C’è un tempo per ogni cosa. Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttar via. Sento lo scorrere del tempo con il suo dolce malinconico ticchettio, c’è un tempo per fuggire ma non ho ancora trovato il tempo per resistere alla furia del vento.
Eppure qui a Riccione, la mia casa, le mie radici, il tempo pare essersi fermato.
C’è un tempo per tutto, è vero, anche se a volte sembra che il vento porti via ogni cosa, trascinando con sé i sogni che non abbiamo avuto il coraggio di stringere.
Qui a Riccione, però, sotto il cielo che cambia colore con la calma del mare, il tempo ha un ritmo diverso. Non è il ticchettio incessante di una città frenetica, ma piuttosto il respiro lento e profondo della costa, che conosce i segreti della pazienza.
Le onde si susseguono, una dopo l’altra, come gli anni che passano senza fretta, e l’odore di salsedine riempie l’aria, avvolgendo i pensieri come una coperta leggera. Qui, il vento non è furia, ma carezza. Ha imparato a danzare con i pini e con i tetti delle vecchie case, sussurrando storie di chi è passato, di chi ha amato e di chi ha perduto.
Eppure, anche in questa quiete sospesa, c’è sempre quel momento in cui la vita ci chiama a fare una scelta. A resistere o a fuggire. A lasciarci andare come la sabbia tra le dita o a stringere forte, come un anello prezioso che non vogliamo perdere.
Forse non è ancora giunto il tempo per resistere, ma il vento, proprio quel vento che ora mi sembra così forte, porta con sé una promessa: che un giorno saprò come restare, come mettere radici profonde, come trovare forza nel lasciare che il tempo faccia il suo corso.
Perché anche quando tutto sembra in movimento, inarrestabile, c’è un luogo in ognuno di noi dove il tempo si ferma, dove possiamo essere in pace. E questo luogo, per me, ha il suono del mare di Riccione, il fruscio del vento e il sorriso delle persone che incontro per strada. Qui, in questo angolo di mondo, ho imparato che c’è un tempo per ogni cosa, anche per fermarsi e ascoltare.
E forse, chissà, un giorno troverò anche il tempo per resistere.
Mi manca l’aria
Ho prenotato l’esame da quindici giorni e il poco tempo che mi rimane prima di avventurarmici mi rende preoccupata e nervosa. Non so se sarò pronta ad affrontarlo.
Devo sottopormi a una risonanza magnetica e per me, così claustrofobica tanto da non prendere gli ascensori dove é possibile salire per le scale, è fonte di notevole disagio, mi manca l’aria.
Vado in farmacia.
«Dottore, devo sottopormi a una risonanza magnetica, ma questa volta non so se riuscirò a stare tranquilla e ferma per tutto il tempo necessario. Mi potrebbe dare qualcosa per calmarmi?»
Il farmacista mi guarda e poi dal suo retrobottega arriva con un flaconcino di un liquido a base di valeriana, biancospino e passiflora.
«Lo facciamo noi» mi dice «ne prenda 20 gocce un’ora prima della risonanza».
A casa leggo le indicazioni che ne consigliano trenta e decido che ne prenderò venticinque. Non si sa mai: questa volta ho proprio bisogno di un aiuto in più.
La mattina dell’esame arrivo al centro medico in anticipo, cammino nervosamente avanti e indietro nel grande atrio prima di pagare il ticket poi finalmente raggiungo la sala d’aspetto del reparto di radiologia. Zeppa. Più di otto persone stanno aspettando e la mia ansia aumenta, non ho idea se le gocce che ho preso faranno ancora effetto fra tanto tempo.
Dopo un’ora e mezza arriva il mio turno. Entro nello spogliatoio e già mi manca l’aria. Non so se questa volta ce la farò.
Mi spoglio, indosso il camice e mi presento al tecnico che mi ha appena chiamato.
«Si sdrai con la testa verso il tunnel, tenga le braccia lungo il corpo e stia ferma, questo è il campanello se dovesse avere bisogno», puntualizza.
Mi sdraio, sento il rullo che piano piano entra nel tunnel, chiudo gli occhi. Mi manca l’aria.
Mi dico che devo stare tranquilla altrimenti è tempo perso e tutto è da rifare.
Allora, come ogni volta, inizio a recitare il rosario nella mia mente, anche con le intenzioni per ogni decina e premo leggermente le dita sul lettino per contare le ave marie.
Dieci per i miei figli.
Dieci per i miei nipotini.
Dieci per mio marito perché ne ha bisogno da solo.
Mi manca l’aria. Prendo dei piccoli respiri con il naso, non profondi per non muovermi troppo.
Dieci per la mia famiglia di origine.
Dieci alla fine per me.
«Signora, abbiamo finito», dice il tecnico radiologo.
Il rullo piano piano mi riporta fuori da tunnel. Faccio un respiro profondissimo che muove tutto il mio corpo: anche stavolta ce l’ho fatta.
L’aria… invisibile e apparentemente inesistente eppure così necessaria, adesso non mi manca più.
Sveglia naturale
Ecco, sono tornati. Un po’ presto rispetto agli ultimi anni.
La mia sveglia naturale, la mia poesia mattutina.
Gli uccellini sugli alberi!
Nel passato mi svegliavo con il loro canto, e rimanevo nel letto per ascoltarli.
Mi alzavo e mi preparavo il caffe, la Moka. Poi assaporavo quel liquido scuro e bollente, fuori nel balcone. L’aria frizzante sul mio viso.
Sentivo l’energia diffondersi nel mio corpo e mi caricavo per tutta la giornata. Un leone pronto ad affrontare qualsiasi cosa.
Ora, mi svegliano troppo presto, dopo una nottata piena di sogni dove devo difendermi sparando e non riesco a caricare le munizioni. Forse gioco troppo agli spara zombie. Il mio sonno è spesso interrotto.
E poi mi mettono ansia. Si ansia. Purtroppo il loro cinquettio mi ricorda quei giorni in cui eravamo obbligati a restare chiusi in casa.
Sapevo che quel suono pre annunciava un’altra giornata uguale a quella di prima. Colazione e apertura del PC per lavorare in smart working. Pranzo in compagnia di mio figlio e poi ancora lavoro. Cena con mio figlio e letto. Giornate tutte uguali. Senza sapere quando saremmo usciti da questa crisi.
In effetti però ne siamo usciti.
E allora magari questa mattina mi farò un caffè e lo berrò fuori nel balcone.
Elogio
Ci conoscevamo da più di vent’ anni.
Sorrido al tuo pensiero. Di sicuro io conosco lati della tua vita che neanche la tua famiglia conosce.
Appena assunta ti chiamavo “Dottore”, lo pretendevi da tutti i tuoi dipendenti.
Ma da lì a poco, complice la mia sfrontatezza, ho ottenuto il permesso di usare il tuo nome in privato, e poi, più avanti, davanti a tutti.
Ti conoscevo bene. Sapevo cosa ti faceva arrabbiare e cosa ti compiaceva.
Un punto fermo della tua vita, la tua famiglia. Tua moglie e i tuoi figli.
Ci sono stati periodi che l’hai messa a rischio per un capriccio. Per lo stesso capriccio hai messo fine ad un’amicizia che aveva creato il tuo gioiello: la tua azienda.
Lei, la tua creatura. L’hai fatta nascere, modellata, nutrita. E quando è diventata grande e sicura ne hai fatto la tua sala giochi.
Tutto girava intorno ad un unico obiettivo. Chiudere l’ultima grande trattativa del momento. Non importava se si trattasse di acquisto e vendita di merci o di servizi. L’importante per te era sedersi al tavolo da gioco con gli altri giocatori. È come il poker, giocare con le tue carte, a volte bleffando. Alzarsi da quel tavolo sapendo di aver chiuso un affare.
Certo i soldi non li disdegnavi, anzi. Chi ti conosceva superficialmente ha sempre pensato che tu ammirassi il dio denaro, ma la verità era che ti sentivi vivo solo quando potevi giocare. I soldi erano solo una conseguenza di quanto eri bravo.
Nonostante gli ultimi tempi non lavorassi più in azienda, continuavi nel tuo privato a divertirti. Era più forte di te.
Era una giornata di sole, io stavo parlando di te con un cliente a pranzo, mentre i medici cercavano di salvarti la vita. Da li a poche ore, ricevevo la notizia che tu non c’eri più.
Ora sei nella tua ultima dimora. La terra ti accoglie. Tutto ciò che di terreno hai lasciato non lo puoi portare con te. Molti vedranno solo questo. Io con me porto l’esperienza che ti ho rubato per tutti questi anni.
Sorrido guardando il tuo ufficio vuoto. So che non tornerai, ma spero, che in qualche modo, mi guardi mentre chiudo la mia ultima trattativa e sorridi anche tu pensando che questo è anche un po’ merito tuo.
Brezza
Sfilo lo giacca, la butto sulla sedia, appoggio la borsa e resto qualche minuto nell’angolo scuro del soggiorno: ti guardo rimestare una pietanza che sobbolle nella pentola.
Cosa ci faccio qui come una ladra, non voglio altro che scappar via!
Spegni il fornello, metti il coperchio, vieni a salutarmi “Ciao Mara, non ti aspettavo tanto presto, niente straordinari questa sera?”. Adesso glielo dico il suo nome che non mi da pace gli dico che non mi sono mai sentita così viva prima di lui che con lui ho incontrato la donna meravigliosa che sono che è uno strazio separarci quando stiamo insieme.
Adesso glielo dico che sono qui pesche’ lui mi ha dato buca.- Un imprevisto- . SMS sul cellulare. -Non cercarmi chiamerò-.
Intanto stappi un prosecco, versi il vino, mi offri il calice prendi il tuo, ti seguo in terrazza. “ Sei bella, sai, come non ti vedevo da tempo”. Distolgo lo guardo, cerco le luci che calmano il buio al cielo.
Voci di ragazzi allegri accompagnano una leggera brezza avvolgente: porta con se il tepore della primavera e carezza l’inverno per allontanarlo.
La stessa brezza che ho visto oggi sconvolgere le giovani foglie di un Prunus, stuzzicarmi con il suo profumo intenso e sospingermi da te.
Un brivido mi corre lungo la schiena un senso di eccitazione, terrore, forse tenerezza. Sei bello così affaccendato in cucina con la t- shirt attillata e i capelli lunghi, li noto solo ora, ti vengo vicino ti tolgo la frutta dalle mani ti abbraccio.
Adesso te lo dico che ho bisogno di te che non devi lasciarmi sola che ti voglio bene che… non c’è niente di male se mi sono innamorata…passerà. Ti bacio, sai di ananas e per un istante, del nostro sapore ritrovato, ti bacio ti stingo ti bacio. Mi restituisci uno sguardo stupito mentre mi slacci la camicetta e io ti bacio ancora e ti voglio Luca. Prima che questa brezza svanisca per sempre.
Vaghar
Sono appena uscita dall’acqua, dopo aver nuotato da una riva all’altra del lago. Inzuppata fradicia e ansimante guardo la mia città dall’altra parte che brucia. Il fuoco prende il sopravvento su ogni cosa. Vedo gente che corre all’impazzata o che si butta in acqua. Sento le loro urla di paura, di dolore.
Nessuno cerca di spegnere il fuoco, sanno perfettamente che sarebbe tutto inutile.
Lui è ancora lì. Lui sta per tornare. Lui non si fermerà fino a quando l’ultimo edificio di Faluce sarà ancora in piedi.
Sento i polmoni che fanno fatica a riempirsi. E come se il vento avesse deciso di trasportare il fumo acre tutto nella mia direzione. Questa cortina scura e densa nasconde la luce del giorno.
Fisso il cielo sopra la mia città.
Una parte di fumo sembra muoversi.
Eccolo. Da quella massa gassosa compare il suo muso spaventoso.
La sua pelle dura e piena di spuntoni fa da contorno alla sua bocca semi spalancata. Mette in mostra i suoi denti aguzzi e affilati. Sembra mostrare un ghigno diabolico. Poco più sopra i suoi occhi rossi e malvagi contornati da dure corna.
Mentre avanza scorgo il suo collo lungo e sottile. Le ali spiegate e immense
Sembra puntare dritto verso di me. Il terrore mi assale, ma sono come ipnotizzata mentre guardo questo essere possente e maestoso.
Ad un tratto sembra cambiare idea e vira, tornando indietro.
La sua coda sinuosa sposta l’aria davanti a me talmente forte che a momenti cado.
Punta ancora verso Faluce. Appena sopra alla città apre le sue fauci e incomincia a sputare ancora fuoco
Non c’è speranza per chi è rimasto.
Lui è Vhagar, l’ultimo drago rimasto.
Domeniche
“E adesso a casa” – La voce di mio padre che guida l’auto. Io, seduta nel sedile dietro, rivolgo il viso al finestrino.
Fuori è buio, ma le luci della città di Milano, colorano di arancione le gocce sul vetro.
Una domenica sera, come tante. È diventata una routine.
La domenica a pranzo fuori. I miei genitori, i miei fratelli, mia sorella con mia nipote e suo marito.
I nostri ristoranti preferiti sono il Silos a Settala, oppure il Cà del Gulascia a Spino D’Adda.
Ma ogni tanto proviamo anche ristoranti nuovi che hanno appena aperto, come il Clara, ma quest’ultimo non deve essere stato proprio eccezionale.
A tal proposito, vi va di sapere come mia madre e mia sorella scelgono se entrare o no in un nuovo ristorante?
Di questi tempi non esiste ancora internet con cui scandagliare il web alla ricerca di recensioni o foto, per capire se il locale merita.
Quindi si viene a conoscenza del nuovo locale tramite passaparola, oppure cartelloni pubblicitari sulle strade in transito.
Ma come decidere se entrare o no dentro al ristorante e sedersi?
Ecco è qui che mia madre e mia sorella entrano in gioco.
Immaginate due macchine che si fermano al parcheggio del ristorante. Da ogni macchina scende una donna e insieme entrano. Dopo una decina di minuti escono. Se entrano in macchina, allora si cambia ristorante, altrimenti si avvicinano al finestrino del guidatore e danno la loro benedizione per entrare.
Voi penserete che sono andate dentro a guardare il menu, ed invece no. Hanno chiesto di andare in bagno.
Se il bagno è pulito e in ordine, allora il ristorante ha passato l’ispezione.
Comunque, dopo l’abbuffata al ristorante ogni famiglia torna a casa. Generalmente i grandi si fanno il pisolino di un oretta.
Nel pomeriggio tardi, mio padre sfoglia il giornale e guarda la programmazione dei cinema, qui in città.
Sceglie il film e porta noi bambini al cinema. Il Maestoso è uno dei miei preferiti.
Tutto molto bello. Ma il momento migliore è quando torniamo a casa.
Qui seduta dietro a mio padre che guida, guardo questa città attraverso il vetro dell’auto. Come dicevo, anche se fuori è notte, le luci di Milano mi scaldano il cuore. Socchiudo gli occhi, sono serena, sono felice. Vorrei che non arrivassimo mai. Vorrei sentirmi così per sempre. Appagata da una giornata in famiglia, godereccia e divertente.
Il ciclo della vita
Per tutto questo tempo sono rimasta in compagnia delle mie sorelle. Tutte insieme abbiamo viaggiato per molto tempo. Visitato un sacco di posti. Osservato tante città.
Ci troviamo a Genova, vicino al mare. Sento l’odore della sua aria salmastra. Vedo i bambini accompagnati dai genitori che entrano all’acquario. Sarebbe piaciuto anche a me vedere quello spettacolo sommerso, ma non posso.
È ora di partire dobbiamo fare molta strada. Più andiamo avanti più sento freddo. Noto quel colore bianco che ricopre la roccia. È così luminosa…. Chiedo a mia sorella dove ci troviamo e lei risponde: “Monte Bianco”
Mi avevano raccontato di questo posto, ma per me è la prima volta che lo vedo. Sono là, immobile affascinata dallo spettacolo, quando sento uno stridio alle mie spalle e il suono di un battito di ali. Mi volto e la vedo nella sua maestosità di apertura alare, un’aquila reale. Che animale stupendo.
Ma eccoci pronti a ripartire…
Superiamo il Duomo di Milano. Andiamo oltre, nella provincia.
Il cielo si fa scuro. Vedo la luce dei lampi e sento il rumore dei tuoni. Mi spaventano
Mi hanno raccontato che quando il cielo diventa così, la nostra vita termina. Ho tanta paura, mi guardo attorno e vedo lo sguardo delle mie sorelle. Alcune hanno dipinto sul volto il mio stesso terrore, altre sembrano sogghignare.
Ad un tratto mi sento pesante, molto pesante. È questo l’inizio della fine?
Improvvisamente la sensazione che provo è come se una botola si aprisse sotto di me… E precipito. Sento l’aria sferzare il mio viso, sono terrorizzata. Sicuramente finirò schiacciata sul terreno. Ecco è la fine.
Plick!
Con mia sorpresa atterro sul morbido. Che strana superficie liscia e calda. Altre mie sorelle atterrano vicino a me. Noto che ci sono altre mie simili, ma non siamo sorelle. Loro sono diverse. Mi avvicino, sono tristi. Il loro odore mi ricorda l’aria salmastra di Genova.
Scivolo via lentamente da quella superficie morbida e calda. E poi cado sul terreno.
Guardo in alto, ed è allora che vedo dove ero prima.
Una donna
Vicino a me una delle mie sorelle. Le chiedo: “Chi erano quegli esseri simili a noi, ma dall’odore salato?”
La risposta: “Lacrime di donna”
Ci penso su.
E domando: “Da dove nascono le lacrime di donna?”
Mia sorella con un tono quasi materno mi risponde” Dal cuore”
Poi mi ricordo che adesso siamo sul terreno e allora una certa inquietudine cresce in me.
Spaventata esordisco: “E adesso che succede? Siamo destinate a morire qui?”
Lei sorridendo mi risponde: “Ma no sciocchina, adesso aspettiamo di evaporare e di tornare su un’altra volta”
Mi rassereno. Allora non è finita.
La Fiamma del Drago

Un tuono. Un fragore improvviso che squarcia l’estate, il cielo si richiude su se stesso catturando l’aria sotto al suo mantello. Cala una notte cupa e inattesa che impone le sue leggi, spegnendo il tramonto con un soffio di aria fredda.
Una fila vociante di bambini varca la porta della biblioteca, accompagnati per mano dai grandi che, chiacchierando fra loro, di tanto in tanto si distraggono e si lasciano sfuggire qualche rincorsa e spintone. Sfilano uno dopo l’altro davanti al bancone dietro al quale, rigida nella sua postazione, Malva li osserva. Cerca di rimanere seminascosta dalla pila di libri da catalogare, non può sottrarsi però al saluto cordiale di alcuni dei frequentatori più abituali. Per quanto si sforzi di risultare antipatica, col desiderio di essere lasciata in pace a rimuginare sul suo passato, c’è sempre qualcuno che si mostra lieto di incontrarla.
Ormai consumata dal disappunto a Malva risulta sempre più difficile comprenderli. Non sembra anziana, forse dimostra una certa età per via del suo modo di vestirsi così intessuto di trascuratezza e insoddisfazione. Tuttavia ogni congettura sui suoi anni si rivela inutile, più che un segreto ben tenuto la data della sua nascita ha tutte le sembianze di un autentico mistero, come se si parlasse di epoche lontane.
Dall’altro lato dei suoi occhiali i bambini corrono verso l’angolo dei giochi, cercano il loro preferito rovistando nelle ceste, ridono del loro disordine mentre le chiacchiere degli adulti formano un costante brusio. Malva ne ha vista tanta di confusione nella sua vita, non è il trambusto a disturbarla, ma spensieratezza e gioia, certa ormai che i suoi giorni lieti se ne siano andati e non ritorneranno più. Non sopporta le aperture serali della biblioteca, ma non può negare che qualche ora di straordinario le faccia comodo. Un altro rimpianto, mai nella sua esistenza ha dovuto preoccuparsi della sua sopravvivenza, come in questo tempo.
Il tormento di tali emozioni rimbomba tra le sue tempie. Mentre osserva le persone che affollano la biblioteca solleva un sopracciglio, il destro, ma non per qualche inconscio riflesso, nessuna delle azioni da lei compiute è mai stata involontaria. In quello stesso istante un tuono tremendo fa tremare i vetri della stanza, una pioggia nera comincia a battere sui muri ammutolendo il mormorio delle voci all’interno. Gli adulti si affrettano a salutare i bambini e corrono via, verso i portici al di là della strada.
Rimane soltanto un ragazzo insieme ai piccoli avventori, li richiama intorno a sé e li fa sedere su un tappeto, circondati da giocattoli di legno e libri colorati.
“Questa sera raccontiamo una storia… la volete sentire?”
“Sìììì!” Rispondono in coro i bambini.
“Questa però non è una storia come le altre, lo sapete perché? È una storia vera…”
“Le storie non sono vere!” Commenta una bambina.
“Chi lo può mai dire? È successo tanti anni fa, qualcuno ci crederà, qualcuno no.”
Lo sguardo di Malva si sporge oltre lo schermo del computer, curioso di ascoltare.
“Lo sapevate che mille anni fa, proprio dove oggi si trova il vostro paese, si estendeva un’immensa palude, la terra era ricoperta da un velo d’acqua da cui emergevano isole, umide boscaglie e canneti, formando un intricato labirinto dove si procedeva solo a bordo di lente imbarcazioni con il fondo piatto. Una volta avventuratisi in mezzo agli acquitrini era difficile orientarsi e si potevano perdere i punti di riferimento, rimanendo invischiati fra vegetazione e fanghi insidiosi. Le acque si estendevano per chilometri e chilometri, la palude diventava un lago immenso su cui la nebbia non si sollevava mai. Gli abitanti delle città, Lodi, Crema, Cassano, al sicuro dentro le loro spesse mura di pietra, lo chiamavano Lago Gerundo.
“Questa brava gente, rispettosa delle leggi e osservante dei precetti religiosi, si guardava bene dall’inoltrarsi oltre le rive del lago. Sapeva che al di là di quel muro di quel muro di nebbia si aggiravano spettri, un popolo che parlava una lingua antica, venerava déi pagani e offriva sacrifici al Drago. Il nome di questa temibile creatura era…”
“Tarantasio…” Sussurra Malva allo scoppio lontano di un nuovo tuono.
“Tutti quanti sappiamo che cosa si fa quando un paese è infestato da un drago, giusto? Bravi, si chiama un valoroso cavaliere per ucciderlo e liberare il contado dall’orrendo flagello. Volete sapere come si chiama l’eroe che sconfisse Tarantasio? Non ve lo posso dire, poiché nessun avventuriero che si fosse inoltrato nel Gerundo a caccia del mostro è mai tornato.
“Nel corso dei secoli il lago è stato bonificato, vuol dire che sono stati scavati dei canali che hanno permesso a tutta l’acqua di defluire, lasciando al suo posto una grande e fertile pianura. Forse il Gerundo si è portato via con sé il suo terribile drago, chi potrà mai saperlo? Scomparve così, senza lasciare traccia.”
Un nuovo boato fa sussultare i bambini sul tappeto, una lama di luce strazia quel buio corporeo che inghiotte il mondo oltre i vetri delle finestre. Le lunghe lampade al neon sul soffitto della biblioteca emettono un inquietante ronzio fino a spegnersi. Per un momento vi sono solo buio e silenzio, poi qualche bambino comincia a gridare ma il ragazzo li rassicura, non è successo nulla, è solo un’interruzione dell’elettricità.
Un bambino si alza e cammina verso il banco dei prestiti. Malva lo sente arrivare, piccolo e impaurito ma determinato a non lasciarsi sopraffare dall’oscurità che lo circonda. Si avvicina alla bibliotecaria, avverte soltanto il profumo erbaceo dei suoi vestiti, la sente che armeggia con alcuni oggetti finché come per incanto i suoi occhi increduli tornano a vedere.
Ciò che scorge è il volto della bibliotecaria rischiarato da una luce tremolante, le sue labbra contratte soffiano piano sullo stoppino di una candela. Non ha in mano altro che questa, il suo respiro calmo, infuocato,e la fiamma che divampa davanti alla sua bocca.
Il vento del cambiamento
Adele si avvicinò alla scogliera arrancando, combattendo contro il vento che le sbatteva in faccia con violenza terriccio misto a spuma di mare e la colpiva con la stessa forza delle sue disillusioni.
Si era alzata presto, la giornata ottobrina era fredda e foriera dell’autunno che stava avanzando a passo veloce.
Quando aveva aperto la finestra era ancora buio e il rumore del vento fra le foglie, più che il respiro del Cosmo, le aveva richiamato alla mente un urlo di dolore della natura, violentata dalla furia degli elementi che la sferzavano senza pietà.
«Proprio come mi sento io – aveva pensato con amarezza – violentata dai ricordi che mi trascinano con la forza del vento verso un destino ineluttabile…»
Un destino segnato fin dalla nascita a causa di un carattere troppo condiscendente dettato dalla sua forte empatia.
Adele non aveva mai amato contrapporsi o causare infelicità. Tutto ciò che le persone intorno a lei provavano la colpiva con la forza di un pugno nello stomaco, sia i momenti di gioia che, soprattutto, quelli di dolore o di angoscia. Per questa ragione si era da sempre adoperata a rendere a vita degli altri attorno a sé la più serena possibile, anche a discapito di quello che poteva provare lei.
«È così che mi sono inguaiata. Che bel dono che mi ha fatto l’Universo!» si trovò a realizzare con un sospiro.
Si aggrappò alle rocce lucide di pioggia come a un’ancora di salvezza contro la forza del vento che pareva volerla respingere, ricacciare indietro in quel mondo dal quale lei stava disperatamente cercando di sfuggire.
Trovò riparo fra le sporgenze e si sedette, combattendo la sensazione di ostilità che le proveniva dalla dura pietra sulla quale aveva trovato riparo. Vincendo un senso di vertigine, socchiuse gli occhi per riuscire a guardare verso il basso.
Le onde spinte dal maestrale si infrangevano con forza contro la scogliera, innalzando una spuma bianca e nera che pareva minacciosa e rassicurante al tempo stesso.
Adele fissò quello spettacolo della natura percependone la similitudine con il proprio stato d’animo.
L’indomani sarebbe stato il grande giorno, si ricordò con un senso di malessere. «Dovrò lasciare la mia casa – pensò – non riesco davvero a credere che accadrà veramente».
La casa, dove Adele era nata e vissuta per tutta la sua vita, aveva finalmente trovato un acquirente e il giorno seguente si sarebbe trovata dal notaio per firmare il documento di cessione. Era sembrata a tutti la scelta più logica: anni di incuria, un clima inospitale per la maggior parte dell’anno e il graduale ma inesorabile abbandono del borgo della maggior parte dei suoi abitanti avevano reso del nome del paese, Villa Gioiosa, un drammatico ossimoro.
Villa Tristissima avrebbero dovuto chiamarla, pensò con un sorrisetto sardonico. Eppure poteva ricordarsi di quanto lei e i suoi, un tempo, fossero stati felici. Sentiva ancora le risate dei bambini, il vociare della folla quando si radunava nei giorni di festa, la musica e il profumo del cibo che usciva dalle finestre aperte per richiamare velocemente tutti quanti al desco famigliare.
Poco alla volta se ne erano andati tutti: i suoi fratelli, i suoi genitori e, in una come da una lenta e inarrestabile emorragia, ad uno ad uno, gli altri abitanti del paesino.
Solo lei aveva resistito così a lungo, trincerandosi dietro al fatto che, lavorando al computer, non aveva bisogno uscire di casa.
«Ti stai trasformando in un’eremita, devi andartene da lì!», la rimproveravano parenti e amici, i pochi che le erano rimasti. Ma lei, fra quelle mura, si era sempre sentita nel posto giusto.
Soprattutto, lontana da un’umanità che continuava a chiederle di partecipare alle proprie esigenze, fagocitando le sue.
Era stato proprio a causa dei suoi, per non sentire più la loro preoccupazione, che aveva deciso di vendere e di trasferirsi in città, come avevano fatto gli altri prima di lei.
L’imprenditore che aveva acquistato ne avrebbe fatto un resort di lusso, una Spa isolata dove ricchi e annoiati clienti avrebbero trascorso le loro rilassanti vacanze lontani da occhi indiscreti.
La sua casa sarebbe stata violentata. Questa consapevolezza aggiungeva dolore al suo dolore.
A quel pensiero sentì gli occhi bruciarle.
Mentre lottava per trovare il respiro contrastando il vento che le sferzava il viso con forza, si ritrovò a canticchiare una canzone di De André: «Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria. col suo marchio speciale di speciale disperazione…».
In direzione ostinata e contraria… come il vento che la respingeva… come i suoi pensieri che respingevano il vento…
Restò a lungo immobile, resistendo al freddo che incombeva, senza più riuscire a distinguere le sue lacrime dalle gocce delle onde, entrambe salate, entrambe vitali.
«Non vendo più! Non lo farò!» urlò con tutta la forza che aveva in gola.
Il vento è cambiato, finalmente anch’io andrò in direzione ostinata e contraria! Pensò sorridendo, con il cuore che le batteva forte in petto, sentendosi per la prima volta in vita sua libera e viva.