Domeniche

“E adesso a casa” – La voce di mio padre che guida l’auto. Io, seduta nel sedile dietro, rivolgo il viso al finestrino.
Fuori è buio, ma le luci della città di Milano, colorano di arancione le gocce sul vetro.
Una domenica sera, come tante. È diventata una routine.
La domenica a pranzo fuori. I miei genitori, i miei fratelli, mia sorella con mia nipote e suo marito.
I nostri ristoranti preferiti sono il Silos a Settala, oppure il Cà del Gulascia a Spino D’Adda.
Ma ogni tanto proviamo anche ristoranti nuovi che hanno appena aperto, come il Clara, ma quest’ultimo non deve essere stato proprio eccezionale.
A tal proposito, vi va di sapere come mia madre e mia sorella scelgono se entrare o no in un nuovo ristorante?
Di questi tempi non esiste ancora internet con cui scandagliare il web alla ricerca di recensioni o foto, per capire se il locale merita.
Quindi si viene a conoscenza del nuovo locale tramite passaparola, oppure cartelloni pubblicitari sulle strade in transito.
Ma come decidere se entrare o no dentro al ristorante e sedersi?
Ecco è qui che mia madre e mia sorella entrano in gioco.
Immaginate due macchine che si fermano al parcheggio del ristorante. Da ogni macchina scende una donna e insieme entrano. Dopo una decina di minuti escono. Se entrano in macchina, allora si cambia ristorante, altrimenti si avvicinano al finestrino del guidatore e danno la loro benedizione per entrare.
Voi penserete che sono andate dentro a guardare il menu, ed invece no. Hanno chiesto di andare in bagno.
Se il bagno è pulito e in ordine, allora il ristorante ha passato l’ispezione.
Comunque, dopo l’abbuffata al ristorante ogni famiglia torna a casa. Generalmente i grandi si fanno il pisolino di un oretta.
Nel pomeriggio tardi, mio padre sfoglia il giornale e guarda la programmazione dei cinema, qui in città.
Sceglie il film e porta noi bambini al cinema.  Il Maestoso è uno dei miei preferiti.
Tutto molto bello. Ma il momento migliore è quando torniamo a casa.
Qui seduta dietro a mio padre che guida, guardo questa città attraverso il vetro dell’auto. Come dicevo, anche se fuori è notte, le luci di Milano mi scaldano il cuore. Socchiudo gli occhi, sono serena, sono felice. Vorrei che non arrivassimo mai. Vorrei sentirmi così per sempre. Appagata da una giornata in famiglia, godereccia e divertente.

Il ciclo della vita

Per tutto questo tempo sono rimasta in compagnia delle mie sorelle. Tutte insieme abbiamo viaggiato per molto tempo. Visitato un sacco di posti. Osservato tante città.
Ci troviamo a Genova, vicino al mare. Sento l’odore della sua aria salmastra. Vedo i bambini accompagnati dai genitori che entrano all’acquario. Sarebbe piaciuto anche a me vedere quello spettacolo sommerso, ma non posso.
È ora di partire dobbiamo fare molta strada. Più andiamo avanti più sento freddo. Noto quel colore bianco che ricopre la roccia. È così luminosa…. Chiedo a mia sorella dove ci troviamo e lei risponde: “Monte Bianco”
Mi avevano raccontato di questo posto, ma per me è la prima volta che lo vedo.  Sono là, immobile affascinata dallo spettacolo, quando sento uno stridio alle mie spalle e il suono di un battito di ali. Mi volto e la vedo nella sua maestosità di apertura alare, un’aquila reale. Che animale stupendo.
Ma eccoci pronti a ripartire…
Superiamo il Duomo di Milano. Andiamo oltre, nella provincia.
Il cielo si fa scuro. Vedo la luce dei lampi e sento il rumore dei tuoni. Mi spaventano
Mi hanno raccontato che quando il cielo diventa così, la nostra vita termina. Ho tanta paura, mi guardo attorno e vedo lo sguardo delle mie sorelle. Alcune hanno dipinto sul volto il mio stesso terrore, altre sembrano sogghignare.
Ad un tratto mi sento pesante, molto pesante. È questo l’inizio della fine?
Improvvisamente la sensazione che provo è come se una botola si aprisse sotto di me… E precipito. Sento l’aria sferzare il mio viso, sono terrorizzata. Sicuramente finirò schiacciata sul terreno. Ecco è la fine.
Plick!
Con mia sorpresa atterro sul morbido. Che strana superficie liscia e calda. Altre mie sorelle atterrano vicino a me. Noto che ci sono altre mie simili, ma non siamo sorelle. Loro sono diverse. Mi avvicino, sono tristi. Il loro odore mi ricorda l’aria salmastra di Genova.
Scivolo via lentamente da quella superficie morbida e calda. E poi cado sul terreno.
Guardo in alto, ed è allora che vedo dove ero prima.
Una donna
Vicino a me una delle mie sorelle. Le chiedo: “Chi erano quegli esseri simili a noi, ma dall’odore salato?”
La risposta: “Lacrime di donna”
Ci penso su.
E domando: “Da dove nascono le lacrime di donna?”
Mia sorella con un tono quasi materno mi risponde” Dal cuore”
Poi mi ricordo che adesso siamo sul terreno e allora una certa inquietudine cresce in me.
Spaventata esordisco: “E adesso che succede? Siamo destinate a morire qui?”
Lei sorridendo mi risponde: “Ma no sciocchina, adesso aspettiamo di evaporare e di tornare su un’altra volta”
Mi rassereno. Allora non è finita.

La Fiamma del Drago

Un tuono. Un fragore improvviso che squarcia l’estate, il cielo si richiude su se stesso catturando l’aria sotto al suo mantello. Cala una notte cupa e inattesa che impone le sue leggi, spegnendo il tramonto con un soffio di aria fredda.

Una fila vociante di bambini varca la porta della biblioteca, accompagnati per mano dai grandi che, chiacchierando fra loro, di tanto in tanto si distraggono e si lasciano sfuggire qualche rincorsa e spintone. Sfilano uno dopo l’altro davanti al bancone dietro al quale, rigida nella sua postazione, Malva li osserva. Cerca di rimanere seminascosta dalla pila di libri da catalogare, non può sottrarsi però al saluto cordiale di alcuni dei frequentatori più abituali. Per quanto si sforzi di risultare antipatica, col desiderio di essere lasciata in pace a rimuginare sul suo passato, c’è sempre qualcuno che si mostra lieto di incontrarla.

Ormai consumata dal disappunto a Malva risulta sempre più difficile comprenderli. Non sembra anziana, forse dimostra una certa età per via del suo modo di vestirsi così intessuto di trascuratezza e insoddisfazione. Tuttavia ogni congettura sui suoi anni si rivela inutile, più che un segreto ben tenuto la data della sua nascita ha tutte le sembianze di un autentico mistero, come se si parlasse di epoche lontane.

Dall’altro lato dei suoi occhiali i bambini corrono verso l’angolo dei giochi, cercano il loro preferito rovistando nelle ceste, ridono del loro disordine mentre le chiacchiere degli adulti formano un costante brusio. Malva ne ha vista tanta di confusione nella sua vita, non è il trambusto a disturbarla, ma spensieratezza e gioia, certa ormai che i suoi giorni lieti se ne siano andati e non ritorneranno più. Non sopporta le aperture serali della biblioteca, ma non può negare che qualche ora di straordinario le faccia comodo. Un altro rimpianto, mai nella sua esistenza ha dovuto preoccuparsi della sua sopravvivenza, come in questo tempo.

Il tormento di tali emozioni rimbomba tra le sue tempie. Mentre osserva le persone che affollano la biblioteca solleva un sopracciglio, il destro, ma non per qualche inconscio riflesso, nessuna delle azioni da lei compiute è mai stata involontaria. In quello stesso istante un tuono tremendo fa tremare i vetri della stanza, una pioggia nera comincia a battere sui muri ammutolendo il mormorio delle voci all’interno. Gli adulti si affrettano a salutare i bambini e corrono via, verso i portici al di là della strada.

Rimane soltanto un ragazzo insieme ai piccoli avventori, li richiama intorno a sé e li fa sedere su un tappeto, circondati da giocattoli di legno e libri colorati.

“Questa sera raccontiamo una storia… la volete sentire?”

“Sìììì!” Rispondono in coro i bambini.

“Questa però non è una storia come le altre, lo sapete perché? È una storia vera…”

“Le storie non sono vere!” Commenta una bambina.

“Chi lo può mai dire? È successo tanti anni fa, qualcuno ci crederà, qualcuno no.”

Lo sguardo di Malva si sporge oltre lo schermo del computer, curioso di ascoltare.

“Lo sapevate che mille anni fa, proprio dove oggi si trova il vostro paese, si estendeva un’immensa palude, la terra era ricoperta da un velo d’acqua da cui emergevano isole, umide boscaglie e canneti, formando un intricato labirinto dove si procedeva solo a bordo di lente imbarcazioni con il fondo piatto. Una volta avventuratisi in mezzo agli acquitrini era difficile orientarsi e si potevano perdere i punti di riferimento, rimanendo invischiati fra vegetazione e fanghi insidiosi. Le acque si estendevano per chilometri e chilometri, la palude diventava un lago immenso su cui la nebbia non si sollevava mai. Gli abitanti delle città, Lodi, Crema, Cassano, al sicuro dentro le loro spesse mura di pietra, lo chiamavano Lago Gerundo.

“Questa brava gente, rispettosa delle leggi e osservante dei precetti religiosi, si guardava bene dall’inoltrarsi oltre le rive del lago. Sapeva che al di là di quel muro di quel muro di nebbia si aggiravano spettri, un popolo che parlava una lingua antica, venerava déi pagani e offriva sacrifici al Drago. Il nome di questa temibile creatura era…”

“Tarantasio…” Sussurra Malva allo scoppio lontano di un nuovo tuono.

“Tutti quanti sappiamo che cosa si fa quando un paese è infestato da un drago, giusto? Bravi, si chiama un valoroso cavaliere per ucciderlo e liberare il contado dall’orrendo flagello. Volete sapere come si chiama l’eroe che sconfisse Tarantasio? Non ve lo posso dire, poiché nessun avventuriero che si fosse inoltrato nel Gerundo a caccia del mostro è mai tornato.

“Nel corso dei secoli il lago è stato bonificato, vuol dire che sono stati scavati dei canali che hanno permesso a tutta l’acqua di defluire, lasciando al suo posto una grande e fertile pianura. Forse il Gerundo si è portato via con sé il suo terribile drago, chi potrà mai saperlo? Scomparve così, senza lasciare traccia.”

Un nuovo boato fa sussultare i bambini sul tappeto, una lama di luce strazia quel buio corporeo che inghiotte il mondo oltre i vetri delle finestre. Le lunghe lampade al neon sul soffitto della biblioteca emettono un inquietante ronzio fino a spegnersi. Per un momento vi sono solo buio e silenzio, poi qualche bambino comincia a gridare ma il ragazzo li rassicura, non è successo nulla, è solo un’interruzione dell’elettricità.

Un bambino si alza e cammina verso il banco dei prestiti. Malva lo sente arrivare, piccolo e impaurito ma determinato a non lasciarsi sopraffare dall’oscurità che lo circonda. Si avvicina alla bibliotecaria, avverte soltanto il profumo erbaceo dei suoi vestiti, la sente che armeggia con alcuni oggetti finché come per incanto i suoi occhi increduli tornano a vedere.

Ciò che scorge è il volto della bibliotecaria rischiarato da una luce tremolante, le sue labbra contratte soffiano piano sullo stoppino di una candela. Non ha in mano altro che questa, il suo respiro calmo, infuocato,e la fiamma che divampa davanti alla sua bocca.

Il vento del cambiamento

Adele si avvicinò alla scogliera arrancando, combattendo contro il vento che le sbatteva in faccia con violenza terriccio misto a spuma di mare e la colpiva con la stessa forza delle sue disillusioni.
Si era alzata presto, la giornata ottobrina era fredda e foriera dell’autunno che stava avanzando a passo veloce.
Quando aveva aperto la finestra era ancora buio e il rumore del vento fra le foglie, più che il respiro del Cosmo, le aveva richiamato alla mente un urlo di dolore della natura, violentata dalla furia degli elementi che la sferzavano senza pietà.
«Proprio come mi sento io – aveva pensato con amarezza – violentata dai ricordi che mi trascinano con la forza del vento verso un destino ineluttabile…»
Un destino segnato fin dalla nascita a causa di un carattere troppo condiscendente dettato dalla sua forte empatia.
Adele non aveva mai amato contrapporsi o causare infelicità. Tutto ciò che le persone intorno a lei provavano la colpiva con la forza di un pugno nello stomaco, sia i momenti di gioia che, soprattutto, quelli di dolore o di angoscia. Per questa ragione si era da sempre adoperata a rendere a vita degli altri attorno a sé la più serena possibile, anche a discapito di quello che poteva provare lei.
«È così che mi sono inguaiata. Che bel dono che mi ha fatto l’Universo!» si trovò a realizzare con un sospiro.
Si aggrappò alle rocce lucide di pioggia come a un’ancora di salvezza contro la forza del vento che pareva volerla respingere, ricacciare indietro in quel mondo dal quale lei stava disperatamente cercando di sfuggire.
Trovò riparo fra le sporgenze e si sedette, combattendo la sensazione di ostilità che le proveniva dalla dura pietra sulla quale aveva trovato riparo. Vincendo un senso di vertigine, socchiuse gli occhi per riuscire a guardare verso il basso.
Le onde spinte dal maestrale si infrangevano con forza contro la scogliera, innalzando una spuma bianca e nera che pareva minacciosa e rassicurante al tempo stesso.
Adele fissò quello spettacolo della natura percependone la similitudine con il proprio stato d’animo.
L’indomani sarebbe stato il grande giorno, si ricordò con un senso di malessere. «Dovrò lasciare la mia casa – pensò – non riesco davvero a credere che accadrà veramente».
La casa, dove Adele era nata e vissuta per tutta la sua vita, aveva finalmente trovato un acquirente e il giorno seguente si sarebbe trovata dal notaio per firmare il documento di cessione. Era sembrata a tutti la scelta più logica: anni di incuria, un clima inospitale per la maggior parte dell’anno e il graduale ma inesorabile abbandono del borgo della maggior parte dei suoi abitanti avevano reso del nome del paese, Villa Gioiosa, un drammatico ossimoro.
Villa Tristissima avrebbero dovuto chiamarla, pensò con un sorrisetto sardonico. Eppure poteva ricordarsi di quanto lei e i suoi, un tempo, fossero stati felici. Sentiva ancora le risate dei bambini, il vociare della folla quando si radunava nei giorni di festa, la musica e il profumo del cibo che usciva dalle finestre aperte per richiamare velocemente tutti quanti al desco famigliare.
Poco alla volta se ne erano andati tutti: i suoi fratelli, i suoi genitori e, in una come da una lenta e inarrestabile emorragia, ad uno ad uno, gli altri abitanti del paesino.
Solo lei aveva resistito così a lungo, trincerandosi dietro al fatto che, lavorando al computer, non aveva bisogno uscire di casa.
«Ti stai trasformando in un’eremita, devi andartene da lì!», la rimproveravano parenti e amici, i pochi che le erano rimasti. Ma lei, fra quelle mura, si era sempre sentita nel posto giusto.
Soprattutto, lontana da un’umanità che continuava a chiederle di partecipare alle proprie esigenze, fagocitando le sue.
Era stato proprio a causa dei suoi, per non sentire più la loro preoccupazione, che aveva deciso di vendere e di trasferirsi in città, come avevano fatto gli altri prima di lei.
L’imprenditore che aveva acquistato ne avrebbe fatto un resort di lusso, una Spa isolata dove ricchi e annoiati clienti avrebbero trascorso le loro rilassanti vacanze lontani da occhi indiscreti.
La sua casa sarebbe stata violentata. Questa consapevolezza aggiungeva dolore al suo dolore.
A quel pensiero sentì gli occhi bruciarle.
Mentre lottava per trovare il respiro contrastando il vento che le sferzava il viso con forza, si ritrovò a canticchiare una canzone di De André: «Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria. col suo marchio speciale di speciale disperazione…».
In direzione ostinata e contraria… come il vento che la respingeva… come i suoi pensieri che respingevano il vento…
Restò a lungo immobile, resistendo al freddo che incombeva, senza più riuscire a distinguere le sue lacrime dalle gocce delle onde, entrambe salate, entrambe vitali.
«Non vendo più! Non lo farò!» urlò con tutta la forza che aveva in gola.
Il vento è cambiato, finalmente anch’io andrò in direzione ostinata e contraria! Pensò sorridendo, con il cuore che le batteva forte in petto, sentendosi per la prima volta in vita sua libera e viva.

L’Uomo del Vento

If it hadn’t been for Cotton Eye Joe

I’d been married long time ago

vecchia ballata degli anni Novanta

Alla gente di qui non piace il vento, forse perché è segno del tempo che cambia. Ecco, in questo quel diavolo di Joe è diverso dagli altri, lui non si affida alle previsioni del meteo, ma segue liberamente la direzione di cicloni e anticicloni.

Qualche giorno fa è ricomparso dal niente, da quella sconfortante mancanza di risposte che se l’era portato via. Il suo passo sprezzante contro il sole estivo, si è guardato intorno pensando a quanto fosse cambiato il paese dal giorno in cui se n’era andato. Ha proseguito attraverso la piazza con una smorfia compiaciuta.

Ho riconosciuto all’istante la sua andatura invulnerabile, da autentico pistolero. Ho posato il Campari sul tavolino e ho alzato il braccio per attirare la sua attenzione. Ho sentito risorgere quella sensazione lontana nel tempo, di incontenibile bisogno di avere la sua attenzione, da cui nessuno di mia conoscenza è mai stato immune.

Mi è venuta una voglia matta di ridere. Joe mi ha notato e il suo passo si è fatto più rapido, ha attraversato tutta la piazza nella mia direzione. Avvicinandosi ha calpestato sguardi come blocchetti di porfido, la gente di qui ha la tendenza a dimenticarsi del passato, tanto più se si offre loro da bere, ma non sempre.

Ho visto Joe guardarsi intorno con quei suoi occhi marroni sempre fissi sul mondo, e il sorriso aperto di chi crede con fiducia nel minuto successivo. “Hey!” mi ha gridato “Non posso crederci, sto via trent’anni e ti ritrovo esattamente come ti ho lasciato! Cioè seduto a bere, ma qui è incredibile, è cambiato tutto…”

“Ciao Joe…” ho risposto “Hai ragione, la piazza e i palazzi sono recenti, danno al posto un’aria più rispettabile.”

Si è seduto davanti a me e ha chiamato la ragazzina in shorts per ordinare una birra.

“Dimmi di te, che combini?”

“Le solite cose, e tu? Sei scomparso, non mi sarei mai aspettato di…”

“Ridendo e scherzando, trent’anni… ero partito per quella corsa di moto, in Romagna, poi ho lavorato, sono stato molto molto impegnato, mi sono concentrato sulla carriera sai… mi sono fatto strada nella vendita di ricambi e da lì ho cominciato a viaggiare, anche all’estero, soprattutto Spagna.”

“Quindi… ti sei rifatto una vita?”

“Ma no, che dici? Non mi sono mai fermato, sempre a pensare al lavoro, oggi qui, domani là… quando lavori così poi i risultati cominciano ad arrivare, si guadagna bene nel mio settore se sei bravo.”

“E adesso che fai?”

“Ho ancora qualche aggancio in giro, clienti di lunga data, ma sto rallentando, sai? Vorrei dedicarmi di più a me stesso, ritagliarmi i miei spazi, ma… a proposito… che cosa mi racconti di Dina, sta bene?”

“Mi stai davvero chiedendo di Dina?”

“Sì… lei è ancora qui in paese? Vi vedete ogni tanto?”

“Sempre…”

“Meno male, la vorrei vedere!”

“Calmati Joe, sono trent’anni che non ti fai vedere, abbi pazienza…”

“Io questa cosa te la devo dire, e la posso dire soltanto a te, ci conosciamo da un’intera vita e sai bene come e perché. La conobbi all’inizio del tempo, poi un giorno la vidi per la prima volta, aveva avuto il permesso di rimanere fuori la sera e si era cambiata appena uscita dalla porta. Stava ridendo insieme agli altri, appoggiata al parapetto bianco e nero di un piccolo fosso che attraversava il paese, fin da quel momento e in tutti gli altri attimi della sua vita Dina sarebbe stata più grande di quello che in realtà era. E non parlo solo di un bacio di rossetto o di stivali alti, ma di quell’allegra sofferenza che le galleggiava negli occhi. Come arrivai al ponte vidi i sorrisi delle ragazze brillare, emettere scintille flebili come lucciole d’estate. Dina osservava nella stessa direzione delle altre sue amiche, quindi guardava me, dissi così la prima frottola che mi passava per la testa per distrarla dal tremore delle mie gambe. Quella però era la giovane donna più straordinaria che avessi mai incontrato, ascoltava le mie chiacchiere senza perdersi uno solo dei brividi che affioravano sulla mia pelle.”

“Va bene Joe…” l’ho interrotto “Ma non penso che Dina abbia così tanta voglia di rivederti…”

“Perché dici così? Sono ritornato perché non è mai passato giorno senza che pensassi a lei!”

“Sei partito una mattina dicendole che saresti stato via soltanto per un fine settimana, e da quel momento non ti sei più fatto né vedere né sentire. Le hai distrutto la vita e dopo qualche mese, è nato suo figlio. Che cosa hai pensato quel giorno, Joe? Che cosa ti è successo, chi hai seguito?”

Joe si è ammutolito e la sua faccia è diventata scura, di una tristezza limpida e chiara, che non può somigliare ad altro che a sé stessa.

“È difficile dirlo, forse mi sono reso conto che avevo bisogno di cambiare aria.”

“Le avevi promesso che sareste stati insieme…”

“Lo so, ho sbagliato, chissà se potrà mai perdonarmi. Hey! Mi faccio portare un’altra birra, la settimana scorsa sono andato dal medico, e non mi ha dato una buona notizia.”

“Non dirmi più niente Joe, dillo a lei… Dina sta arrivando.”

È comparsa sotto al portico con i capelli raccolti, la pelle abbronzata ed un vestito leggero, ha salutato con un sorriso i vari tavoli che piano piano si stavano riempiendo per l’aperitivo. Non è soltanto bellissima, ha anche un cuore enorme, due occhi che malgrado il tempo non mi hanno mai perso di vista. Pensando rapidamente a come cavarmela in quella situazione paradossale, cercando le parole migliori per accogliere tutti in uno sconclusionato viaggio nel tempo, ho sentito alzarsi un soffio di brezza, un sollievo quantomai agognato in una giornata così calda. Mi sono voltato, ma Joe se n’era già andato via.

La vita come il fuoco

Alberto sedeva elegantemente sulla poltrona di seta, souvenir di qualche viaggio di sua madre, la Contessa. La donna aveva almeno una mezza dozzina di cognomi, ma per tutti, era semplicemente la Contessa Madre. Anche per Alberto.
Di fronte a lui, Morando, l’amico di sempre: nobile, ricco, vizioso, dedito all’ozio e all’arte della conversazione salace. Se ne stava annoiato, steso sul canapè di pregiata fattura, sul quale pare che Lincoln sognò le premesse del XIII emendamento: l’abolizione della schiavitù.
Alberto si alzò per rintuzzare il fuoco. Nel grande camino si levarono faville come lucciole rosse deliranti. Dalla legnaia in argento prese un ciocco e lo gettò sulle braci producendo altri barbagli e un suono sordo e stridente di tizzoni smossi. Come affamato, il camino prese ad ardere con schiocchi riconoscenti.
Morando rivolse lo sguardo velato dall’oppio all’amico: «Mio caro Alberto, non pensi che la vita sia come il fuoco. Occorre sempre alimentare le giornate con fiamme. Grandi fiammate, altrimenti ti spegni. E presto diventi cenere».
Alberto prese qualche secondo prima di rispondere. Tornò a sedersi sulla poltrona sollevando leggermente i pantaloni di vigogna per accavallare le gambe.
«Piuttosto mi chiedo se sia meglio una vita, un fuoco, che bruci costantemente. Se pensi che siano le fiamme a dare calore, allora rischi di fare solo falò di saggine che crolleranno senza nemmeno scaldare. Non è forse meglio un buon ceppo, pesante e secco, che lentamente si consumi in un quieto calore?».
Morando si ravviò il ciuffo riccio che gli cadeva su un occhio. «È per questo che hai deciso di prendere moglie la prossima primavera?», gli chiese con un tono sarcastico.
Alberto incrociò le mani afferrandosi le ginocchia. Era per quello?, si chiese. Il suo matrimonio era combinato dalle famiglie. Non aveva ancora conosciuto la futura sposa. Lo avrebbe fatto quella sera stessa. Nel grande salone fervevano i preparativi per la cena di gala e danze a seguire.
«Lo spero tanto», rispose Alberto più a se stesso che non all’amico.
Improvvisamente, udirono un rumore d’auto. Lo stridore dei freni e lo sbattere di portiere incuriosì i due amici.
Le voci dei domestici si sovrapposero a quella della Contessa Madre, la quale, dopo qualche istante, aprì le porte della stanza del camino, tossicchiando per l’intrusione.
I ragazzi si girarono e videro la donna con le guance paonazze e gli occhi in fiamme. Dietro di lei s’intravvedeva una figura esile. Se non fosse stato per i lunghi capelli neri, si sarebbe detto che fosse un ragazzino. Era invece una donna, vestita da cavallerizza, con giacca, pantaloni e cappello in tweed.
«Alberto, mio caro, ho il piacere di presentarti la marchesina del Brenno degli Infant…».
La ragazza si fece avanti. Ringraziò la donna con un inchino che aveva qualcosa di voluttuoso e sarcastico al tempo stesso.
Alberto e Morando rimasero a fissare come statue colei che sarebbe stata la futura sposa.
Non era solo la bellezza che rendeva quella donna speciale. Erano piuttosto i suoi occhi, vivi, sfrontati, divertiti. E le fossette. Due fossette sulle guance che delimitavano un sorriso aperto, franco.
«Cecilia», si presentò avanzando nella stanza con movenze sinuose. Lo faceva apposta, si capiva. La Contessa Madre era così scandalizzata dall’esser prossima a una crisi isterica.
Alberto si alzò all’istante per protendere la mano. Quando strinse quella piccola di Cecilia, percepì una lieve scossa. Morando si era messo seduto senza staccare gli occhi dalla ragazza.
«Contessa Madre, può lasciarci soli qualche minuto?», chiese Alberto sperando che uscisse di scena per darsi una calmata.
«D’accord mon cher, a bientôt petit marquise. Le diner sera servi d’ici dans un peu plus d’une heure». Faceva sempre così la contessa madre. Se qualcosa la turbava, usava il francese.
E certo, una futura nuora che si presentava sola, in largo anticipo e senza abito da sera era quantomeno disdicevole. La Contessa Madre girò impettita lasciando che il domestico richiudesse le porte.
«Cecilia, permettetemi di presentarvi Morando, mio caro amico e fine intellettuale». Cecilia si sfilò i guanti. Alberto nemmeno si era reso conto di aver stretto una mano guantata.
Morando fece per alzarsi dal canapè ma Cecilia lo bloccò con un gesto assai elegante.
«Oh, rimani pure seduto. Mi tratterrò pochi istanti», disse Cecilia dirigendosi verso il camino e continuando a parlare rivolgendo loro la schiena: «Alberto, sono arrivata in anticipo per farti una domanda, una sola. Poi ripartirò e forse, in base alla risposta, tornerò per la soiree».
I due erano divertiti e paralizzati al tempo stesso.
Un’amazzone bellissima era piombata nelle loro vite rompendo qualsiasi schema del bon ton aristocratico.
«Non mi resta che tentare la sorte, Cecilia», rispose Alberto guardandola con un ardore che superava le fiamme del camino».
Cecilia si appoggiò alla trave e senza staccare gli occhi dal fuoco chiese: «Supponiamo che la vita sia come questo fuoco, tu come vorresti ardesse?».
Alberto rimase perplesso. Si chiese se la sua affermazione di prima fosse quella appropriata. Pensò di no, che non lo fosse.
E nemmeno quella di Morando lo era.
Rispose dopo qualche secondo: «Divampante e ardente di mattino, fiammeggiante e vivace nel pomeriggio, quieto e struggente la sera».
Cecilia sorrise. Alberto avrebbe voluto prendere quel viso tra le mani e baciare le due fossette.
«Tornerai?», le chiese come inebetito.
Cecilia si rimise i guanti senza smettere di sorridere. Si voltò e uscì dalla stanza salutando con un silenzioso cenno del capo. Il cuore di Alberto la seguì.
Quando la cena era ormai servita, Alberto avvilito, la Contessa madre inviperita e Morando contento, i domestici richiamarono l’attenzione per le presentazioni dei nuovi arrivati: «Il Marchese e la Marchesa del Brenno degli Infanti e loro figlia, la Marchesina».
Cecilia pareva splendere.
Alberto si alzò di scatto facendo cadere la sedia. Sentì che il suo cuore era tornato.

La Mondina

Mia madre mi sveglia, dobbiamo prepararci per andare al lavoro.

La luna si nasconde dietro la coltre di nubi e oltre la finestra il vento umido soffia forte sull’afa dell’estate. Fa caldo, molto caldo, tanto che tutte fatichiamo a prendere sonno, c’è chi cerca di darsi sollievo con un ventaglio e chi, ormai arresa all’amara sorte, rinuncia definitivamente a dormire e passa le ore con lo sguardo rivolto verso il soffitto.

I rumori dei campi riecheggiano fuori dal capannone e scandiscono il tempo ogni notte come un vecchio che conta i minuti sull’orologio logoro: lavoro, sonno, lavoro e ancora sonno.

Da un mese ho iniziato a lavorare come mondina. Ho sedici anni e sia io che mia sorella passiamo i mesi estivi nella risaia per circa dodici ore al giorno.

Mi infilo le calze di cotone fino ai fianchi e indosso la gonna lunga, lego un fazzoletto per coprire la testa, il viso, tutto. Spesso di giorno, piegata sotto il sole, mi capita di sentire gli insetti infilarsi sotto il tessuto, fino quasi a penetrarmi la pelle. Il caldo e il sudore a volte sono insopportabili e le gocce d’acqua colano tra le gambe, nei gomiti e sulla fronte.

Indosso il cappello, è ora di andare.

Lavoro dalle 4 del primo mattino fino al tardo pomeriggio, arrivando alla risaia dopo un percorso a piedi; utilizzare un mezzo di trasporto sarebbe impensabile e ci verrebbe trattenuto dalla paga.

Oggi il mattino è particolarmente umido, questa è la parte del giorno che più mi piace perché il sole è ancora nascosto e l’alba tarda ad arrivare. Sento i grilli e le cicale cantare, il vento che mi passa tra i capelli li rende appiccicosi ma in questo momento non c’è ancora il sole a bruciarmi la testa. Inizio a lavorare con i piedi immersi nel fango e guardo la mia vicina, mi sorride e si gira verso l’amica per spettegolare del paese. Una donna della mia squadra racconta storie e aneddoti sul marito facendoci ridere a crepapelle, ogni tanto cantiamo qualche canzone per scandire la giornata.

Nel nostro lavoro stiamo chine tutto il tempo ad afferrare le erbacce, io le strappo con tutta la forza come ad estrarre qualcosa di marcio, qualcosa di sporco.

Da diversi giorni non vedo più Agnese che mi fa sempre compagnia durante il turno, “non può più venire” dicono, pare si sia presa la malaria a causa delle condizioni di lavoro.

Cantiamo più forte e ogni tanto ci facciamo delle grosse risate, una di noi, la più vecchia, ci tratta come se fossimo sue figlie, è premurosa e ci porta sempre qualcosa di dolce da mangiare dopo il lavoro.

Il sole è ormai alto sopra le nostre teste e alcune donne iniziano a parlare sottovoce di scontri e scioperi in centro paese. A quanto pare le proteste, aiutate da contadini e commercianti, hanno raggiunto un livello drammatico e gli agrari sono preoccupati. Diverse mondine dell’altra squadra sono state arrestate e alcune sono rimaste ferite durante le sommosse.

Anche il nostro principale è più teso ultimamente, controlla tutte durante la giornata lavorativa e ci intima di stare zitte. 

Maggio è quasi finito, ci avviciniamo a giugno e ultimamente i canti nella risaia sono cambiati: le donne alzano la voce e urlano per la loro libertà come a sperare che il vento umido intrappoli le loro parole e le porti dritte a chi possa ascoltarle, anche a Dio se esiste.

Cantano di cambiamenti, della possibilità di lavorare meno e in modo più dignitoso. Ho sentito che la richiesta è di diminuire le ore di lavoro da dodici a otto, a me sembra qualcosa di assurdo, chissà cosa ci farei con qualche ora in più a disposizione, probabilmente dormirei. Ogni tanto ci penso e mi chiedo se davvero possiamo sperare in qualcosa di meglio, se esiste un altro modo per vivere questa vita. Se ci fosse anche solo una possibilità, allora urlerei anche io fino a svegliare Dio.

Oggi, con le altre ragazze, abbiamo deciso di non andare al lavoro, vogliamo scioperare e scendiamo di corsa in paese. Le vie che conosco bene mi sembrano un teatro di battaglia e mi sento come un soldato che decide di andare in guerra, ma questa guerra è tutta per me, combatto per avere ciò che mi spetta di diritto. Siamo tantissimi: mondine, commercianti, agricoltori. L’agitazione e la rabbia si fanno sentire, risuonano sul pavimento e si espandono tra i vicoli in cui siamo cresciute. Camminiamo a passo spedito, speranzose, sento i canti delle risaie riecheggiare con forza attorno a me “Se otto ore vi sembra poche, provate voi a lavorare e sentirete la differenza di lavorar e di comandar”, dopo mesi di proteste ora siamo sotto il Municipio, in attesa di una risposta.

D’un tratto il tempo si ferma, il silenzio cala sulla folla.

Due uomini si fanno avanti e iniziano a dire che a Vercelli è stato sancito l’accordo per la diminuzione dell’orario di lavoro a otto ore, solo le squadre che vorranno potranno estendere l’orario fino a nove ore al giorno. Due donne vicino a me dicono che gli uomini sono uno un operaio di nome Somaglino e l’altro l’Avv. Cugnolio che rappresenta l’associazione contadina.

Il vento umido ora accarezza le lacrime di gioia che scendono sulle guance arrossate, a Vercelli le cose stanno cambiando e mentre le persone accanto a me urlano di felicità c’è già chi dice che anche nelle altre province le cose cambieranno. 

È il primo giugno 1906 e da domani non lavorerò più 12 ore al giorno.

È il primo giugno 1906 e per la prima volta sento che c’è speranza e mi tengo stretta questa voglia di lottare.

Nero è il fiume

Maria stava lavando i panni nel torrente che scendeva impetuoso dalle colline per poi allargarsi giù a valle dove avevano sistemato i sassi per strofinare la biancheria e batterla.

A Maria piaceva fare la lavandaia. Quasi tutte le sue amiche preferivano andare nei campi a fare le mondine.

A Maria, piacevano gli odori e i rumori che sentiva mentre lavorava. Si divertiva ad attribuirgli colori, come se lei stessa appartenesse a un quadro.

Sapone di Marsiglia? Bianco

Erba schiacciata? Verde

Narcisi in fiore? Giallo

Vento che asciuga i panni? Azzurro

Pietra bagnata? Grigio.

Maria era giovane, forte e bella. Promessa sposa, anche se lei mica ci pensava al matrimonio.

Quel giorno d’inverno, Maria aveva le mani rosse e screpolate dal freddo. Faceva fatica a sbattere i panni, ma lo stesso, si distraeva con i colori. Il cielo aveva tonalità antracite e prometteva neve, quella grossa.

Avrebbe steso i panni in casa, in solaio. Suo padre aveva sistemato una stufa ricavata da vecchi mattoni delle case distrutte dalla guerra. Guerra? Marrone scuro, si diceva Maria, come le camicie dei tedeschi che si vedono sempre più di frequente in paese.

Lei non ci capiva nulla della guerra. Fascisti, nazisti, alleati, le sembravano figure distanti, come i rombi degli aerei che spesso passavano nelle notti.

Improvvisamente il vento condusse a Maria un rumore di passi, cauti, attenti a non spaventare.

«Come ti chiami?», le chiese una voce maschile. Maria pensò al colore del suono. Rosso. Come quello che si affacciava sul suo volto.

Si girò di scatto senza lasciare il panno che stava lavando.

Di fronte a lei, in piedi, un ragazzo magro ma bellissimo. Non vestiva divise e portava un fucile appeso alla spalla.

«Ciao Maria», il ragazzo si sedette a fianco, il fucile in grembo, «hai da mangiare?».

Forse il tono di voce, forse quel sorriso così aperto, forse quegli occhi grigi come il cielo, Maria si sentì subito a proprio agio.

«Non ora, domani se vuoi. Tu come ti chiami?».

«Pietro, nome di battaglia. Sono un partigiano».

Maria tacque e si concentrò sul bucato.

Pietro rimase a guardarla mentre lavorava. Ogni tanto le parlava. Raccontava storie di guerra e Maria pensava che Pietro se le inventasse per fare colpo su di lei. Questo le piaceva. Come alcune parole, tipo ideali. Ideali? Maria se li immaginava di tutti i colori, come l’arcobaleno.

Sapeva che dai monti, ogni tanto, scendeva qualche partigiano. «Non immischiatevi», aveva tuonato suo padre, rivolgendosi soprattutto al figlio maggiore, benché più piccolo di Maria, «la nostra guerra dobbiamo combatterla per avere da mangiare e da dormire. I padroni non gradiscono la politica, soprattutto quella dei partigiani. Se ci cacciano dalla cascina, hai voglia a riempirti la pancia con gli ideali. Testa piena e pancia vuota!».

Il giorno dopo Maria tornò al fiume. Pietro arrivò dopo un po’ di tempo.

Maria allungò al ragazzo il pezzo di pane che si era portata. Pietro ne prese una parte e il resto lo infilò nel tascapane: «Per i compagni», le disse.

Da quella volta, Pietro arrivava sempre al fiume dopo di lei e parlava, parlava, parlava.

La primavera sembrava affacciarsi anzitempo. Le piogge rendevano tutto più difficile. Maria cercava ogni scusa per andare giù al torrente. E ancora, Pietro arrivava sempre.

Un giorno le prese la mano. Maria ne ebbe vergogna. La pelle era screpolata e ruvida. Le mani di Pietro erano calde e morbide. Si capiva che era di buona famiglia, forse ricco, addirittura.

Un giorno si baciarono. I baci divennero sempre più carichi di desiderio.

Quando fecero l’amore, la primavera aveva stanato le prime margherite. Alcuni iris si allungavano lungo le sponde del fiume.

Maria tornò a casa ebbra, ubriaca di tanto amore, tanta passione. Pietro era stato molto dolce, dolce e impetuoso al tempo stesso, proprio come il torrente dove lavava i panni.

Nella notte si sentirono gli aerei volare. Di solito passavano per bombardare in città. Quella notte no. Le bombe cadevano fischiando non lontano dalla cascina. Tutti scesero nelle cantine per ripararsi. In lontananza, arrivavano anche echi di spari.

Il giorno dopo, il sole splendeva come sempre, ignaro della guerra.

Maria corse al fiume preoccupata per Pietro.

Lo vide in lontananza. Era arrivato prima.

Stava seduto contro un albero, il capo chino su un lato.

Dorme, pensò Maria, poi urlò: «Stupido! Dormi con i piedi dentro l’acqua?».

Pietro non rispose. Non poteva e non l’avrebbe mai più fatto.

Era stato ferito nell’imboscata. I fascisti o forse i nazisti, che stavano indietreggiando.

Maria si avvicinò e vide il sangue. Tanto sangue. Era sceso lungo l’erba colando verso il fiume. Si era rappreso, formando un rivolo scuro.

Prima che le gambe la facessero crollare in ginocchio lasciandola senza più colori nella testa, Maria pensò Fiume nero.

 

Maifreda da Pirovano. La Papessa.

Abbazia di Mirasole,  febbraio 1300.

 

Frate Candido correva alzando ora le mani, ora l’orlo del saio per non inciampare.

Nei corridoi rimbombavano lo scalpiccio dei suoi sandali e l’ansimare del suo fiato che gli spegneva la voce in gola.

Quando si fermò davanti alla porta dell’Abate, deglutì per recuperare la lucidità. Per un attimo, alzò lo sguardo al cielo recitando le prime quattro strofe del Pater Noster. Lo faceva sempre quando chiedeva l’aiuto di Dio.

Bussò alla porta e rimase in attesa. Una voce chiara e ferma lo invitò a entrare.

«Magister», esordì Fra Candido saltando ogni preambolo canonico, «l’acqua!».

Il giovane Abate rimase fermo, in piedi davanti alla sua scrivania. Attendeva che il monaco si riprendesse. Era evidentemente in preda all’ansia.

Passò qualche secondo, poi Fra Candido disse ancora: «L’acqua dei pozzi!», interrompendosi subito dopo.

Il giovane Abate lo esortò: «Ebbene?».

«Avvelenata! Qualcuno ha gettato pezzi di carogna in ognuno di essi!».

Sul viso dell’Abate si disegnò un’espressione profonda, lo sguardo di chi cerca prima le domande, poi le risposte. Era entrato nell’ordine degli Umiliati diversi anni prima. Subito, aveva percepito l’energia infusa dagli ideali ispirati a una profonda religiosità. Ora era incaricato di condurre l’Abbazia e di gestirne l’economia basata principalmente sulla produzione di feltro. L’acqua era dunque fondamentale.

Ma non era questo che aveva turbato tanto Fra Candido, e non era a questo che stava pensando il giovane Abate mentre rifletteva a capo chino con la punta delle dita unite sotto il naso.

«Chi mai può aver fatto questo?», chiese quasi a se stesso.

«Non lo so», rispose Fra Candido aprendo le braccia per poi lasciarle cadere.

L’Abate sospettava che l’obiettivo di tale gesto fosse impedire la visita prevista l’indomani: Maifreda da Pirovano, detta la Papessa. Donna nobile, di rara intelligenza, suora dell’ordine degli Umiliati. Professava i principi di Guglielma di Milano, altrettanto nobildonna in attesa di beatificazione per i miracoli compiuti. Prima di morire, Guglielma stessa elesse Maifreda sua Vicaria. Ecco perchè Papessa.

L’Abate decise di concentrarsi sul problema più imminente: l’acqua dei pozzi inutilizzabile. Per nulla al mondo avrebbe rinunciato a sentire i discorsi della Papessa.

In seguito, si sarebbe occupato di trovare l’autore del misfatto.

L’Abate guardò per un istante fuori dalla finestra. Le campagne intorno all’Abbazia erano striate di bianco e di nero. Il cielo aveva quella luce tenue e rosata dell’alba invernale. Si sedette alla scrivania. A Fra Candido parve si fosse allontanato di mille chilometri.

«Fratello Candido, dai ordine di recuperare quante più pertiche di feltro possibili. Legatele assieme e gettatele nei pozzi dopo averle affrancate ai bordi».

Fra Candido rimase immobile. Gettare il loro prezioso feltro nei pozzi? E perché?

Trasalì quando il Priore batté un pugno sul piano della scrivania: «Presto, Fratello, fai come ti dico». Il tono era benevolo e Fra Candido uscì di corsa seguito dalla benedizione del priore che gli scaldò il cuore.

Il feltro prosciugò i pozzi, ne pulì i fondi, i fianchi e bonificò la sorgente. L’acqua tornò potabile.

L’indomani la Papessa arrivò all’Abbazia di Mirasole con il suo nutrito seguito. Celebrò messa, predicò la beatificazione di Guglielma da Milano. Usò parole che non lasciavano fraintendimenti: Cristo è stato figlio di Dio, sua incarnazione maschile. Guglielma e stata figlia di Dio, sua incarnazione femminileElla risorgerà.

I frati, le monache dell’ordine degli Umiliati la ascoltavano attenti e rapiti. Tutti tranne uno. Colui che riportò le parole di Maifreda al tribunale inquisitorio. Divenne sorvegliata speciale.

Il 10 aprile 1300, Pasqua, Maifreda, in abiti sacerdotali, celebrò Messa solenne secondo le liturgie.

Morì nello stesso anno, a settembre, dopo un processo che la vide colpevole di eresia e per questo condannata al rogo.

Il giovane Priore conservò per sempre nella memoria il significato delle parole che Maifreda da Pirovano gli aveva sussurrato: Dio è uomo, Dio è donna, Dio è tutto.

Nota dell’autrice: i fatti sopra descritti relativi all’Abbazia di Mirasole sono frutto di pura fantasia. Il resto è liberamente ispirato dalla storia.

 

La carezza dell’acqua

Seduta sulla barca.

Guardo il più incredibile mare che io abbia mai avuto sotto gli occhi.

Tutti si buttano… Chi si tuffa, chi si cala dalla scaletta.

Nessuno fa caso a me, tutti presi a nuotare e starnazzare.

Neanche l’acqua fa caso a me, né alle mie dita aggrappate al bordo della barca.

Mi canto le solite filastrocche.

Non importa.

Non e’ necessario.

Non è fondamentale.

Anzi, il bagnato, il sale sono sempre vagamente fastidiosi.

Ma non so che giorno è oggi, però le mie bugie hanno il suono stridulo di una campana rotta.

E il mio corpo senza permesso, si alza, mette le mani sul bordo della scaletta e inizia a scendere… L’acqua che gli accarezza il ventre e le cosce.

Ora gli urlo qualcosa.

Cosa fai, come osi.

L’acqua è pericolosa.

Non respirerai.

Soffocherai.

Annegherai.

Morirai.

Sarai inghiottito e annientato.

Ma davvero non so che giorno è oggi, questo corpo non mi ascolta.

E mi sporgo per recuperarlo, per tirarlo in salvo, sciagurato senza senno.

Ma scivolo piano anch’io, l’acqua che avvolge, e confonde, e lava la paura.

L’acqua che per la prima volta fa caso a me…

Mi sorride, mi abbraccia, mi accoglie, mi sostiene.

Apro le braccia, mi lascio andare e riprendo a respirare.

E me ne sto li’ stupefatta come fosse il primo giorno di una vita nuova.

L’acqua ci tiene.

Me e la mia paura.

E mi sfascio la bocca in un sorriso, il viso bagnato, il sale dell’acqua e delle mie lacrime.

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