Ci è piovuta addosso questa minaccia di essere contagiati da questo virus potenzialmente mortale. Anche se la vita quotidiana continua, non posso negare un sorta di paura per me per la mia famiglia
Io più volte mi sono chiesta il senso di questa epidemia e ho trovato una risposta del tutto personale che ha a che fare coi miei valori e col mio credo. Il Signore attraverso questa prova universale forse vuole dirci che il padrone della vita è Lui, solo Lui e se noi uomini continuiamo ad ignorarlo vuole scuoterci, farci piegare le ginocchia ed implorarlo.
TEMPO DIFFICILE
Si, questo tempo che stiamo vivendo è difficile perché stravolge le nostre abitudini, ci impone delle regole, limita le nostre relazioni.
Ma, mi chiedo, cosa ci porta di buono? Io credo che la dolorosa situazione provocata dal coronavirus abbia evidenziato la grande solidarietà e generosità del personale sanitario, dei volontari di varie appartenenze, della Protezione Civile ed altro. Credo anche che noi uomini, nella maggior parte dei casi, siamo un po’ individualisti, guardiamo alle apparenze e siamo portati a giudicare. Spero che questa durissima prova ci indurrà a guardarci con più amorevolezza e tolleranza, inoltre penso che dover rispettare le regole ci abituerà a rispettarci di più l’un l’altro. Insomma ci cambierà in meglio e mi auguro che impareremo finalmente a capire che la vita non è solo nelle nostre mani ma che dipende anche dal nostro Creatore che, ferma restando la libertà che ha scelto di lasciarci, vuole riportare l’umanità a Sé, ci corregge e ci educa attraverso gli eventi. Lui, che è Amore, non vuole perderci ma riportarci sulla strada della Salvezza. Mi scuso con chi non crede ma mi auguro che alla fine di questa tragedia molti cominceranno o continueranno a pregare Dio Padre. A presto rivederci quando tutto sarà finito ❤️❤️❤️
“Chiunque abbia la mia età ricorda bene dove si trovava e cosa stava facendo nel preciso momento in cui, per la prima volta, sentì parlare della gara. Io ero seduto nel mio nascondiglio e guardavo i cartoni animati quando il notiziario fece irruzione sullo schermo annunciando che…”
… tutti i bambini al di sotto dei 10 anni erano invitati a partecipare a una sfida mondiale di test in cinque ambiti (maturità culturale, psicologica, emotiva, musicale, motoria) che avrebbe premiato il bambino o la bambina vincente con un viaggio di un mese per quattro persone, tutto compreso, che toccava i cinque continenti e impiegava cinque diversi mezzi di trasporto. Per partecipare era sufficiente iscriversi presso la propria scuola e versare una quota minima (se non erro erano mille lire, a quei tempi l’equivalente della mia paghetta settimanale).
A cena raccontai ai miei genitori del concorso mondiale, senza particolare interesse. Mia mamma invece, sempre pronta al gioco e alle sfide, mi incitò a partecipare: “Perché no?” mi disse “se gareggiano i tuoi compagni di classe, puoi partecipare anche tu”. Il ragionamento non faceva una grinza, così decisi di provare.
Nel corso delle cinque settimane successive la maestra ci somministrò i test, coordinati a livello centrale da un comitato organizzativo internazionale costituito da rappresentanti delle cinque discipline. Erano in ordine crescente di difficoltà. Gli ultimi furono complicatissimi e sicuramente i miei compagni ed io imparammo molte cose che altrimenti non avremmo mai neanche sognato.
Una volta completati, passarono diverse settimane. A quei tempi non esisteva Internet e non c’erano aggiornamenti sulle fasi di scrutinio. Un certo giorno, sentimmo l’annuncio alla radio e poi alla televisione, dissero che la selezione era conclusa e che il bambino o la bambina vincente avrebbe ricevuto la convocazione via telegramma per partecipare all’evento di premiazione, trasmesso in mondovisione sul canale 1 della RAI.
Nella mia classe c’era molta eccitazione. Il brusio dei bambini serpeggiava sottile finché la maestra non imponeva il silenzio, ma alla minima occasione riprendeva. Furono giorni di grande, elettrica tensione. Tutti volevano partire per l’avventuroso viaggio con la propria famiglia, tutti sognavano Paesi esotici, spiagge paradisiache, montagne con panorami mozzafiato, la giungla inesplorata, gli orsi polari, le renne, i pinguini, le rapide dei fiumi in canoa… Io non mi soffermai troppo sul pensiero, certa che sicuramente c’erano bambini intelligentissimi, molto più dotati di me.
Quando tornai a casa, mia mamma – che a quei tempi, fantasiosa com’era, metteva la posta per me in un cestino appeso con un elastico a 2,5 metri dal soffitto, con un pon-pon a mo’ di appiglio sotto, mi avvisò che c’era posta per me. In camera mia vidi una busta gialla nel cestino appeso. Quando l’aprii c’era un fac-simile di un telegramma: con dicitura ufficiale e burocratese una non meglio specificata “autorità mondiale penta-costituita” mi informava che no, per questa volta non avevo vinto, ma premiava la mia partecipazione e la mia buona volontà con un piccolo anellino con pietruzza colorata rossa e due cuoricini. Firmato: Mamma e Papà.
Corsi fuori ad abbracciare i miei genitori per la gioia e la sorpresa e da allora partecipai sempre con grande entusiasmo a tutti i concorsi possibili e immaginabili.
Ne vinsi diversi, di vario tipo.
P.S.
Arrivò primo un bambino cinese di 5 anni che risolveva difficilissimi problemi di matematica a mente, aveva per genitori due professori universitari (musica e ingegneria), una famiglia poliglotta con oltre 5 lingue rappresentate e che parlava correntemente il mandarino, l’inglese, il francese e il suo dialetto locale, suonava il violino e stava cominciando lo studio del pianoforte.
PENSIERI
Come è bello e nel contempo duro vedere il mondo che cammina, corre, svolge le mansioni che la vita quotidiana richiede. È bello e penso “come vorrei fare come gli uomini, le donne e anche molti anziani che sono in grado di muoversi….” dico questo perché da circa due anni io ho difficoltà deambulatorie accompagnate da dolori piuttosto intensi Se tutto finisse qui, nella fatica e nella sofferenza, pur facendo tutte le terapie possibili, sconforto e scoraggiamento prenderebbero il sopravvento.
Però io credo in Dio e con tutto il cuore voglio affidare a Lui la mia vita, la mia famiglia, la mia salute……ecco che si apre una prospettiva nuova perché affidarsi a Dio significa anche aderire alla Sua volontà A volte il Signore chiede il nostro SI, la nostra piena fiducia in Lui e poi ci toglie la prova come è successo ad Abramo quando Dio gli ha chiesto di sacrificare Isacco, il suo figlio unico. Dio ha messo alla prova questo gigante della fede ma poi è intervenuto e ha salvato Isacco dalla morte.
Allora con piena fiducia nel Signore che mi ama immensamente, offro le mie sofferenze mentre credo fermamente nella Sua infinita misericordia: a Lui tutto è possibile!!!! Amen
Io sono Eva
Mi chiamo Eva e ho compiuto circa 6000 anni biblici. Gli anni reali non li so, è passato così tanto tempo da fare sfumare i ricordi. Ricordo bene però di essere nata nel giardino dell’Eden. Era un gran posto, verde ed ubertoso, racchiuso fra i fiumi Tigre ed Eufrate. Faceva sempre molto caldo, il che era gradito data la nostra propensione a girare come Dio ci aveva fatti. Scordatevi che fossi bionda e bianca come il latte come solitamente mi dipingono: a quei tempi non avevano ancora inventato le creme solari, quindi ero di un bel colorino brunito. Ad Adamo però piacevo così com’ero, e anche tanto. Non è che avesse poi tutta quella scelta, dato che al tempo esistevamo solo noi. A volte forse si fa di necessità virtù.
Siamo cresciuti insieme come fratello e sorella. Ogni cosa ci stupiva, ogni giorno salutava una nostra prima volta. Sono stati gli anni migliori, quelli dell’innocenza. Dio ci ha fatto da padre e da madre. Scordatevi l’immagine del Creatore come quella di un vecchio dalla barba bianca: Dio è maschio e femmina, lo ha detto anche un Papa.
D’altronde se usate un po’ di logica ci potete arrivare anche da soli: all’inizio dell’adolescenza una donna diventa signorina, che è un modo elegante per dire che le è arrivato il primo mestruo con tutti i gli annessi e connessi. Chi è a spiegare alla bambina tutto ciò che c’è da sapere sull’argomento? Naturalmente è la mamma! I papà in genere si trincerano dietro a un semplicistico “sono cose da femmine”.
A spiegarmi tutto sul ciclo è stato quindi Dio madre, compresa la raccomandazione, dato che la pillola non era stata ancora inventata, di starci molto attenta.
Io sono la donna dei record, quella che ha aperto la strada a tutto ciò che è successo dopo al genere femminile. Fra le varie cose, sono stata la prima ad affrontare un matrimonio combinato. Non che per dirla tutta mi fosse poi dispiaciuto. D’altro canto non avevo molta scelta e, come ho già precisato, si fa di necessità virtù.
Eravamo giovanissimi e ancora molto ingenui. Soprattutto Adamo, perché si sa che le femmine sviluppano prima mentre i maschi a volte non sviluppano proprio mai. Due adolescenti a cui i genitori non avevano vietato quasi nulla, tranne quella regola così assurda di non mangiare una mela. Si sa che il frutto proibito fa gola a tutti. Noi non facevamo che pensarci, Adamo per primo, lo giuro. Però, essendo immaturo e anche un po’ vigliacco, quando siamo stati scoperti a mangiare lui ha scaricato tutta la colpa su di me.
Il resto è storia. È la comoda scusa utilizzata da tutti gli uomini per relegarci al ruolo di comprimarie, concubine, subalterne, vittime predestinate al ruolo di messaline o vergini, a partorire nel dolore per espiare la colpa.
Ma svegliatevi un po’ su, figlie mie: io ho partorito nel dolore solo perché all’epoca l’epidurale non era stata ancora inventata. Dio non è così crudele e, delle donne, ha sempre avuto il massimo rispetto. Tanto è vero che ha concesso proprio a noi il dono più grande: essere al suo pari, creatrici di nuova vita.
Un ruolo esclusivo che Adamo e i suoi figli, in fondo, non ci hanno mai perdonato. Il primo torto che hanno fatto a una donna, a me, è stata proprio l’accusa della tentazione. Una colpa, la maternità, che ci hanno fatto espiare fin dall’inizio: tutti conoscete i nomi dei figli di Adamo ed Eva: Caino, Abele e Set. Ma naturalmente hanno avuto delle sorelle, a cui è stato tramandato il dono di creare la vita. Chi si ricorda di loro? Nessuno. Sparite dalla storia che conta fin dall’inizio dei tempi.
Quanta strada abbiamo dovuto percorrere prima che sorgessimo dal torpore, prima che trovassimo la forza e il coraggio di riappropriarci della nostra identità.
Per questo oggi sono qui, in mezzo a voi, per ricordarvi chi sono. Non dimenticatelo mai quando parlate di me, prima di nominare il mio nome invano: io sono Eva, sono vostra madre, vostra sorella, vostra figlia, la vostra sposa. Io sono una donna.
SOLITUDINE???
Mi dico che non ha senso per una persona che vive la fede e per la quale il rapporto con Dio è fondamentale dire “mi sento sola”. Eppure quando certe sofferenze sono quasi insostenibili, certi dolori sono accompagnati da paura e smarrimento, sento che non posso comunicare fino in fondo ad altri il mio malessere e mi dico “sono sola”.
Ma non posso fermarmi lì e piangermi addosso, pregando fra le lacrime, trovo un senso a tutto quello che mi fa stare male perché il Dio dell’impossibile mi consola, mi infonde la speranza che avevo perso per strada e mi suggerisce possibili soluzioni che non vedevo. Io lo so che il Signore è sempre presente nella mia vita e che, se mi mette alla prova, è per farmi riflettere sulla mia fiducia in Lui, sulla speranza che non deve mai venire meno e sulla certezza che dopo questa vita, che è un soffio, ce n’è un’altra al pensiero della quale la mente si perde nel mistero, ma che è la vera vita che ci aspetta.
Allora mi posso sentire sola in mezzo a tanti, anche persone care, ma non c’è più solitudine quando prego il Dio che mi ama da sempre e che da sempre vuole solo il mio bene.
Carla
10 febbraio 2020
Rosso Corallo
Oggi inauguro un nuovo elegante tailleur color corallo indossandolo per la prima volta; è bello davvero e mi cade perfettamente. Ho abbinato una camicetta bianca ed un paio di scarpe, dal tacco medio alto, colore blu cielo sulla cui punta è inserita una sottile striscia obliqua che richiama la tonalità dell’abito. Una spilla color oro, identica a quelle “da balia” ma più lunga, chiude la gonna a portafoglio a metà coscia, è decorativa senza dubbio ma serve a tenere fermo il lembo di stoffa asimmetrica sovrapposta.
Look perfetto per una ghiotta occasione: un “pranzo premio” che oggi viene offerto dal Presidente della Società multiservizi, per la quale mi prodigo da oltre dieci anni, ad alcuni responsabili dei vari Uffici, di cui faccio parte. La nostra gradita presenza è prevista per le ore 13.00 in un raffinato ristorante di Via Senato; nostro compito sarà fungere da grazioso corollario ad un personaggio Vip – fratello di un personaggio pubblico extra Vip – che sta per arrivare in compagnia del suo fotografo personale, dicono.
Gli Uffici della nostra prestigiosa Azienda si trovano in Centro Città, ubicati all’interno di un grande palazzo d’epoca, distribuiti su tre piani ospitano un organico di duecento unità. La felice posizione dell’edificio è molto invidiabile, ideale per me al punto che lo stress da pendolarismo, la stanchezza quotidiana e il peso delle responsabilità vengono alleggeriti dal fascino irresistibile che esercita questo inimitabile cuore pulsante della Metropoli.
Le ore tredici sono trascorse da diversi minuti ed io sto consumando una dose di nicotina, accompagnata dal quinto caffè della mattina, quando vengo convocata in Direzione: qui la “mega segretaria”, con eccessiva serietà e studiata compostezza, comunica ai premiati che il pranzo deve essere posticipato ad altra data: l’ospite atteso si è scusato ma urgentissimi impegni lo reclamano altrove. Senza commentare sorridiamo facendo “buon viso a cattivo gioco”. Alcuni di noi optano per un salto al Burger King, altri alla tavola calda; decido di tornare nel mio ufficio dove ad attendermi trovo un nuovo carico di fascicoli di pratiche da svolgere. Il mio senso del dovere ha la priorità, il lavoro verrà scrupolosamente terminato entro oggi con la collaborazione della collega Mimma, dirimpettaia di scrivania, rientrata or ora dal suo solito pranzo fugace.
Lei, ottima segretaria, giovane signora che da sempre mi lavora accanto e di cui sono particolarmente buona amica, trovandosi in sovrappeso tenta di seguire una sempre più moderna “dieta dimagrante”, io, non più giovane, magrissima in taglia 38, rinuncio a seguire quella “ingrassante” insensibile all’idea di eliminare il disdicevole cocktail a base di caffeina e nicotina che compone il mio limitato menù. Trascorro ulteriori tre ore immersa nelle carte e impegnata al telefono prima che il mio organismo dia voce ad una legittima protesta: Mimma si offre di scendere al “bar di sotto” per prendermi del cibo ed un caffè.
Scostata la sedia dalla scrivania, divaricate per benino le gambe, reggendo con la punta delle dita di entrambe le mani un untuoso tramezzino che sgocciola, spingo il busto in avanti chinandomi leggermente. Lo strato del panno della gonna soprapposto si apre creando un bizzarro, poco signorile, “effetto scopertura”.
Nell’attimo esatto in cui addento il primissimo boccone, qualcuno spalanca di botto la porta alla mia sinistra, facendoci sussultare. Vediamo spuntare una testa maschile che sporgendosi in avanti getta sguardi indagatori di qua e di là. Poi segue un corpo che entrando si protende direttamente verso il mio …tramezzino. Sollevato a malapena lo sguardo, il volto ormai color del corallo, riconosco immediatamente l’uomo che è entrato, mi ha guardata ed ha sorriso divertito scuotendo il capo. “Buon appetito!, signora…?”
“Elvira” risponde prontamente Mimma sorridendogli bonariamente, ammiccando nella mia direzione e sforzandosi di non far scoppiare la sua, rumorosa, irresistibile risata.
“Tranquilla, la prego. Continui pure tranquilla. Scusate il disturbo, vado cercando il Dr. F.”
L’improvvisato ospite scoppia a ridere e prima di allontanarsi mi gratifica con una divertita strizzatina d’occhio; dalla soglia ci saluta con la mano, si scusa nuovamente e coglie l’occasione per tornare ad osservarmi, ma non in volto.
Fulminandola con uno sguardo abrasivo, posando il dito indice in verticale sulle mie labbra chiuse, proibisco a Mimma di proferire parola; poi, con desolazione, osservo le macchie di unto che hanno battezzato il mio nuovissimo tailleur rosso corallo che, – sono pronta a scommetterlo – , a lungo conserverà l’incantevole ricordo dell’incontro con un Vip.
Precisazioni dovute: Correva l’anno 1993; il ristorante da Alfio ha chiuso definivamente nel 1997; gli Uffici della “mia” Società nell’anno 2002 si sono trasferiti lontano dal Centro Città.
10 febbraio 2020
Ho trascorso un mese a Piancavallo
Da molti anni ho vissuto un disagio nel rapporto col cibo. Ho fatto numerosi percorsi senza risultati ma finalmente è arrivata un’opportunità che sentivo di poter affrontare nonostante comportasse un mese intero fuori casa. La motivazione ad uscire dallo stallo nel quale mi trovavo era forte e non era tanto quella di lavorare sul disturbo alimentare quanto piuttosto la consapevolezza che se non mi fossi decisa ad affrontare il problema, la mia situazione generale, muscolare, tendinea ed altro, era ad alto rischio.
Ho presentato la domanda a Piancavallo e quando mi hanno chiamata, pur con fatica, sono partita. La prima settimana sono stati vicini a me, in una pensione, mio marito e mia figlia Benedetta. Questo ha favorito il mio inserimento ma poi sono rimasto da sola.
Posso dire di essermi scoperta diversa, una persona socievole e desiderosa di condividere con le altre pazienti la mia storia. Ho anche recuperato l’abitudine che avevo completamente persa, di pranzare a mezzogiorno. Con le persone che vivevano come me il ricovero, ho legato al punto che abbiamo creato un gruppo whatsapp e tuttora siamo in contatto amicale e di sostegno reciproco. Mi sono stupita di me nel senso che non pensavo d stare così bene con gli altri. Certo mi mancava la mia Betta ma avevo più tempo per me, mi riposavo, ascoltavo le mie nuove amiche, giocavo a carte.
Insomma una bella esperienza. Adesso devo continuare ad alimentarmi meglio e devo accettare l’aumento inevitabile di peso e una fisicità un pò diversa ma so che con l’aiuto di tanti che mi offrono amicizia, ce la faro’. Fra i tanti ci siete anche voi!!!!!! Ci conto…..
Carla
Stalker
Anna lo conobbe un’estate mentre faceva una ciclo-vacanza in solitaria in Devon e Cornovaglia, Inghilterra sudorientale: coste frastagliate a picco sul mare, un vento che ti sferzava la faccia, un sole che sembrava di essere alle Maldive. Infatti, quando tornò, dopo una settimana di pedalate su e giù per le colline e i boschetti con top e pantaloni da ciclista, le colleghe le chiesero in quale isola tropicale aveva ottenuto quell’abbronzatura invidiabile. Nemmeno una goccia di pioggia in una settimana! In Inghilterra!
Ma stiamo divagando. Anna lo conobbe in un ostello della gioventù dove si era fermata una sera che non aveva trovato ospitalità in una fattoria come faceva di solito sul calar della sera. Lui lavorava come inserviente. Era inglese, disse di chiamarsi Philip. Le raccontò di aver venduto tutto dopo il divorzio, casa, auto e quant’altro, di essersi licenziato ed essere partito per una lunga vacanza intorno al mondo. Nei Paesi del nordeuropa si usa così. Forse un retaggio del Grand Tour rinascimentale.
Philip fu squisitamente gentile, si fermò a parlare con lei e aveva un accento elegante. Non era bello, ma lei era sempre stata affascinata più dall’intelletto che dall’apparenza. Rimasero a parlare dopo cena finché lui la invitò nella sua camera. Si intendevano a meraviglia, ma Anna rimase comunque sorpresa quando lui le propose di fermarsi a dormire lì. Sulle prime lei la prese come un’offerta cameratesca, per continuare la conversazione che scorreva così bene nonostante l’ora; solo quando lui si stupì, mentre preparavano il letto, che lei non volesse dormire con lui, capì le sue vere intenzioni.
Di quella notte ora, dopo più di 20 anni, ha un ricordo vago, ma della mattina successiva si ricorda benissimo: quando lei si svegliò, lui non c’era più, aveva iniziato il suo turno di lavoro. C’era però un vassoio con la colazione e una rosa, e un bigliettino gentile. Le si arricciarono gli alluci dal piacere. Prima di partire, Anna gli scrisse una lunga lettera descrivendo quanto era stata contenta con lui quei giorni
Quando Anna tornò nella cittadina vicino a Londra dove lavorava, cominciarono a scriversi. Dopo qualche settimana, lui annunciò una visita. Anna si rallegrò. Cominciarono a frequentarsi. Una volta lasciato quel lavoro temporaneo all’ostello, Philip si era trasferito nelle vicinanze di Anna e trovò ben presto un altro lavoro saltuario per mantenersi. Nella sua vita precedente aveva detto di aver lavorato in banca, ora scriveva per la BBC. Cose molto divertenti per spettacoli assai noti, ma che lei, essendo straniera, non conosceva. Ogni tanto lui le leggeva degli stralci, che lei regolarmente non capiva a causa dei numerosi doppi sensi, che ancora le sfuggivano in inglese.
Si frequentarono per alcuni mesi, Anna apprezzava il suo intelletto, la sua proprietà di linguaggio, i complimenti che lui non mancava di farle, ma il suo cuore non volava. C’erano delle stranezze in lui: aveva la mania di lavarsi. Si era rasato tutti i peli del corpo, per essere più pulito, diceva. Si lavava in continuazione, per di più con un sapone di cui ad Anna non piaceva l’odore (Palmolive). Lui si stupì molto quando lei glielo disse.
Ogni tanto avevano piccole discussioni, mai molto animate comunque.
Un giorno che si trovarono dopo il lavoro di Anna – lui l’aveva vista per strada – lui le rivelò di averla vista mentre scrutava il proprio riflesso in una vetrina, passeggiando. Anna ammise la sua civetteria, disse di non essere mai soddisfatta, di essere insaziabile di complimenti, per Philip sembrava essere una colpa grave.
A casa ebbero una discussione su piccolezze, come lavare i piatti e cose del genere. Di colpo lui le mise le mani attorno al collo e cominciò a stringere. Non per soffocarla, solo per farla spaventare. Lei si divincolò e corse in un’altra stanza. Non esistevano ancora i cellulari.
Quando sentì che se n’era andato, chiamò la polizia. Arrivarono due agenti, un uomo e una donna.
Philip prima di andarsene aveva fatto un grande mucchio al centro della stanza con tutti i vestiti di lei, tutti accatastati uno sull’altro.
Gli agenti dissero che per motivi di privacy non potevano rivelarle eventuali precedenti penali dell’uomo. Anna era costernata. Magari aveva a che fare con un maniaco sessuale, un serial killer, uno psicopatico, e lei non aveva diritto di sapere se aveva fatto del male ad altre donne.
Per alcuni giorni non lo sentì più, poi arrivò una cartolina di Philip in cui annunciava che stava partendo “per pascoli nuovi”, lontano. Anna tirò un sospiro di sollievo.
Salvataggio
Cala la sera ed io mi rallegro al pensiero del divano e del mio nuovo libro. Trilla il cellulare, è Silvia. Mi dice che sente piangere da ore un gattino, in un campo recintato e inaccessibile. Dice che ha suonato ai vicini, ma è una strada di brutte persone, si disinteressano e sono stati sgarbati con lei. Quando tace sento un gattino neonato piangere in sottofondo. Tutti i miei sensori materni si attivano all’istante. Afferro una manciata di croccantini, un trasportino e degli stracci e mi precipito.
10 minuti dopo sto parcheggiando in una stradina sterrata. Raggiungo la mia amica d’infanzia sulla via principale del paese: Silvia è in piedi accanto alla sua bicicletta, appoggiata alla recinzione alta 1,80 mt. Dei cani feroci abbaiano agitati.
Dall’altra parte della rete, nel campo incolto, un uomo si muove bofonchiando frasi incomprensibili. Cerchiamo di perorare la causa del gattino, ma lui niente, non ci vuole far entrare nella sua proprietà.
Noi non ci muoviamo, anzi, appena passano due ragazze giovani io le fermo e chiedo se hanno sentito piangere un gattino in quella zona. Vedo dai loro occhi che anche i loro sensori si sono attivati immediatamente.
Riproviamo a convincere l’uomo a dare un’occhiata sotto l’albero al centro del campo, dove l’erba è alta mezzo metro e ci sono diversi arbusti aggrovigliati. Niente da fare, se ne va. I cani si agitano ancora di più.
Valutiamo il da farsi. I vigili non rispondono, già provato. Io mi ripropongo di chiamare il Sindaco, eventualmente i pompieri. Si potrebbe provare anche con il proprietario ufficiale del campo, un agricoltore che abita nella cascina di fronte, e che io conosco di vista da molti anni.
Silvia mi racconta che la santa del giorno è Santa Pelagia, che nome curioso.
L’uomo torna con un badile e una torcia. Vuole cercare il gatto in mezzo all’erba alta col badile? Silvia ed io ci guardiamo e leggiamo la stessa incredulità l’una negli occhi dell’altra. Darà una badilata al gatto, casomai lo trovasse!
Io riprovo a parlare con l’uomo, suggerendo che, se ci fa entrare, in tre è tutto più facile: uno tiene la torcia e gli altri due cercano. Non se ne parla, nella sua proprietà lui non fa entrare nessuno. Dobbiamo sembrare due temibili terroriste, io con la mia giacca di pile bianco, borsetta e scarpe abbinate, Silvia in T-shirt e pantaloni estivi.
Succede un miracolo, l’uomo ci fa entrare. I cani sentono il nostro odore e ci vogliono fare la festa. Chiediamo rassicurazioni, l’uomo li chiude in una parte del cortile separata dal campo.
In tre cerchiamo, al buio, con una sola torcia. Silvia cerca da sola, io tengo la torcia e l’uomo col badile abbassa l’erba alta per guardare se vi si nasconde un gatto. Col badile. Penso che in quel modo non lo troveremo mai.
Se io fossi un gattino piccolo e indifeso, dove mi nasconderei? Mi avvicino all’albero e scosto gli arbusti attorno al tronco, sollevo le liane che lo avviluppano, frugo tra le foglie secche. Improvvisamente, vedo un sederino peloso con attaccata una coda: l’ho trovato. Quasi non ci credo. Lo annuncio a tutti. E’ grigio e morbido. Lo sollevo decisa da sotto la pancia e me lo metto vicino al petto. E’ minuscolo, piange. Non sembra ferito, appare in buone condizioni. Presa dall’euforia, dò un bacio all’uomo che ci ha permesso di salvare il gattino, dico alla mia amica di imitarmi, ma vedo che lei rimane rigida. L’uomo puzza di alcol.
Ora non voglio altro che portare in salvo il gattino. Vedo che nel cortiletto i cani si sono liberati. Anche Silvia li vede e lo dice a voce alta, sento allarme nella sua voce. Sono due pitbull. Meno male che c’è un cancello che ci divide da loro. L’uomo si avvia a chiuderli nuovamente. Mentre sgattaioliamo via, chiedo all’uomo come si chiama. “Marino”, dice. Silvia gli annuncia che il gatto si chiamerà come lui.
Un tacito accordo ha sancito che terrò io il gattino o la gattina. Per prima cosa lo faccio visitare da un veterinario, poi penserò a nutrirlo. Chissà da quanto tempo non mangia, dei vicini interpellati da Silvia hanno detto di averlo sentito piangere già il giorno prima (“e non siete usciti a vedere? Bastardi!”).
Il gattino è talmente piccolo che mi fa tristezza metterlo nel trasportino, immenso per lui. Non ho avuto il tempo di pulire il trasportino prima di uscire. Mi tengo il gattino in grembo mentre guido, avvolto in un golfino scuro da cui spunta solo la testolina. Si muove a stento.
L’assistente della veterinaria mi dice che il gattino non ha nemmeno un mese ma è in buone condizioni e ha mangiato. Non dice che è poco reattivo, ma lo vedo da me. E’ troppo spaventato. E’ una femmina. Si chiamerà Marina Pelagia.
I giorni successivi mi trasformo in neomamma. Scaldo omogeneizzati che somministro sulla punta dei polpastrelli, perché così gradisce Marina, me la porto a letto per dormire (e il mattino dopo mi rendo conto di avere i capelli pieni di pulci), le preparo il cestino con la borsa di acqua calda e degli stracci di lana, perché il veterinario ha detto di tenerla al caldo.
Dopo 24 ore non ha ancora urinato né defecato, il veterinario, interpellato, mi tranquillizza dicendo che ci possono volere fino a 48 ore.
48 ore? Ma non va in blocco renale?
Durante la notte fa tutto quello che deve fare.
Il giorno dopo capisco dai suoi lamenti mentre urina che ha la cistite. Ritelefono al veterinario che la vuole vedere.
Rivedo la veterinaria che conoscevo 25 anni fa: è invecchiata bene, più sicura di sè, ma sempre carina nei modi e nella voce come allora.
Imparo la stretta freeze con cui mamma gatta prende i gattini dalla collottola, imparo a nutrire la mia gattina con la siringa senza ago e pure con un sondino masticabile che arriva fino allo stomaco. E’ più facile di quanto pensassi.
Marina protesta vigorosamente quando viene sottoposta all’ecografia: il gel sul pancino è freddo e il dispositivo preme in modo insopportabile contro le pareti irritate della vescica.
Durante l’iniezione dell’antibiotico esco, ormai ho imparato che non sopporto veder soffrire i miei animali, nessun animale. Una volta sono anche svenuta.
La veterinaria dice che Marina ha il carattere di una matriarca. Presto metterà in riga le mie altre due micie, ben più vecchie e ben più grosse.
La storia si ripete. Anche Michelle, arrivata da noi all’età di due mesi, ha messo in pista Susie e fino ad ora era lei, la più giovane, a comandare.
Gradualmente lascio che le mie due micie grandi capiscano che c’è qualcun altro nella mia camera da letto. Sbirciano incuriosite, soffiano, ma sostanzialmente ignorano la nuova arrivata.
Susie è offesa che ci sia un altro gatto nella mia vita e non viene più a trovarmi a letto, non si stende più sulle mie gambe, se ne sta dignitosamente in disparte sul divano del soggiorno, come se la cosa non la riguardasse.
Passano i mesi. Ora Marina è una preadolescente (5 mesi). Da 500 grammi è passata a 2,5 kg, ha fatto tutte le vaccinazioni ed è in lista per l’operazione di sterilizzazione. Su e Ma giocano insieme e si leccano a vicenda, Michelle ha ancora qualche perplessità gerarchica.
Io dormo (poco) con le mie tre figlie pelose e vengo svegliata da bacini baffuti.