Francesca è scesa dal vagone della metropolitana a balzelli, correndo si è fatta largo tra la folla di Berlino prima che quella mano pesante, intrusa, volgare dell’uomo col berretto si insinuasse di nuovo tra le sue gambe. E’ corsa a rifugiarsi in una caffetteria, ha chiamato la mamma, ha chiesto che la venisse a prendere, poi ha ordinato un cappuccino e si è messa a pensare a quanto le era appena successo. Proprio oggi che aveva vinto la gara di nuoto della classe, proprio oggi che era stata interrogata in filosofia e aveva preso un bel voto, proprio oggi che doveva andare a scegliere di che colore dipingere il vecchio letto.
Una mano così non l’aveva mai sentita su di sè. La mano del papà era ferma e possente, ma mai le aveva dato fastidio, la mano della mamma era grande e mobile, ma anche morbida. Quella mano estranea voleva rubarle qualcosa, delle emozioni che non era pronta a concedere.
Ora cosa avrebbe dovuto fare? La mamma l’avrebbe convinta ad andare alla polizia? Avrebbe dovuto rinunciare forse a due ore del suo pomeriggio, quando aveva già deciso di studiare con Simona? Magari era meglio non fare niente, cercare di dimenticare, in fondo non era successo niente.
Pensò alla vicina di casa: una giovane donna turca con il velo, sempre incinta. Una macchina per fare figli, appena il bambino di turno cominciava a camminare ne arrivava un altro a occupare la pancia ormai vuota della donna.