HELENA – Vento dell’Est

Quell’anno dalla calza della Befana era sbucato lo Sponsor Ufficiale per le squadre di calcio dei ragazzini del nostro Oratorio: a loro venne fatto dono del corredo sportivo completo.  Alcune giacche a vento eccedenti le richieste furono consegnate alla Caritas locale, di cui da molti anni facevo parte, a dimostrazione che la Provvidenza non dimentica mai di manifestare tangibili e  inconfutabili segni della sua presenza.

Per la mattina del giorno seguente, una domenica, avevamo concertato di allestire sul sagrato della Chiesa un banchetto per la vendita di nostri  biscotti, torte e strudel, il cui ricavato avrebbe consentito di far fronte alle gravi emergenze dei nostri assistiti.

Fu in quella occasione che conobbi una signora dai capelli color rame, esile e piccola di statura, i cui limpidi occhi azzurri odoravano del vento dell’Est e incutevano più rispetto che simpatia.   Di lei mi colpì immediatamente la disinvoltura con la quale indossava  una giacca a vento blu, quella con stemma dello Sponsor di calcio.

Si chiamava Helena e chiedeva di entrare a far parte del gruppo, pur essendo una nuova assistita. Dimostrava vent’anni anni: ne aveva festeggiati trentacinque il giorno prima. Si espresse in un italiano perfetto e prodigandosi al nostro fianco – nonostante soffrisse di alcune lesioni fisiche – dimostrò di essere una  vera forza della natura.  I suoi sottili polsi massacrati da  cicatrici spaventose ci impressionarono. Evitammo domande.

Senza alcuna esitazione, con notevole distacco emotivo, Helena raccontò di essersi “strappata” i tendini di entrambi i polsi per poter sfuggire alla cattura da parte della polizia.   Era rimasta aggrappata e appesa a lungo – sostenendosi solo con le mani – all’esterno della ringhiera di un balcone di un palazzo ministeriale. Al cedimento delle fibre caduta  rovinosamente a terra aveva riportando fratture anche alle gambe.   Evitò l’arresto ma trascorse due stagioni in Ospedale.   Con una scrollatina delle spalle tenne a precisarci che il fatto era “acqua passata”, risaliva ai tempi in cui era stata la segretaria di un illustre Ministro della capitale della Nazione da cui proveniva.  E non aggiunse altro.

Le diventammo amiche e, sapendola in difficoltà economiche – svolgeva in nero piccoli,  malpagati, lavori di pulizia nelle case di privati -, a turno le offrivamo un sostegno di qualunque tipo: farle la spesa, ospitarla a dormire, pranzare con noi, accompagnarla ad un colloquio di lavoro, o, come accadeva spesso mi chiedesse, consentirle di trascorrere un’ora raggomitolata all’angolo del divano per sfogare lacrime.

A me si raccontava con fiducia; così seppi dei suoi trascorsi nel Sud d’Italia, ove era approdata dopo un viaggio disperato a bordo di un barcone; della mancanza di denaro che la obbligava a elemosinare cibo; degli agguati e dei guai attraversati e della sua decisione di “sopravvivere” a qualunque costo esercitando il ”mestiere più antico del mondo”.

Questa pratica durò pochissimo tempo: un sacerdote del posto l’aiutò a trovare un tetto sotto cui ripararsi e un lavoro dignitoso da operaia.   L’attività dell’azienda purtroppo terminò sette anni dopo: anni durante i quali Helena conobbe Piter e si innamorò.   Alcuni compaesani dell’uomo offrirono a lui un lavoro da manovale “su al Nord”; così la coppia fiduciosa decise di intraprendere il viaggio della speranza che avrebbe cementato l’unione.

Un anno dopo il nostro primo incontro, Helena mi mise a parte di un altro di quelli che avevo battezzato i suoi “misteri misteriosi”: all’età di vent’anni aveva chiesto ed ottenuto il divorzio da un coniuge violento e scansafatiche a cui però aveva dovuto affidare la figlia prima di emigrare. In Basilicata aveva lavorato indefessamente, risparmiando sulle proprie spese, provvedendo a cedere gran parte della paga all’ex marito – che continuava a oziare –  e alla figlia che – da lui spalleggiata – cresceva sempre più esigente e capricciosa.

Ancor prima di giungere al Nord, Helena stanca di sentirsi costantemente sfruttata tagliò i ponti, interruppe il flusso di denaro verso l’Est, sigillò la porta del cuore e sostituì il numero di cellulare.   Mi disse pacatamente: “Non mi sono mai pentita della decisione, per me era arrivato il momento di salvare me stessa.   Da anni non ho più notizie.”

Il mio cuore di mamma si torceva per l’incredulità.   Accortasi che faticavo a respirare d’impulso mi abbracciò, – non era persona avvezza a gesti o parole affettuose – e il gesto mi colse di sorpresa.  Un attimo dopo però mi strapazzò, quasi sbeffeggiandomi, per essere “una mamma troppo buona”.   Poi, inaspettatamente, in preda ai singhiozzi chiese il permesso di rifugiarsi nel “suo” solito angolo del divano e di lasciarla sola.

Volevo molto bene ad Helena, la consideravo metà sorella metà figlia: lei ricambiava il mio affetto a modo suo: o applaudendomi dopo aver pranzato, sempre frettolosamente!, o insistendo per lasciarle fare le pulizie dell’appartamento.   Se l’asticella del buonumore saliva, non senza sforzo, riusciva anche a rilassarsi e trascorrere un’ora in pace.

E’ dal giorno della festa della donna del 2018 che di Helena e Piter ho perso completamente le tracce: come fossero svaporati.  A novembre 2019, un’amica “caritatevole” mi contattò informandomi che “girava voce” la coppia vivesse all’estero.

L’anno vecchio se ne è andato.   E’ in arrivo l’Epifania, il cui significato “apparire” conosco da quando studiavo il catechismo; il compleanno di Helena cadrà lo stesso giorno.   Sebbene io sia reduce da una notte alcolica con sbornia di allegria, da ore – su insistenza  della mia anima (o della pancia?) -, me ne sto incollata a questa tastiera del computer per mantenere in vita, attraverso la scrittura, il ricordo di una persona cara di cui oggi sento particolarmente la mancanza.   Tengo accesa la lampada della speranza.   Chissà se

 

Ho interrotto la frase nel momento in cui, alle 14,27!, lo schermo del cellulare accanto a me si è illuminato nella casella blu dei “messaggi”; sì proprio quella che da quando esiste WhatsApp nessuno utilizza più.    Neanche avessi visto un fantasma!   Ho cacciato un urlo per l’effetto sorpresa alzandomi di botto dalla sedia, la mano posata sul petto per frenare un batticuore esagerato.   In modo concitato, ad alta voce ho ripetuto incessantemente: ”Mio Dio non è possibile. Non posso non posso crederci.”   Mentre tentavo di ricompormi  gocce cadute dagli occhi si sfaldavano sullo schermo acceso del telefonino.

Sto tuttora scuotendo il capo ripetendomi che se io per prima stento ancora a crederlo, a nessuno risulterà facile concepire che sia realmente accaduto che, a distanza di  quasi due anni di assordante silenzio, proprio oggi mentre mi facevo compagnia con i ricordi, pensando ad Helena e Piter, ho ricevuto un messaggio che recita così:

“Aggiungimi su SNAPCHAT Nome Utente Helena_ D….. 51.., HTTPDS://etc.”

Appena avrò un supporto umano accanto a me che potrà istruirmi, – sono pur sempre una nonna giurassica! -, sarà mia cura e mia gioia “aggiungere” per raggiungere.

 

1° Gennaio 2020

 

Una carezza sul cuore

La poesia di Pablo Neruda si offre cibo per essere condivisa: è sincera, diretta come chi non ha nulla da perdere e si scioglie bene come lo zucchero nel latte caldo.

Dinamica e potente, possiede la capacità di sedurre ed intrappolare nella fragile rete di sensibilità ed amore con il suono della musica di parole fresche e nel contempo evocative.

Come ogni poeta, l’Autore scrive quel che ognuno di noi sente dentro di sé: il suo sentire è il punto di incontro dove tutti ci assomigliamo.   Sa moltiplicare per mille l’emozione per farci valutare con tutti i sensi la gioia dell’esistenza; in tal modo vede ed incontra non soltanto i desideri ed i sentimenti personali ma anche quelli altrui.

Il mio presepe

Il mio presepe (negli anni di buona in cui lo faccio) ha le statuine tutte spaiate. Le proporzioni sono opinabili: le pecorelle sono grandi come alci dell’Alaska, le casette minuscole come quelle dei puffi. Molti personaggi li ho trovati dentro alle uova Kinder e hanno le faccette da bambolotto, in contrapposizione ai Re Magi che ho trovato all’Ikea, sono grandi come il gigante Golia e hanno le espressioni serie e compunte. Le paperelle, che ho comprato in stock perché erano in offerta, invadono tutti gli spazi. Le più fortunate becchettano il muschio, le più allocche cercano di nuotare nello stagno che in realtà è uno specchietto da borsetta.

Mentre compongo il sacro quadro, posizionando artisticamente arbusti e personaggi, intono canzoni natalizie.

Negli occhi, le lucine color di stella che scelgo di fare scorrere a intermittenza. Nel cuore, i ricordi dei natali antichi, con i miei genitori che preparavano l’alberello sotto cui posizionavano i regali. Ogni anno avevo una bambola nuova, che portavo rigorosamente con me alla Messa di mezzanotte in una sorta di presentazione laica di Gesù Bambino al tempio.  La vigilia la passavamo così, aprendo i pacchi e aspettando il 25.

Il giorno di Natale, mia mamma si alzava presto pe cucinare. Ricordo ancora il rumore della mezzaluna sul tagliere, lo sfrigolio delle verdure tritate sul fuoco e, poco dopo, un delizioso aroma di arrosto che invadeva la mia cameretta. A mezzogiorno mangiavamo, io con tutte le mie bambole (perché nessuna delle “vecchie” doveva ingelosirsi delle nuove arrivate) e mio fratello con il suo Piccolo Chimico o il Meccano (perché all’epoca nei regali dei bambini e delle bambine non era ammessa la promiscuità).

Poco alla volta vicini e parenti suonavano al campanello per una fetta di panettone e lo scambio di auguri.  Io spiavo ogni nuovo arrivato con occhi pieni di ingordigia, pregustando il regalo che sicuramente aveva in serbo per me.

Torno al presente. Canticchio Jingle Bells cercando di posizionare una pecora gigante accanto a un pastorello nano. Ho gli occhi lucidi mentre una dolce malinconia mi pervade.

Bronx e castagne – III racconto d’autunno

Bronx e castagne – III racconto d’autunno

New York, anno 1903

In quell’epoca il cuore di New York si espandeva come le pelvi di una baiadera.
Le grandi immigrazioni di inizio secolo depositavano sciami di miserabili che prendevano il posto di ex-miserabili sino ad occupare anche l’ultimo orifizio della città.
Tra questi vi era Delio Morelli che aveva lasciato la fame ed il freddo dell’Appennino modenese per ritrovarli lì, nel Bronx.
Egli abitava al terzo piano, in un’appartamento occupato da una decina di famiglie stipate in pochi vani, qualche gallina libera e molta muffa che si arrampicava sulle pareti umide.
Delio condivideva una stanza con il figlio, la nuora e la piccola nipotina Aurora.
Quel giorno di ottobre il sole del mattino benediva le facciate degli interminabili caseggiati che rigavano il quartiere.
– Nonno Delio! Nonno Delio! Oggi è il mio compleanno!-
– e brava la mia Aurora – disse Delio sorridendo ed allargando le braccia per accogliere il corpicino magro,  – e quanti anni fai piccola mia?-
– cinque nonno!- disse la bimba allargando le dita della manina;
– ed io ti tiro cinque volte le tue treccine!- disse Delio chiudendo tra le sue grandi mai le piccole ciocche.
– E cosa desideri come regalo?-
– mmhhh, cinque castagne! Quelle buone che si comprano vicino allo zoo!-
Di quando in quando il nonno portava Aurora a passeggiare vicino allo zoo del Bronx ed Aurora si fermava sempre ad annusare l’odore delle castagne che arrostivano sul carretto del Greco.
Anche a Delio piaceva sentire quell’odore che lo riportava sulle vie della domenica al suo paese.
– E castagne avrai!- Disse il nonno stringendo al petto il capo della bambina.
Quella fu l’ultima volta che Delio abbracciò la nipote.
Si alzò dalla sedia sentendo nelle ossa il peso degli anni e dell’umidità.
Calcò in testa la sua coppola per uscire di buon ora alla ricerca di un ingaggio nei grandi cantieri di Manhattan.
Furono molti i cancelli ai quali bussò, furono molte le persone alle quali chiese di lavorare abbassando gli occhi e stringendo tra le mani il berretto da italiano.
Ma quel giorno era troppo vecchio. Troppo vecchio a cinquant’anni. Troppo vecchio per tornare e troppo vecchio per restare in una città di molte promesse e poche certezze.
Sulla via del rientro, poco prima che il buio calasse su una giornata infruttuosa, Delio si ritrovò davanti al carretto delle caldarroste.
– Buona sera Greco-
– Calispera amico-
– Cinque caldarroste e pago domani- disse Delio in quella lingua che era diventata lo slang universale della metropoli
– sei pazzo italiano? Non posso fare credito o perdo il posto. Paghi domani, compri domani.-
Dallo zoo si levò il barrito dell’elefante che salutava l’imbrunire.
Il greco si voltò automaticamente.
Delio non saprebbe ancora dire come e perché, ma si era trovato strette nella mano un pugno di castagne che bruciavano quanto la sua vergogna.
Mai aveva rubato, e mai nessuno nella sua famiglia lo aveva fatto.
Ma il suo fu un gesto istintivo, disperato, senza la colpa della volontà.
Forse il greco non si sarebbe mai accorto del furto, ma il poliziotto irlandese che stava osservando la scena urlò -fermo! Ladro!-
Delio si sentì sprofondare in una dimensione da incubo, ma le sue gambe cercarono comunque di portarlo lontano.
Il cuore no. Il cuore cadde nel silenzio e si portò via Delio Morelli.
Al funerale alcuni italiani che erano presenti al fatto  dissero che Delio spirò in dialetto e le sue ultime parole furono
– ca ghe vegna un cancher ai castagn!- 
Molti si chiesero se fu a causa della maledizione di Delio, ma nella primavera successiva morirono quasi tutti i castagni americani, abbattuti dalla Cryphonectria parasitica, chiamato appunto il cancro dei castagni.
Ad oggi, non si è trovato ancora un rimedio.

HAI SBAGLIATO

“Nonna non lo sai che quando Gesù è nato a Betlemme faceva caldo? E se tu ci vuoi andare adesso puoi farti ancora una vacanza di sole, ce lo ha detto ieri la maestra” mi fa notare la nipotina mentre in piedi sulla sedia osserva attentamente, sopra ad un mobile alto laccato di bianco, l’allestimento del “mio” presepe, lungo quasi due metri completamente sovraffollato di personaggi e di animali.

“Amore, ho sempre saputo che il clima laggiù in Palestina è caldo e temperato” rispondo mentre sto ultimando la sciacquatura dei piatti.

“Allora hai sbagliato. Perché hai messo la statuina dell’arrotino che ha una lunga sciarpa di lana ed il cappello pesante in testa?”  Già, bella domanda, perché?  “Nonna io lo so, lo so io perché.”

“Forse a San Giuseppe poteva serviva un coltello affilato?” domando spiritosamente.

“Ma noooo, nonna non scherzare. Non ti ricordi più che ogni anno, da quando tu ti sei sposata, compri una nuova statuina a dicembre per festeggiare Gesù che nasce?”

Mi fingo oltremodo smemorata: “Brava, adesso lo ricordo: per quest’anno ho acquistato sia un personaggio che due pecorelle.”   “Non devi dirmi quali sono. Non mi spoilerare, ok? Li voglio indovinare io”.

“Spoilerare? Ho capito bene? Non conosco il significato di questa parola, forse volevi dire spolverare?”  asciugo le mani sul grembiule e mi avvicino.

“Nonna non è vero, tu sai troppe parole perché leggi mille libri e scrivi sul computer. Non è vero che non conosci la parola “spoilerare”” mi osserva con uno sguardo penetrante, incredulo. Arriva perfino a sfidarmi bonariamente posando le mani chiuse a pugnetto sui fianchi emettendo un lungo sospiro: é troppo simpatica. Scoppio in una risata fragorosa: “Tesoro, cado dalle nubi, credimi. Consulto il vocabolario, ok?”

“Ma nooo. Noooo. Nonna tu sei del secolo scorso! Devi imparare a usare internet mica il vocabolario! Anzi nooo adesso te lo spiego io: vuole dire che non me lo devi dire.”  “Sei sicura? E’ come dire che non si deve svelare un segreto?” “Forse sì. Però tu allontanati. Sciò sciò” e mi spinge via con la mano.

“Nonnaaaaa!!!” un urlo lacerante mi trapana gli organi dell’udito. Accorro immediatamente. “Che bello nonna, che bello! Hai messo ancora le galline e i maialini che aveva fatto il mio papà con il pongo a scuola quando aveva la mia età. Tu non devi buttarli via nonna. MAI, mai mai mai promettimelo”. Prende tra le mani gli animaletti alquanto scoloriti ed il suo sguardo si riempie di stupore e tenerezza.

“Te lo prometto, anzi, a te lascerò tutto il presepe, contenta?” La stringo forte tra le braccia; lei affonda il nasino nel mio collo e annusando rumorosamente sentenzia: ” Tu nonna hai cambiato profumo”.  

Si stacca dall’abbraccio, mi allontana ancora per andare alla ricerca delle nuove statuine. Scende dalla sedia la  posiziona al centro del mobile e nel risalire sorridendomi grida: “Sono sicura che le scovo da sola”.  

“Nonna vieni, guarda: ho trovato te nonna che porti un vestitino a Gesù e il nonno che fuma la pipa seduto sulla panchina” mi osserva perplessa poi domanda: “Io e mio fratello dove siamo?” “Siete le due nuove pecorelle davanti alla capanna. Posso dirti quali?” “Sì, grazie nonna”. “Tu sei questa che si sta riposando e tuo fratello è quella accanto a te che guarda verso il bue e l’asinello.”

“E il personaggio nuovo?” Stupita domando: ”Era un segreto oppure no?” “Nonna in questo presepe ci sono più di cinquantamila statuine tutte appiccicate e io non lo riesco a vedere.”

“Ok. E’ questo qui: il giovane caldarrostaio”. Me lo toglie dalla mano e commenta “Oh noooo, nonna hai sbagliato un’altra volta”. Scuote il capo sconcertata, scende dalla sedia e, impedendomi di intervenire, decide risolutamente che questo è il momento di farlo sparire all’interno dello scatolone dei “nostri” giochi.

Toh! Ho trovato un pennino

Tòhhh….Ho trovato un pennino

15 ottobre 1940, 18.o fascista, primo anno di guerra, ho sei anni ed è il mio primo giorno di scuola: grembiulino nero, scarponcini nuovi, cappottino di buona lana scampata all’autarchia, in mano una cartellina di cartone pressato che contiene un quaderno a righe di prima (alternate da più alte a meno alte) e l’astuccio di legno con la matita, una gomma di pane e uno spazio destinato al pennino che ancora non c’è.
Ci radunano tutti in cortile, il podestà fa un discorso sull’importanza della scuola, sul futuro dell’Italia che assicura essere e sarà: g l o r i o s o alimentato dalle nostre teste erudite e dal nostro corpo temprato dalla fatica e dallo sport. Per adesso la mia testa grida: “Basta!” E siccome fa anche freddo il mio corpo batte brrrrividi e denti.
Classe 1a!, non si può sbagliare ce n’è una sola che raccoglie i bambini del comune e delle tre frazioni.
Si entra nell’aula nel più religioso silenzio.
La maestra chiama uno ad uno, una sequela di nomi, e assegna un posto ad ognuno:
i più piccoli davanti i più grandi dietro e tra
questi anche i ripetenti.
Niente di familiare, se non la sporta della maestra
con la verdura raccolta nell’orto di buonora.
Il comando squarcia l’aria dell’attesa
– Seduti!
Arrampicarsi fino alla panchetta dei banchi alti e
neri è un’impresa. Io ero più piccola dei
miei compagni.
Niente libri, niente scrittura. Per un mese, forse più, si tracciano aste:
verticali orizzontali e poi si passerà ai cerchietti
e poi quando la maestra ci giudicherà maturi, si
passerà al pennino e all’inchiostro.
E l’inchiostro sarà ovunque, sul banco, sul foglio, sulla bocca perchè è tra le labbra che i bambini si passano il pennino per pulirlo.
Oggi, uscito da chissà quale anfratto della mia casa, me ne sono trovato proprio uno tra le mani. Un pennino vi dico, uno di quei modelli semplici, senza zigrinature, con la sua fessurina ben ritagliata nel punto giusto del dorso. Mi sorprendo e mi sorprende mentre mi conduce a quel passato lontano o a fantasticare su un suo ritorno dal futuro sospinto da sinusoidi cosmiche e, bagnato dal sangue dei sogni, deluso dai mormorii gridati degli amanti, cadere e rimbalzare tra licheni e rocce incise da scriba preistorici.
E mi piace credere che anche Dante avrebbe messo volentieri da parte la penna d’oca. Qua..Qua…Qua…
E non posso trattenere un moto di sentita riconoscenza per questi grassi palmipedi donatori generosi di piume, di fegato grasso e saporito nonché di quelle penne corte o slanciate, che furono per secoli accorto strumento nelle mani di poeti, letterati, giuristi etc.etc.

ADA – II racconto d’autunno

ADA – II RACCONTO D’AUTUNNO

Racconto di Monica Caprari

Con un gesto repentino Ada gettò una foglia dal davanzale.
Poi si affacciò per vederla cadere danzando in una lenta discesa di sei piani.
Giù l’asfalto  era bagnato dalla  pioggia autunnale caduta durante la notte.
Le macchine avanzavano lentamente  provocando uno scalpiccio fastidioso.
Ada guardò il cielo che si era aperto lasciando trapelare freddi raggi di sole.
-Sarebbe una dolce domenica mattina di novembre- pensò Ada-  se non ci fosse tutto questo traffico diretto al centro commerciale in fondo allo strada-.
-Che poi, cosa ci va a fare la gente al centro commerciale?- Si domandò accostando i baveri della vestaglia di paille.
Chiuse le finestre a doppi vetri e tornò a respirare la pace del  suo piccolo e lindo appartamento.
La luce del mattino penetrava lattiginosa  posandosi sulle mensole, che malgrado la meticolosa pulizia parevano ancora impolverate.
Ada  versò una generosa dose di detersivo sulla spugna e prese a passarla qua e là calcando vigorosamente.
-Spreconi e consumatori  bulimici- si diceva pensando ancora ai frequentatori  del centro commerciale.
-fosse per me .. solo kilometro zero.. e niente cadaveri nei piatti!-
George fece capolino dalla camera da letto e balzò sul ripiano della cucina.
Ada si avvicinò per accarezzargli il pelo lucido da soriano castrato.
Oh! come amava gli animali, lei. Proprio ADORAVA gli animali.
Creature in armonia con la natura, pensò chinandosi a prendere una scatoletta per George.
-Tieni la tua pappa buona- gli sussurrò ricevendo un vibrante ringraziamento.
Poi riempì il bollitore e lo mise sul fuoco. Dallo stipo tirò fuori i suoi biscotti preferiti, zenzero cocco e cannella, e  li adagiò cerimoniosamente sopra un piattino in attesa del tè.
D’improvviso il silenzio venne turbato da schiamazzi provenienti dall’appartamento di fianco, abitato suo malgrado da una famigliola alquanto rumorosa.
-Dio, quanto sono insopportabili e grezzi!- si disse.
Si erano trasferiti di recente e Ada aveva avuto modo di conoscerli prendendo l’ascensore.
Si era dovuta fare piccola piccola per far entrare l’ingombrante passeggino recante un guanciuto bambinone di due anni, relativa madre e relativa macchinina giocattolo, praticamente grande quanto la sua vecchia utilitaria.
In quell’occasione Ada aveva comunque cercato di essere amabile
-come ti chiami?- chiese al bambino in sovrappeso che la guardava immusonito.
-Jason- rispose la madre,  pronunciandolo all’italiana tipo Gieson.
Ada alzò un soprracciglio e squadrò   la donna vestita come una stella del pop.
Da quella volta evitava l’ascensore se doveva dividerlo con Lady Gaga e figlio obeso.
Ada tornò alla realtà e notò che la boule del pesciolino rosso aveva l’acqua ormai opalina.
Si  arrampicò sulla sedia per prenderla.
L’aveva messa sulla mensola  in alto per proteggere Albert  dagli attacchi di George.
Mise con cautela la boule nel lavello e fece scorrere poco più di un filo d’acqua.
-Per un ricambio graduale-si era raccomandato il negoziante carceriere dal quale lo aveva salvato e dal quale Ada comprava  i croccantini di George.
Ada sobbalzò nel sentire che i rumori dall’appartamento di fianco aumentavano d’intensità.
-Gieson! non saltare sul divano!- Urlava Jennifer Lopez.
-E basta!-pensò Ada  raccogliendo con cura le briciole sfuggite dal piattino dei biscotti-uno vuole godersi in pace la domenica  e…-
Un tentacolo di pensiero le si allungò sul lunedì, quando avrebbe ripreso il suo lavoro di Back office per una multinazionale farmaceutica.
-Back office- si disse, -il buco del culo degli uffici- Rise della considerazione e della parolaccia liberatoria,
-tutti lo schifano, anche se serve.. per non parlare dei colleghi… fanno i tornei di leccapiedaggine.. falsi come Giuda- e nel pensare questo lo stomaco le si attorcigliava.
Un tonfo fortissimo la scosse.
-Gieson! non lanciare le macchinine contro il muro!-
Ada venne presa da una rabbia isterica.
Poi sgranò gli occhi nel vedere che il pesce rosso galleggiava morto.
Sbadatamente, forse a causa di tutto quel baccano, aveva aperto l’acqua bollente.
Attonita portò le mani al viso.
-GIESON!NON SBATTERE COL TRICICLO CONTRO I MOBILI!-
Un tremore collerico teneva Ada impalata davanti al lavello.
Fu il fischio del bollitore scuoterla.
Un furore cieco le serrava le labbra.
Ada brandì il pesante bollitore.
La sua mano stringeva il manico sino a sbiancarle le nocche.
E corse fuori, con un ghigno che le stravolgeva il volto.
Suonò all’appartamento dei vicini e di rimando la voce della madre urlò –chi è’?-
-A D A-

Monica Caprari

MURI E PONTI – Ti respingo o ti accolgo?

“Muro” cosa mi rappresenta? Qualcosa che mi blocca, mi fa arretrare, mi respinge. Ho vissuto da bambina un’esperienza che potrei definire di muro quando mi è successo un evento traumatico, un tentato abuso, fortunatamente non riuscito, evento che sono corsa a raccontare alla mia mamma che non mi ha creduto. Lei mi ha detto che sicuramente era frutto della mia fantasia. La delusione è stata cocente, è stato un dolore così profondo che mi è rimasto vivo dentro. Mi sono trovata davanti ad un muto respingente, invalicabile e questo momento ha segnato la mia relazione con la persona che doveva essere la più accogliente della mia vita. Un muro che purtroppo non sono mai riuscita ad abbattere
Adesso che sono adulta mi dispiace che questo episodio abbia condizionato così tanto il mio rapporto con mia mamma ma non mi resta che fare pace con lei, che adesso non c’è più, e perdonarla facendo tesoro di questa esperienza per non ripeterla a mia volta con i miei figli, amici, con chiunque attraversi la mia vita.
Incontro un muro, in alcune circostanze, nel mio rapporto d coppia quando per incomprensioni o punti d vista differenti ci chiudiamo entrambi e il muro da piccolo diventa sempre più alto e consistente, allora è difficile abbatterlo, ci vuole molta buona volontà e soprattutto la consapevolezza che la persona è più importante del suo punto d vista, della sua testardaggine, dei suoi limiti Ma nella mia coppia chi comincia per primo ad abbattere il muro? Di solito quello dei due che sta più male e non ce la fa più a reggere il silenzio, l’indifferenza, la lontananza. Allora basta dire scusa e il muro si sgretola magicamente.
Cos’è un “ponte”? Nel mio immaginario è qualcosa che unisce, che congiunge e supera gli ostacoli.
I ponti, i cavalcavia li conosciamo tutti per averli percorsi tante volte ma mi piace parlare non tanto dei ponti fisici quanto d quelli relazionali.
Quando ho costruito un ponte? Mi ricordo il rapporto difficile con una persona amica, piuttosto spigolosa, alla quale bastava poco per adombrarsi e sentirsi offesa. Io più volte con lei ho usato la strategia della lettera, uno scritto nel quale le dicevo i miei sentimenti, le esprimevo affetto e comprensione. Bastavano poche righe per ricevere il suo grazie e sentire che l’ostacolo era superato. Penso anche ai nostri fratelli immigrati verso i quali c’è ancora diffidenza e rifiuto. Credo che anche per me sia difficile lanciare un ponte e superare tutti i pregiudizi, le resistenze, la mancata accoglienza: questo ponte è tutto da costruire non solo per me ma, credo, per tante altre persone. Ammiro molto coloro che salvano in mare, che creano i corridoi umanitari perché queste persone sono davvero costruttori di ponti…..costruttori d solidarietà.
Tutti siamo chiamati ad abbattere muri e costruire ponti! Mettiamocela tutta 😘

Inviato da iPhone

Novembre: ricordi d’infanzia

“Ave Maria gratia plena Dominus tecum…”

Cominciava così il mio avvicinamento alle castagne bollite che ogni anno, il giorno di Ognissanti, si cuocevano nella mia famiglia.

Centocinquanta avemarie per poter mangiare quella prelibatezza ai miei occhi di bambina.

Io mi lamentavo per l’attesa, loro, gli adulti, invece erano molto convinti di quello che stavano facendo.

Intorno alla tavola sedevano otto persone, due famiglie: la mia e quella dei miei zii. Vivevamo insieme.

Io, bambina di circa cinque anni, seduta tra mia mamma e mia zia Anna, incominciavo a rispondere alle avemarie in latino, non so nemmeno come, ripetendo quello che sentivo dire dai grandi.

Nessuno di loro lo aveva studiato, lo avevano imparato in chiesa.

In cucina intanto, in una pentola enorme, cuocevano le castagne e il loro profumo si spargeva per tutta la casa.

Nessuno andava a controllare la pentola: la quantità di acqua e l’intensità del fuoco garantivano, insieme all’esperienza, che tutto sarebbe filato via liscio fino alla fine dei tre rosari.

Nel frattempo io, non so esattamente in quale punto, ma, da quello che ricordo, dopo circa una ventina di avemarie, crollavo sulle ginocchia di mia mamma o di mia zia e venivo risvegliata solo alla fine dell’ultimo requiem aeternam .

Allora cominciava la festa: col cucchiaino scavavo la polpa della metà castagna che mi veniva data e, assaggiandola, mi sembrava la cosa più buona del mondo: più era alta la montagnetta di gusci nel mio piatto e più ero contenta.

Da quella giornata le castagne sparivano dalla nostra tavola e non sarebbero più  ricomparse fino all’anno successivo: è così che nascono gli eventi.

 

Gabriella

Aki e Haru – racconto d’autunno

Aki scostò il pannello di legno e carta di riso per far entrare la luce del mattino.
Sporse il viso tondo e fresco come un petalo di ciliegio per osservare la prima neve cadere e perdersi  nella terra scura del pianoro antistante.
Presto sarebbe arrivato un inverno lungo e freddo.
Gli alberi sui declivi trattenevano le loro foglie colorando il paesaggio d’amaranto, carminio, miele porpora e molti altri colori ancora.
Aki azzardò qualche passo sulla veranda per annusare l’aria  che odorava di montagne.
Poi il suo sguardo abbracciò le cime. I suoi occhi avevano il colore e la forma delle mandorle che crescevano a valle,  nella prefettura di Akita.
Sorrise alla natura, e due  fossette le contornarono la piccola bocca gonfia di vita.
Improvvisamente il vento le portò lo scalpitio di cavalli.
Qualcuno sarebbe presto arrivato,  e mai nessuno si arrampicava sino al pianoro di Kyatzu.
Un artiglio d’ansia le si aggrappò al petto rendendola incapace di muoversi.
-Haru! Haru!- cercò di gridare, ma la voce le si perdeva in gola.
Il suo giovane sposo dormiva sazio nella stanza dei tatami.
-Haru! Haru!- urlò finalmente correndo dentro casa.
-Aki cosa ti succede? Hai di nuovo visto un orso?-
-Haru! Qualcuno sta arrivando- riuscì a dire la piccola Aki accasciandosi sul tatami,  ancora tiepido ed afroso .
La luce del giorno proveniva ancora da est di Kyatzu quando due messi dello Shogun Akaori scesero dai cavalli e fecero risuonare i loro passi sulle assi di faggio della veranda.
-Samurai Haru!- chiamarono gli uomini.
Aki aprì i pannelli ai messi. I suoi occhi scuri rimanevano bassi.
Inchinandosi si scostò per farli entrare.
Haru non si voltò subito e rimase a guardare la stufa sorbendo rumorosamente la calda bevanda di riso.
-Samurai Haru, abbiamo un messaggio da recapitarvi-
Haru finalmente si girò lentamente prendendosi il tempo di osservare i due uomini coperti di pellicce.
Tese la mano per prendere il rotolo che gli veniva offerto dai due messi inginocchiati.
Poi tornò a guardare la stufa e gli uomini lasciarono la soglia di casa porgendo un ultimo inchino.
-Aki, devo partire. Lo shogun mi ha convocato per difendere le terre di Kyushu da un feroce nemico. Il suo nome è Kublai Kahn. Viene dal mare e tra pochi giorni toccherà le nostre coste. Dovrò essere lì per  tempo e partire oggi stesso-
Aki  rimase in silenzio, mentre i suoi occhi seguivano le nodosità del pavimento come se cercassero pezzi di Shogi(1)  sparpagliato ovunque.
Haru le prese le mani e la condusse fuori.
-Aki- disse – guarda questo ciliegio. Oggi le sue foglie sono d’oro. presto cadranno.
Ne colgo due. Una la terrò qui ben riposta nel mio petto,l’altra la conserverai tu.
Queste due foglie non cadranno a terra, e la mia promessa, amata moglie, è di tornare da prima che le nuove gemme di questo ciliegio vedano il mondo.-
Aki guardò il ciliegio poi alzò lo sguardo verso le montagne e,  tra gli alberi,  vide l’orso fermarsi ad osservare  loro due fermi mano nella mano..

(1) antico gioco giapponese simile agli scacchi

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