Rovisto coi piedi tra le foglie secche del Parco Forlanini. Ho circa 8 anni, è domenica e i miei genitori, per una volta, mi hanno portato a fare una passeggiata nel parco anche se è inverno e fa freddo. Le castagne, con la loro forma arrotondata e il bel colore caldo e lucente, mi chiamano a sè. Le faccio scorrere tra le mani, me ne riempio le tasche del cappotto, le faccio risuonare, le tiro raso terra a mio fratello ma mi fanno smettere subito; mi piacerebbe usarle ma… a me le castagne non piacciono da mangiare. Dunque per me non sono utili. Sono belle però, questo sì. Un giorno ho provato a infilare una collana di castagne, con trapano e tutto. Alla fine però l’ho buttata via, il risultato non era molto… estetico.
Oggi delle castagne apprezzo l’odore. Le caldarroste di novembre in piazza del Duomo a Milano per me sono il simbolo dell’inverno arrivato.
Forse la mia mancata simpatia per le castagne è dovuta al fatto che nella mia famiglia non c’è mai stata la cultura delle castagne. In Germania credo che non si consumino, ad ogni modo mia mamma non ne ha mai fatto cenno. Mio papà ormai era lontano dalla cultura contadina, forse anche dal ricordo della povertà che le castagne simboleggiano.
Sono riuscita a mangiarle a mia insaputa settimana scorsa a casa della Vanda che, da buona emiliana, aveva organizzato una tagliatellata a casa sua. Solo dopo ho scoperto che quelle tagliatelle un po’ scure, dal sapore vagamente dolce, erano fatte con farina di castagne. Non erano poi così male, grazie soprattutto al saporito sugo di funghi porcini. Mentre tutte le altre befane le lodavano però io ero l’unica rimasta in silenzio.
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