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  • #3373
    Monica Caprari
    Moderatore

      Eresos (Isola di Lesbo), 595 a.c.

       

      I vapori dell’acqua calda e opalescente annebbiavano i mosaici dell’hammam, i cui colori risaltavano nelle striature delle gocce che colavano come lacrime di un pianto troppe volte trattenuto.
      Guardo le ragazze giocare nella piscina, io stessa ne sono immersa. Cantano i brani studiati nell’ora di musica e si abbandonano al galleggiamento, muovendo lente le mani per spostarsi sino a quando non incontrano il corpo di una compagna. Allora ridono e si tirano in piedi, emergendo dall’acqua con tutto il busto. Poi si tappano gli occhi e cercano di indovinare con chi si sono scontrate. Hanno una grazia naturale, sono giovani donne, alcune ancora adolescenti, di nobili famiglie, come la mia del resto. Certo, non avevo bisogno di trovare alcun impiego, ma la proposta di insegnare in questa scuola di formazione femminile combaciava perfettamente con la mia necessità, con la mia urgenza, di vivere momenti da tradurre in poesia.
      Ora che sono la direttrice di questo Tiaso, di questo collegio per nobili fanciulle, il mio compito è quello di elevare la loro grazia allo stadio massimo. Dovranno essere delle Dee. E già lo sono. Almeno per me.
      Improvvisamente, vedo entrare Eleni, la mia ancella. Saluta le ragazze con un inchino e mi si avvicina, camminando morbida, solo il collo teso verso l’alto, per innalzare il viso. Si inginocchia a bordo vasca e mi sussurra nell’orecchio. Mi dice quella cosa che non avrei voluto udire.
      Mantengo la calma, e con un gesto la congedo.
      Poi mi immergo completamente, come se fosse più facile respirare sotto quell’acqua pesante di sali e oli profumati.
      Riemergo e vedo che le ragazze stanno guardando verso di me, in piedi, curiose di sapere cosa mi sia stato riferito.
      «Fanciulle, è giunto il momento di ritirarvi nelle vostre stanze. Vi ricordo che la cena verrà servita prima del tramonto, sulla terrazza antistante il mare. Preparatevi con cura, non trascurate alcun dettaglio, sarà una prova valida per il giudizio finale. Inoltre, celebreremo un evento molto speciale».
      Le ragazze mormorano guardandosi di sbieco. I loro capelli lunghi sono incollati al corpo, seguendo le linee della schiena.
      Si avvicinano ai bordi, dove sono raggruppati i loro pepli, le morbide vesti bianche che ogni giovane donna riceve dalla scuola il giorno del primo ingresso.
      Il momento perfetto, il bagno di ricreazione al termine delle lezioni pomeridiane, è stato interrotto.
      Dafne mi passa accanto. Le prendo la mano, delicatamente, solo le dita. Lei mi guarda con occhi grandi e neri, quando sorride diventano affusolati come isole distanti.
      «Dafne, tu rimani ancora un attimo», le dico in un soffio.
      So che vorrebbe chiedermi subito il motivo, ma rispetta l’imperativo che legge nei miei occhi.
      Mi si siede accanto, sui gradoni che contornano il fondo della vasca. Appoggia la testa al marmo e chiude gli occhi. Per un attimo mi perdo nel suo collo di cigno, negli incavi delle scapole, nella pelle bagnata.
      Dafne, è entrata cinque anni fa nella scuola. Era appena adolescente. Ora è una donna bellissima, affusolata e alta. Lei è la mia diletta.
      Le ragazze si congedano con un inchino ed escono tra sussurri e risa.
      Nell’hammam cade il silenzio.
      «Maestra, volevate parlarmi?», chiede Dafne accarezzando il pelo dell’acqua.
      «Mia amata allodola, è giunto il momento di lasciare la scuola. Il tuo promesso sposo ti reclama e vuole festeggiare le nozze entro l’estate. È un giovane nobile, i cui possedimenti varcano i mari, sino a comprendere alcune terre di Syrakousai. Lo conoscerai stasera. Arriverà con la sua famiglia. Anche la tua famiglia ci raggiungerà. Non è propriamente la cerimonia di fidanzamento, ma comunque dovrai essere perfetta».
      Dafne mi guarda ancora per un attimo, poi socchiude gli occhi e poggia la testa su di me, il suo capo contro il mio orecchio.
      Le cingo le spalle, le accarezzo un braccio. Non riesco a trattenere le lacrime. Non posso dire altro per non liberare i singhiozzi.
      Dopo un lungo momento, riesco a mormorare la poesia che si è fatta strada in quel vuoto insinuatosi tra la presenza e l’assenza, quell’annuncio di nostalgia che già siede pesantemente dentro il mio costato.
      «Pari agli dèi mi appare lui, quell’uomo
      che ti siede davanti e da vicino
      ti ascolta: dolce suona la tua voce
      e il tuo sorriso

      accende il desiderio. E questo il cuore
      mi fa scoppiare in petto: se ti guardo
      per un istante, non mi esce un solo
      filo di voce,

      ma la lingua è spezzata, scorre esile
      sotto la pelle subito una fiamma,
      non vedo più con gli occhi, mi rimbombano
      forte le orecchie,

      e mi inonda un sudore freddo, un tremito
      mi scuote tutta, e sono anche più pallida
      dell’erba, e sento che non è lontana
      per me la morte.*
      Non riesco ad andare avanti. Le parole si ammassano tra i miei denti, stretti dietro le labbra sigillate e tese dal dolore.
      Ti bacio sui capelli e mi alzo, lasciandoti sola, sentendomi già sola.
      Sono una poetessa, passerò all’immortalità. Il mio nome è Saffo.

      *Poesia di Saffo

      #3374
      Oldgamine
      Moderatore

        Porcudighel
        Imperdonabile dimenticanza!
        Nell’ultimo capoverso del mio racconto “Il genio delle donne”, quale terzo esempio positivo, inserisco Monica Caprari, magica autrice.

        • Questa risposta è stata modificata 1 anno, 9 mesi fa da Oldgamine.
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