Maifreda da Pirovano. La Papessa.

Abbazia di Mirasole,  febbraio 1300.

 

Frate Candido correva alzando ora le mani, ora l’orlo del saio per non inciampare.

Nei corridoi rimbombavano lo scalpiccio dei suoi sandali e l’ansimare del suo fiato che gli spegneva la voce in gola.

Quando si fermò davanti alla porta dell’Abate, deglutì per recuperare la lucidità. Per un attimo, alzò lo sguardo al cielo recitando le prime quattro strofe del Pater Noster. Lo faceva sempre quando chiedeva l’aiuto di Dio.

Bussò alla porta e rimase in attesa. Una voce chiara e ferma lo invitò a entrare.

«Magister», esordì Fra Candido saltando ogni preambolo canonico, «l’acqua!».

Il giovane Abate rimase fermo, in piedi davanti alla sua scrivania. Attendeva che il monaco si riprendesse. Era evidentemente in preda all’ansia.

Passò qualche secondo, poi Fra Candido disse ancora: «L’acqua dei pozzi!», interrompendosi subito dopo.

Il giovane Abate lo esortò: «Ebbene?».

«Avvelenata! Qualcuno ha gettato pezzi di carogna in ognuno di essi!».

Sul viso dell’Abate si disegnò un’espressione profonda, lo sguardo di chi cerca prima le domande, poi le risposte. Era entrato nell’ordine degli Umiliati diversi anni prima. Subito, aveva percepito l’energia infusa dagli ideali ispirati a una profonda religiosità. Ora era incaricato di condurre l’Abbazia e di gestirne l’economia basata principalmente sulla produzione di feltro. L’acqua era dunque fondamentale.

Ma non era questo che aveva turbato tanto Fra Candido, e non era a questo che stava pensando il giovane Abate mentre rifletteva a capo chino con la punta delle dita unite sotto il naso.

«Chi mai può aver fatto questo?», chiese quasi a se stesso.

«Non lo so», rispose Fra Candido aprendo le braccia per poi lasciarle cadere.

L’Abate sospettava che l’obiettivo di tale gesto fosse impedire la visita prevista l’indomani: Maifreda da Pirovano, detta la Papessa. Donna nobile, di rara intelligenza, suora dell’ordine degli Umiliati. Professava i principi di Guglielma di Milano, altrettanto nobildonna in attesa di beatificazione per i miracoli compiuti. Prima di morire, Guglielma stessa elesse Maifreda sua Vicaria. Ecco perchè Papessa.

L’Abate decise di concentrarsi sul problema più imminente: l’acqua dei pozzi inutilizzabile. Per nulla al mondo avrebbe rinunciato a sentire i discorsi della Papessa.

In seguito, si sarebbe occupato di trovare l’autore del misfatto.

L’Abate guardò per un istante fuori dalla finestra. Le campagne intorno all’Abbazia erano striate di bianco e di nero. Il cielo aveva quella luce tenue e rosata dell’alba invernale. Si sedette alla scrivania. A Fra Candido parve si fosse allontanato di mille chilometri.

«Fratello Candido, dai ordine di recuperare quante più pertiche di feltro possibili. Legatele assieme e gettatele nei pozzi dopo averle affrancate ai bordi».

Fra Candido rimase immobile. Gettare il loro prezioso feltro nei pozzi? E perché?

Trasalì quando il Priore batté un pugno sul piano della scrivania: «Presto, Fratello, fai come ti dico». Il tono era benevolo e Fra Candido uscì di corsa seguito dalla benedizione del priore che gli scaldò il cuore.

Il feltro prosciugò i pozzi, ne pulì i fondi, i fianchi e bonificò la sorgente. L’acqua tornò potabile.

L’indomani la Papessa arrivò all’Abbazia di Mirasole con il suo nutrito seguito. Celebrò messa, predicò la beatificazione di Guglielma da Milano. Usò parole che non lasciavano fraintendimenti: Cristo è stato figlio di Dio, sua incarnazione maschile. Guglielma e stata figlia di Dio, sua incarnazione femminileElla risorgerà.

I frati, le monache dell’ordine degli Umiliati la ascoltavano attenti e rapiti. Tutti tranne uno. Colui che riportò le parole di Maifreda al tribunale inquisitorio. Divenne sorvegliata speciale.

Il 10 aprile 1300, Pasqua, Maifreda, in abiti sacerdotali, celebrò Messa solenne secondo le liturgie.

Morì nello stesso anno, a settembre, dopo un processo che la vide colpevole di eresia e per questo condannata al rogo.

Il giovane Priore conservò per sempre nella memoria il significato delle parole che Maifreda da Pirovano gli aveva sussurrato: Dio è uomo, Dio è donna, Dio è tutto.

Nota dell’autrice: i fatti sopra descritti relativi all’Abbazia di Mirasole sono frutto di pura fantasia. Il resto è liberamente ispirato dalla storia.

 

La carezza dell’acqua

Seduta sulla barca.

Guardo il più incredibile mare che io abbia mai avuto sotto gli occhi.

Tutti si buttano… Chi si tuffa, chi si cala dalla scaletta.

Nessuno fa caso a me, tutti presi a nuotare e starnazzare.

Neanche l’acqua fa caso a me, né alle mie dita aggrappate al bordo della barca.

Mi canto le solite filastrocche.

Non importa.

Non e’ necessario.

Non è fondamentale.

Anzi, il bagnato, il sale sono sempre vagamente fastidiosi.

Ma non so che giorno è oggi, però le mie bugie hanno il suono stridulo di una campana rotta.

E il mio corpo senza permesso, si alza, mette le mani sul bordo della scaletta e inizia a scendere… L’acqua che gli accarezza il ventre e le cosce.

Ora gli urlo qualcosa.

Cosa fai, come osi.

L’acqua è pericolosa.

Non respirerai.

Soffocherai.

Annegherai.

Morirai.

Sarai inghiottito e annientato.

Ma davvero non so che giorno è oggi, questo corpo non mi ascolta.

E mi sporgo per recuperarlo, per tirarlo in salvo, sciagurato senza senno.

Ma scivolo piano anch’io, l’acqua che avvolge, e confonde, e lava la paura.

L’acqua che per la prima volta fa caso a me…

Mi sorride, mi abbraccia, mi accoglie, mi sostiene.

Apro le braccia, mi lascio andare e riprendo a respirare.

E me ne sto li’ stupefatta come fosse il primo giorno di una vita nuova.

L’acqua ci tiene.

Me e la mia paura.

E mi sfascio la bocca in un sorriso, il viso bagnato, il sale dell’acqua e delle mie lacrime.

Acqua benedicta

L’acqua si rispettava. Il nonno la raccoglieva piovana dentro grandi botti collocate in cortile.
Con lei si veniva a patti sempre: le verdure lavate nell’orto e l’acqua ritornava alla terra.
Al mattino la faccia lavata con l’acqua pulita nella bacinella in ceramica bianca, poi si versava in giardino per i fiori. L’ acqua calda della pasta per lavare i piatti, mani e piedini risciacquati prima di rincasare con la canna sopra i cetrioli che hanno sempre sete.
Santa in un ampolla e conservata in un luogo segreto che solo la nonna sapeva: con quest’ acqua benediva segnando una piccola croce sulle fronti mentre pregava. Noi bambine capivamo così che accadeva qualcosa di straordinario e avevamo bisogno dell’aiuto divino. Ho lavorato per un periodo presso un rinomato magazzino tessile a Milano e mi sono scontrata con responsabile e colleghe perché facevano scorrere l’acqua durante tutta la giornata per averla fresca, chiudevo il rubinetto, ma loro mi prendevano in giro: ” Sei proprio una paesanella” dicevano. Io soffrivo nel vederla scorrere nel lavandino così invano, inerme.

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Il pescatore errante dell’Asia

Me lo racconti ancora, papà? Mi racconti di quando ad Aral c’era il mare?

La testa si riempie di sogni se si vive di un sussidio statale e poco altro, il tempo scorre tumultuoso come acqua nelle fogne e la puzza sale al cervello, i pensieri muoiono e marciscono diventando incubi terribili. Levent è troppo giovane per essere vaccinato contro il vaiolo, per aver visto uomini e cani partire per lo spazio, per aver assistito alla caduta dello Stato, per aver sperato nella democrazia e per aver visto il mare. Sebbene nato dopo tutto, ignorante di un passato troppo lungo, non gli serve certo un’illuminazione per accorgersi che lì intorno è tutto uno schifo. Basta guardare i volti dei più grandi, che tengono dentro agli occhi una nostalgia schiacciante, come il sole a picco che opprime il deserto intorno alla città.

È vero papà? È vero che le ragazze si vestivano bene e passeggiavano la sera sul lungomare?

Si va via quando non se ne può più. Se il lavoro non c’è non si può mai cominciare, e se mai si inizia mai si finisce. Chi lo dice che da un’altra parte le cose vadano meglio? Lo si sente dire dai camion che grugniscono tra la polvere, operai di una mattina scaricano grandi casse che contengono frutta, verdura, carne, pesce, oggetti e vestiti che sono poi venduti nei negozi. Da qualche parte devono pur arrivare.

È vero che alla stazione di Aral arrivavano le famiglie importanti dalla capitale per trascorrere le vacanze? Che la sera i teatri erano aperti e la gente usciva per assistere ai concerti? Che la mamma andava dal parrucchiere e ne usciva pettinata alla moda?

I suoi genitori gli hanno raccontato tutto questo, di come anno dopo anno la città è morta in preda ad un’agonia lenta, e secca. Levent si è fatto l’ultimo selfie quella mattina, l’ha caricato come stato su Telegram, ha ricevuto alcune reazioni dai suoi amici, poi è calato il silenzio. Più si allontana dalle ultime case più il segnale si indebolisce, ha collegato il cellulare ad una batteria che si ricarica con la luce solare, che nel deserto non mancherà. Per la traversata ha chiesto alla sua famiglia di potersi portare un asino, che è resistente, porta in groppa sia il ragazzo sia il suo essenziale bagaglio e non si cura se ad un certo punto i suoi zoccoli cominciano a scricchiolare su una distesa di sale.

Levent ha detto ai suoi genitori di voler andare nella valle dell’Amu Darya, cercare un impiego in una piantagione di cotone e mandare qualche soldo a casa, solo così li ha convinti a cedergli l’asino. Per raggiungere la fertile valle deve attraversare il mare di Aral, a piedi, perché di tutta quella grande acqua non rimane più niente. Scende lungo un lieve pendio e si ferma un poco a riposare, all’ombra dello scafo di un grande peschereccio arrugginito, appoggiato a una duna di sale. Quello appartenuto alla sua famiglia era più piccolo, si è arenato non molto lontano. C’è passato davanti poco prima e vi ha potuto leggere alcune lettere del nome della mamma.

Lo sfortunato mare di Aral era la casa di tanti pescatori che dividevano le sue fragili onde con gli uccelli acquatici, e con la vecchia flotta militare dello Zar che presidiava l’Asia centrale. La sua grande debolezza, essere un mare interno, se l’acqua non arriva più il sole e il vento lo spazzano via.

L’asino di Levent cammina lento verso una catasta di bastoni bianchi, liquidi all’orizzonte come un miraggio. Il suo sguardo confuso da quel malsano viaggiare incrocia enormi orbite vuote e inespressive, appartenute ad un pesce smisurato. Occorrono decine di passi per arrivare fino alla fine dello scheletro di quell’antico mostro acquatico. Anche suo papà avrebbe potuto vendere pregiato caviale, se avesse però comprato un peschereccio più grande.

Fra pochi giorni Levent raggiungerà finalmente l’acqua. la troverà imbrigliata da una catena di dighe e di chiuse, che cingono l’Amu Darya e lo addomesticano, ne raddrizzano le anse serpentine per convogliarlo verso distese sterminate di batuffoli bianchi.

Ha in testa una tale confusione. Dà la colpa al sole a picco, ma si accorge che nemmeno riposando all’ombra di una grande roccia i suoi pensieri riescono a trovare un senso. La storia che si è raccontato è buona, all’inizio sollevare sacchi di cotone non sarà una passeggiata, ma gli metterà in tasca qualche soldo, abbastanza da chiedere a una ragazza di uscire. Anche nella valle dell’Amu Darya le ragazze credono in Dio, quindi non dovrebbero esserci problemi. Se si lavora e si rispettano le regole le cose andranno lisce come devono andare.

Tuttavia Levent non riesce a togliersi dalla testa quegli enormi occhi fantasma del deserto, quel muso appuntito rivolto all’insù, come se cercasse disperatamente di respirare. Si risveglia ma quel sogno rimane lì: se in quelle dighe lungo il fiume si aprisse uno spiraglio, e l’acqua libera riuscisse a fluire via… il grande storione potrebbe riprendere a nuotare.

 

Pioggia

Mino si guardò intorno sconsolato, scacciando infastidito un moscone che si ostinava a girargli intorno. Ormai erano mesi che non pioveva, il suo campo coltivato a granturco aveva da tempo perso il colore verde delle tenere foglioline e le pannocchie stentavano a crescere, secche e protese verso l’alto come in uno strenuo tentativo di ricevere qualche goccia consolatrice.
«Per annaffiarle mi rimane solo il mio sudore», pensò disperato. Tocco le pianticelle rinsecchite con le dita callose di chi la terra l’ha lavorata per tutta la vita e la conosce bene, fin troppo bene per sperare in un capovolgimento della sorte.
«Quest’anno il raccolto rischia di essere compromesso», si disse quasi con rassegnazione. Pensò a sua moglie, a cui da tempo nulla riusciva a strappare una risata, e che contava sempre meno su di lui per il vivere quotidiano, a suo figlio che aveva perso ogni fiducia nel futuro e alla terra non voleva più pensare, ai progetti di vita che anno dopo anno andavano in fumo, bruciati dalla stessa arsura che stava prosciugando la vitalità dai suoi campi.
Eppure quella era la vita che da generazioni aveva sostenuto la sua famiglia, quelli erano i terreni che si erano tramandati di padre in figlio. Non conosceva altro, Mino. Non si era mai spostato dai confini delimitati dalle sue rogge.
Un tempo, i campi maturavano rigogliosi e gli anni sterili erano pochi, catastrofi naturali come grandinate o siccità venivano raccontate dai vecchi ai bambini a cui la sera, raccolti nel granaio per scaldarsi a vicenda, raccontavano le storie di messi perdute, disperazione e ripresa fra difficoltà superate e nuove sfide all’orizzonte.
Una vita faticosa ma a cui nessuno avrebbe mai pensato di poter rinunciare: la terra era il loro destino, la loro ragione di essere.
Ora però tutto era cambiato. Ogni anno era più caldo, meno piovoso, e i raccolti si facevano sempre più striminziti.
«Acqua, serve acqua! Dio del cielo, o comunque tu ti chiami: se ci sei, se mi ascolti, fai piovere, fai bere i miei campi e restituiscimi la mia vita!».
Uno sguardo al cielo e uno alla terra secca, rimase fermo ancora un po’, come in attesa.

L’IMPORTANZA DELL’ACQUA

Stavamo viaggiando in quel deserto di neve e ghiaccio da quattro giorni. Avevamo esaurito le scorte di cibo e acqua, il gas era agli sgoccioli e anche i cani erano affaticati.

Di quel passo, avremmo raggiunto la postazione del Centro Ricerche sul Clima a Irkutsk di lì a novantadue ore. Io non ce la facevo più: volevo sdraiarmi sulla slitta e addormentarmi senza pensare più al nostro sfortunato progetto, partito male e proseguito peggio, incagliatosi in una serie di ostacoli prima politici, poi economici e amministrativi, infine logistici e tecnici.

Delle tre ricercatrici internazionali, ero l’unica che era rimasta. Avevo dovuto subire le battute sarcastiche e sessiste dei miei compagni di squadra, ma la mia determinazione e l’abitudine a farmi scivolare di dosso le offese come acqua sulla roccia mi aveva anche guadagnato una certa considerazione.

A differenza delle altre che avevano abbandonato, non avevo una famiglia a cui rendere conto, un marito da cui tornare, dei figli a cui dover dare sicurezza, nemmeno dei gatti abituati a dormire sul mio letto la notte, non più.

Negli ultimi dieci anni la mia vita era la ricerca; il progetto sulla memoria dell’acqua iniziato da Masaru Emoto nel secolo scorso aveva guadagnato credibilità e finanziamenti, i progressi teorici della fisica quantistica avevano dimostrato l’indimostrabile, ora anche le aziende e i governi intravedevano un futuro di potenziali applicazioni commerciali e avevano cominciato a sciogliere le loro riserve.

Il paradosso è che eravamo circondati da acqua ed eravamo tutti disidratati. La sete ci accompagnava dal risveglio all’alba a quando ci fermavamo nelle basi di sosta al tramonto.

Avevamo sbagliato strada per un malfunzionamento della bussola e lo scioglimento del permafrost aveva modificato l’assetto dell’enorme lastra di ghiaccio su cui scivolavamo con le nostre tre slitte, determinando un allungamento del percorso di due giorni. Il gas che ci permetteva di sciogliere il ghiaccio per bollirlo e ricavare acqua potabile era insufficiente per tutti. Dopo due giorni, resosi conto dell’errore, il capo-spedizione aveva deciso di razionare l’acqua: a ognuno di noi spettava mezzo litro di acqua a testa al giorno. Tutti erano molto disciplinati e osservavano scrupolosamente le indicazioni, ma si percepiva un’aumentata irritabilità e una certa stanchezza negli equipaggi.

Al briefing preparatorio avevamo imparato che era sconsigliabile far sciogliere in bocca direttamente la neve cruda, per via dei potenziali patogeni, se non volevamo finire come Rosanna Benzi, che contrasse la poliomielite a tredici anni e visse il resto della sua vita in un polmone d’acciaio. Morì a quarantatré anni.

Angelina

“Angelina,il carro è qui”.
“Arrivo pa’”.

Sono le quattro del mattino e il carro passa dalle cascine per raccogliere le donne e le ragazze che vanno alla monda del riso nei paesi vicini.
Suo padre, Pa’ per i figli, non ha voluto che lei andasse nelle risaie in Lomellina perché avrebbe dovuto stare lontano dalla famiglia e lui voleva proteggere la sua figlia più piccola, così esuberante e allegra, dalle insidie della lontananza da casa.

La ragazza esce portando con sé il sacchetto con un pezzo di pane e cinque noci, il suo pranzo del giorno, lo appendera’ al ramo di un albero, sulla riva.
Sale sul carro sedendosi al limitare di esso,con le gambe a penzoloni perché da lì vede bene il sorgere del sole e le campagne circostanti, in grembo ha un fazzoletto e il suo cappello di paglia.

Sul carro salgono un po’ alla volta tante donne:alcune sono avanti con l’età, la maggior parte giovani, solo poche giovanissime.
Lei è la più giovane del gruppo e ha voluto fare la mondina per aiutare la sua famiglia:cinque figli(due maschi e tre femmine)e il papà, la mamma non c’è più. I due figli maschi sono in Africa, per la guerra d’Etiopia, le sue sorelle maggiori si occupano della casa.

Angelina è orgogliosa di aiutare la famiglia con il suo lavoro, la fa sentire grande:alla fine della monda riceverà una paga e tanti chili di riso quante giornate di lavoro avrà fatto così in famiglia avranno un po’ di cibo in più perché di solito ce n’è poco.

Verso le cinque la ragazza arriva alla risaia e si dispone accanto alle altre donne procedendo insieme nell’acqua per estirpare le erbacce dalla coltivazione del riso.
Ore e ore sotto il sole, con i piedi a mollo e le bisce d’acqua che girano attorno, i tafani e le zanzare che pungono le gambe.

Dopo qualche ora qualcuna alza un braccio: ha sete.Ecco che allora arriva il campe’ con un secchio d’acqua e un mestolo, da lì bevono tutte.
Il padrone della risaia intanto sta sulla riva e incita le donne a camminare più in fretta e a cantare perché così non hanno tempo di chiacchierare e lavorano assiduamente.

La monda va avanti da una risaia all’altra fino a mezzogiorno quando tutte le mondine si siedono sulla riva e mangiano il loro pranzo in fretta quindi ricominciano la pulitura delle erbacce fino al pomeriggio.
Man mano che le ore passano la fatica si fa sentire, il sudore scende sempre più copioso dalla fronte e lungo la schiena, la voce diventa rauca a furia di cantare.
Verso sera il lavoro in risaia finisce e a passo lento si ritorna al carro che ripercorre al contrario il tragitto fatto all’alba, una alla volta le mondine ritornano nelle loro case.

Da bambina chiedevo spesso ad Angelina di raccontarmi le storie di quando era una mondina allora il suo viso si illuminava e i suoi occhi erano più brillanti del solito.
Nei suoi racconti non metteva l’accento sulla fatica, il dolore, la stanchezza,solo sulla gioia delle amiche trovate, dei canti e della giovinezza.
Diceva sempre che a lei era piaciuto fare la mondina perché il contatto con la terra la rendeva felice,perché aveva aiutato la sua famiglia e perché col suo cappello di paglia si sentiva bellissima.

Angelina è mia madre e io sono come sempre fiera di lei.

Eri mia madre

Eri mia madre.

E non ti ringrazio della vita che mi hai dato ma della tua, di vita, che mi hai lasciato in regalo.
Le tue storie di bambina sotto le bombe della guerra.
Che, donna e madre ormai fatta, ti si vedeva ancora la paura in faccia anche per i tuoni di un temporale improvviso d’agosto.
Le storie delle tue cene di miseria, fatte di minestre d’acqua ed erbacce, mentre ci sgridavi torva per i nostri avanzi nel piatto.
Madre piena di forza e coraggio.
Che si è ribellata come una furia a tempi in cui il destino di una donna era essere solo una moglie sottomessa e un’incubatrice analfabeta.
Sei riuscita a studiare.
Sei riuscita a sederti su una poltroncina da ufficio.
Fiera del tuo vestito fine, delle tue unghie laccate di rosso che ticchettavano sulla tua macchina da scrivere.
Mentre le altre si erano arrese ancora prima di iniziare a respirare.
Eri così orgogliosa, mamma, di avercela fatta ad essere qualcosa di meglio.
Fino al giorno in cui la legge degli uomini è venuta a bussare alla tua porta, nonostante tutta la tua furia per essere chi volevi.
E ormai con la fede al dito e il ventre gonfio, sei caduta in ginocchio e ti sei dovuta arrendere.
Via lo smalto rosso, via i vestiti stretti sulla vita da vespa che avevi ormai perso.
Ti guardavo, mamma, nei tuoi grembiulacci informi, senza un filo di trucco, l’odore di candeggina e cavolfiori lessi sempre nell’aria.
Col capo sempre chino su un rammendo o su una conserva da invasare.
Nella tua rabbia dolorosa, per la vita che ti era stata negata dalle leggi degli uomini.
Nei rari momenti in cui ti vedevo con la fronte sul vetro della finestra, pensando di non essere vista, guardando tristemente oltre la strada di sotto e oltre quella vita a cui ti eri dovuta rassegnare, mamma io lo ricordo ancora.
La sera nel letto a macinare parole crociate per mantenere la mente plastica, o leggendo guide turistiche che nascondevi nel comodino, sognando di viaggi che mai avresti fatto.
E le domeniche in cui mi caricavi sul tram, per vedere palazzi e basiliche, io bimba morta di noia e tu incantata a guardare guglie e statue, con la tua guida aperta tra le mani.
Mi hai amata e odiata, mamma.
Perché vedevi in me quella stessa fame di libertà che con così tanto dolore ti eri dovuta ricacciare nello stomaco.
E mi hai inchiodato le leggi degli uomini addosso, così come avevano fatto con te.
Perché non potevi fare altrimenti, ora io lo so.
Alla fine ti ho obbedita, mamma.
Con una fede al dito anch’io, perché cosi si doveva.
Con un figlio dietro l’altro in grembo, perché altrimenti sarei stata un guscio vuoto, un ramo secco, una nullità.
Senza luce per sogni e passioni, perché ormai anche la mia strada era segnata.
Ti ho amata e odiata mamma.
Ma solo alla tua fine, ti ho compresa.
Non esistono vittime o carnefici, esiste il dare cio’ che si è ricevuto, nel bene e nel male.
E spesso sono i carnefici ad avere più ferite delle loro stesse vittime.
Tu non lo sapevi, mamma, ma ora io lo so.
Di generazione in generazione.
Di madre in figlia.
Alla fine si perdona, mamma.
Se stesse e i propri avversari.
Tu ed io.
Ho iniziato a perdonare il giorno in cui ti ho accarezzato i capelli, bianchi e fini come ragnatele, che tu già te n’eri andata.
E anno dopo anno, cadendo e rialzandomi, a volte correndo, a volte trascinandomi, sai cos’ho fatto mamma?
Ho preso quelle leggi degli uomini maledette, una per una, e le ho lanciate contro ogni muro che ho incontrato.
Si sono schiantate in mille pezzi.
Le guardo a terra.. Alcune ridotte in briciole.
Altre ancora vibrano chiedendo imperiosamente rispetto.
Mi turbano, mi spaventano, alcune hanno ancora il potere di chiedere alla mia testa di abbassarsi ancora una volta.
Ma sto imparando a girare lo sguardo lontano da loro.
Verso tutte le possibilità che non hai avuto e che potrò avere io.
Verso la vita che avresti voluto.
Che alla fine sei riuscita a far avere a me.
Perché ad ogni legge degli uomini che ho preso in mano e scagliato contro un muro, tra le mie dita, erano intrecciate le tue.
Vedi mamma, ti ho vendicata alla fine….

Mimose…perché?

La prima volta che un uomo mi ha regalato un mazzolino di mimose recise non ho reagito molto bene,anzi!
Lui era il sindaco del mio paese che si spostava nelle scuole per omaggiare le donne che ci lavoravano.

-Invece delle mimose ci regali un asilo nuovo per i nostri figli che adesso si trovano in un luogo vecchio e pericolosissimo- gli dissi.

Convengo,a distanza di anni,che l’affermazione non è stata accogliente nei suoi confronti,ma allora ero una mamma molto indignata e preoccupata per la sua piccola bambina.
Oggi che non lo sono più continuo a non amare i fiori recisi perché sono già morti e le mimose lo sono particolarmente in quanto il loro profumo e la loro bellezza appassiscono drammaticamente in fretta:il nove marzo sono ormai piccole biglie rinsecchite e puzzolenti.

Mimose. Per me metafora del valore riconosciuto alle donne nella società:un giorno di festa, allegria,turgore e poi gettate in un angolino.
Perché quindi caro marito, collega o uomo qualsiasi invece di regalarmi mimose non mi porti,magari,piantine di lavanda dagli inebrianti e prorompenti fiori lilla che durano nel tempo e profumano di più?

Perché non riconosci,anche con la scelta di un fiore,che la mia presenza nella tua vita non è effimera ma fa la differenza e che senza di me saresti in difficoltà?
Ecco adesso sai come la penso sulle mimose.

Se però proprio vuoi regalarmene una per il suo colore giallo squillante e allegro…che sia almeno viva .
Buon otto marzo a tutti.

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