra parte le cose vadano meglio? Lo si sente dire dai camion che grugniscono tra la polvere, operai di una mattina scaricano grandi casse che contengono frutta, verdura, carne, pesce, oggetti e vestiti che sono poi venduti nei negozi. Da qualche parte devono pur arrivare.
È vero che alla stazione di Aral arrivavano le famiglie importanti dalla capitale per trascorrere le vacanze? Che la sera i teatri erano aperti e la gente usciva per assistere ai concerti? Che la mamma andava dal parrucchiere e ne usciva pettinata alla moda?
I suoi genitori gli hanno raccontato tutto questo, di come anno dopo anno la città è morta in preda ad un’agonia lenta, e secca. Levent si è fatto l’ultimo selfie quella mattina, l’ha caricato come stato su Telegram, ha ricevuto alcune reazioni dai suoi amici, poi è calato il silenzio. Più si allontana dalle ultime case più il segnale si indebolisce, ha collegato il cellulare ad una batteria che si ricarica con la luce solare, che nel deserto non mancherà. Per la traversata ha chiesto alla sua famiglia di potersi portare un asino, che è resistente, porta in groppa sia il ragazzo sia il suo essenziale bagaglio e non si cura se ad un certo punto i suoi zoccoli cominciano a scricchiolare su una distesa di sale.
Levent ha detto ai suoi genitori di voler andare nella valle dell’Amu Darya, cercare un impiego in una piantagione di cotone e mandare qualche soldo a casa, solo così li ha convinti a cedergli l’asino. Per raggiungere la fertile valle deve attraversare il mare di Aral, a piedi, perché di tutta quella grande acqua non rimane più niente. Scende lungo un lieve pendio e si ferma un poco a riposare, all’ombra dello scafo di un grande peschereccio arrugginito, appoggiato a una duna di sale. Quello appartenuto alla sua famiglia era più piccolo, si è arenato non molto lontano. C’è passato davanti poco prima e vi ha potuto leggere alcune lettere del nome della mamma.
Lo sfortunato mare di Aral era la casa di tanti pescatori che dividevano le sue fragili onde con gli uccelli acquatici, e con la vecchia flotta militare dello Zar che presidiava l’Asia centrale. La sua grande debolezza, essere un mare interno, se l’acqua non arriva più il sole e il vento lo spazzano via.
L’asino di Levent cammina lento verso una catasta di bastoni bianchi, liquidi all’orizzonte come un miraggio. Il suo sguardo confuso da quel malsano viaggiare incrocia enormi orbite vuote e inespressive, appartenute ad un pesce smisurato. Occorrono decine di passi per arrivare fino alla fine dello scheletro di quell’antico mostro acquatico. Anche suo papà avrebbe potuto vendere pregiato caviale, se avesse però comprato un peschereccio più grande.
Fra pochi giorni Levent raggiungerà finalmente l’acqua. la troverà imbrigliata da una catena di dighe e di chiuse, che cingono l’Amu Darya e lo addomesticano, ne raddrizzano le anse serpentine per convogliarlo verso distese sterminate di batuffoli bianchi.
Ha in testa una tale confusione. Dà la colpa al sole a picco, ma si accorge che nemmeno riposando all’ombra di una grande roccia i suoi pensieri riescono a trovare un senso. La storia che si è raccontato è buona, all’inizio sollevare sacchi di cotone non sarà una passeggiata, ma gli metterà in tasca qualche soldo, abbastanza da chiedere a una ragazza di uscire. Anche nella valle dell’Amu Darya le ragazze credono in Dio, quindi non dovrebbero esserci problemi. Se si lavora e si rispettano le regole le cose andranno lisce come devono andare.
Tuttavia Levent non riesce a togliersi dalla testa quegli enormi occhi fantasma del deserto, quel muso appuntito rivolto all’insù, come se cercasse disperatamente di respirare. Si risveglia ma quel sogno rimane lì: se in quelle dighe lungo il fiume si aprisse uno spiraglio, e l’acqua libera riuscisse a fluire via… il grande storione potrebbe riprendere a nuotare.
Pioggia
Mino si guardò intorno sconsolato, scacciando infastidito un moscone che si ostinava a girargli intorno. Ormai erano mesi che non pioveva, il suo campo coltivato a granturco aveva da tempo perso il colore verde delle tenere foglioline e le pannocchie stentavano a crescere, secche e protese verso l’alto come in uno strenuo tentativo di ricevere qualche goccia consolatrice.
«Per annaffiarle mi rimane solo il mio sudore», pensò disperato. Tocco le pianticelle rinsecchite con le dita callose di chi la terra l’ha lavorata per tutta la vita e la conosce bene, fin troppo bene per sperare in un capovolgimento della sorte.
«Quest’anno il raccolto rischia di essere compromesso», si disse quasi con rassegnazione. Pensò a sua moglie, a cui da tempo nulla riusciva a strappare una risata, e che contava sempre meno su di lui per il vivere quotidiano, a suo figlio che aveva perso ogni fiducia nel futuro e alla terra non voleva più pensare, ai progetti di vita che anno dopo anno andavano in fumo, bruciati dalla stessa arsura che stava prosciugando la vitalità dai suoi campi.
Eppure quella era la vita che da generazioni aveva sostenuto la sua famiglia, quelli erano i terreni che si erano tramandati di padre in figlio. Non conosceva altro, Mino. Non si era mai spostato dai confini delimitati dalle sue rogge.
Un tempo, i campi maturavano rigogliosi e gli anni sterili erano pochi, catastrofi naturali come grandinate o siccità venivano raccontate dai vecchi ai bambini a cui la sera, raccolti nel granaio per scaldarsi a vicenda, raccontavano le storie di messi perdute, disperazione e ripresa fra difficoltà superate e nuove sfide all’orizzonte.
Una vita faticosa ma a cui nessuno avrebbe mai pensato di poter rinunciare: la terra era il loro destino, la loro ragione di essere.
Ora però tutto era cambiato. Ogni anno era più caldo, meno piovoso, e i raccolti si facevano sempre più striminziti.
«Acqua, serve acqua! Dio del cielo, o comunque tu ti chiami: se ci sei, se mi ascolti, fai piovere, fai bere i miei campi e restituiscimi la mia vita!».
Uno sguardo al cielo e uno alla terra secca, rimase fermo ancora un po’, come in attesa.
L’IMPORTANZA DELL’ACQUA
Stavamo viaggiando in quel deserto di neve e ghiaccio da quattro giorni. Avevamo esaurito le scorte di cibo e acqua, il gas era agli sgoccioli e anche i cani erano affaticati.
Di quel passo, avremmo raggiunto la postazione del Centro Ricerche sul Clima a Irkutsk di lì a novantadue ore. Io non ce la facevo più: volevo sdraiarmi sulla slitta e addormentarmi senza pensare più al nostro sfortunato progetto, partito male e proseguito peggio, incagliatosi in una serie di ostacoli prima politici, poi economici e amministrativi, infine logistici e tecnici.
Delle tre ricercatrici internazionali, ero l’unica che era rimasta. Avevo dovuto subire le battute sarcastiche e sessiste dei miei compagni di squadra, ma la mia determinazione e l’abitudine a farmi scivolare di dosso le offese come acqua sulla roccia mi aveva anche guadagnato una certa considerazione.
A differenza delle altre che avevano abbandonato, non avevo una famiglia a cui rendere conto, un marito da cui tornare, dei figli a cui dover dare sicurezza, nemmeno dei gatti abituati a dormire sul mio letto la notte, non più.
Negli ultimi dieci anni la mia vita era la ricerca; il progetto sulla memoria dell’acqua iniziato da Masaru Emoto nel secolo scorso aveva guadagnato credibilità e finanziamenti, i progressi teorici della fisica quantistica avevano dimostrato l’indimostrabile, ora anche le aziende e i governi intravedevano un futuro di potenziali applicazioni commerciali e avevano cominciato a sciogliere le loro riserve.
Il paradosso è che eravamo circondati da acqua ed eravamo tutti disidratati. La sete ci accompagnava dal risveglio all’alba a quando ci fermavamo nelle basi di sosta al tramonto.
Avevamo sbagliato strada per un malfunzionamento della bussola e lo scioglimento del permafrost aveva modificato l’assetto dell’enorme lastra di ghiaccio su cui scivolavamo con le nostre tre slitte, determinando un allungamento del percorso di due giorni. Il gas che ci permetteva di sciogliere il ghiaccio per bollirlo e ricavare acqua potabile era insufficiente per tutti. Dopo due giorni, resosi conto dell’errore, il capo-spedizione aveva deciso di razionare l’acqua: a ognuno di noi spettava mezzo litro di acqua a testa al giorno. Tutti erano molto disciplinati e osservavano scrupolosamente le indicazioni, ma si percepiva un’aumentata irritabilità e una certa stanchezza negli equipaggi.
Al briefing preparatorio avevamo imparato che era sconsigliabile far sciogliere in bocca direttamente la neve cruda, per via dei potenziali patogeni, se non volevamo finire come Rosanna Benzi, che contrasse la poliomielite a tredici anni e visse il resto della sua vita in un polmone d’acciaio. Morì a quarantatré anni.