Mi chiamo Lucilla, la dottoressa Lucilla Torregiani, e oggi posso affermare di avere conquistato il lavoro dei miei sogni.
Il mio percorso non è stato semplice e ho dovuto combattere per ogni piccolo passo in avanti. Ho iniziato a lavorare con un diploma di segretaria d’azienda, seguendo il consiglio dei miei genitori. “Come donna – dicevano – scegli una professione che non ti impegni troppo tempo. Metti da parte qualche soldo per la dote e poi, quando ti sposerai, potrai stare a casa e badare alla tua famiglia a tempo pieno.
Così, da brava figlia, appena finite le superiori trovai un impiego come segretaria presso un’importante agenzia di comunicazioni. Com’era diversa la vita in quegli uffici da come l’avevo sempre immaginata! Con l’esperienza maturavo sempre più idee e soluzioni da proporre, ma chi voleva ascoltare un’umile segretaria?
Eppure non mi sentivo inferiore a loro, ero sempre più consapevole della qualità delle mie idee e della ricchezza delle mie esperienze. Così mi sono iscritta a Scienze della comunicazione. Lavorare e frequentare l’Università è stata dura ma ce l’ho fatta.
Con l’accrescere delle mie potenzialità quell’ambiente lavorativo mi stava sempre più stretto, così ho fatto il grande salto ed ho aperto una mia agenzia.
Che fossi brava lo sapevo già, velocemente lo hanno capito anche all’esterno e il lavoro ha cominciato a girare bene. Così ho espanso l’attività ed ho assunto nuovo personale. Tutte donne naturalmente, tranne il nostro segretario che si chiama Mario ed è davvero un bel ragazzo, perché in fondo anche l’occhio vuole la sua parte.
Oggi entrando in ufficio sono stata fermata da un cliente che mi ha chiesto: “Signorina, posso parlare con il titolare?”
Con che soddisfazione gli ho risposto: “Sono la dottoressa Torregiani, la titolare. Fissi un appuntamento con Mario, il mio segretario”.
Dovrò per la mia carriera rinunciare a farmi una famiglia? Assolutamente no: se gli uomini non devono scegliere, perché dovrei farlo io?
Per la mia vita ho scelto il pacchetto completo.
Un assegno in bianco
UN ASSEGNO IN BIANCO
Credo che nessuno d noi, con leggerezza, firmerebbe un assegno in bianco perché è un rischio, comporta una grande fiducia e sarebbe necessario sapere che uso potrebbe venirne fatto
Ma allora per chi vale la pena d firmare un assegno dove la cifra nn è definita? Personalmente ho avuto un flash e mi sono detta che l’Unico , il Solo per il quale mi sento d rischiare è LUI, il mio Creatore Ma questo cosa vuol dire? Vuol dire che ogni giorno scelgo d rinnovare il mio affidamento a Lui, il
Mio Signore e questo è proprio come “firmare un assegno in bianco”
A volte, quando la fiducia vacilla, mi chiedo se sia la cosa giusta ma poi mi dico : chi se nn Lui, l’Onnipotente, merita che io mi fidi totalmente e che nonostante i pianti, gli scoraggiamenti, le fatiche, io continui a sperare, a credere e a nn coltivare dubbi Ecco per Chi, ogni giorno, mi sento d firmare “un assegno in bianco”.
Lui ha firmato per tutti là, sulla croce, e nn ha esitato a dare la Sua vita per salvare tutti e ciascuno dei Suoi figli
Ho visto un cielo così terso…
Ieri sera ho visto un cielo così terso, pulito e luminoso… che anche la luna sembrava più luminosa che mai. Se forse apparsa una cometa non mi sarei meravigliata.
La costellazione di Orione era quasi allo zenit ed era visibile con tutte le sue stelle brillanti.
Ho voluto leggervi un segno positivo ….il segno che alle soglie del nuovo anno porterà la fine di questo periodo buio che ci ha allontanato dagli affetti, dalle abitudini, dagli abbracci.
Voglio crederci per me, per chi è nella difficoltà di riprendersi in mano la propria vita e per chi ha perduto affetti.
C’è un grande silenzio mentre scrivo queste righe. Si sta facendo sera e le luci del Natale appena trascorso si sono accese qua e là.
Vorrei trattenere l’atmosfera che fa di questa festa una delle più belle del nostro calendario.
Non si può fermare il tempo e auguro a tutti che venga il tempo delle cose migliori, quelle che erano rimandate e che, senza farci dimenticare ciò che è stato, ci riportino alla speranza di una vita in salita.
Il mio augurio sincero è un tempo buono per tutti.
Le domande che vorrei porvi
Nel pomeriggio mi sono recata alla Biblioteca di Pantigliate per dare un’occhiata alle nuove proposte editoriali. In attesa che venga pubblicato – e, senza dubbio lo sarà prima della fine dell’anno -, il Fantasy di Valeria, ho scelto “Come un respiro” di Ferzan Ozpetek. L’ho già posizionato sul ripiano del mio comodino, sopra a “Becaming” di Michelle Obama.
Come sempre mi accade, più osservo le copertine dei libri più avverto un urgente desiderio: poter incontrare i rispettivi scrittori – meglio se tutti! – e porre loro domande mi stanno a cuore. E questa sera scelgo di metterle per iscritto, riservandomi di rivolgerle alle due scrittrici a noi più vicine: Benedetta e Valeria. Spero che le nostre benvolute amiche in un futuro non troppo lontano vorranno qui appagare questo mio desiderio. Grazie.
“A che età sei stata catturata dalla passione per la scrittura?”
“Riesci a scrivere in questi mesi di sgomento, timori e silenzio risucchiante?”
“Quando scrivi segui un particolare rituale? Per esempio: un tipo di penna/matita/stilografica, certe luci nella stanza, orari preferiti, cibo da sgranocchiare a portata di bocca, musica di sottofondo, ecc.?”
“Nelle ore dedicate alla scrittura tieni silenziato il cellulare?”
“Quando riversi un testo nel PC è perché lo hai già scritto prima sul foglio mentale?”
“Riscrivi spesso un concetto o un’intera pagina?”
“Cestinare uno scritto ti cambia lo stato d’animo?”
“Trovi sempre e con facilità il vocabolo più adeguato con il quale affinare le espressioni, per essere meglio compresa?”
“Tu sei i tuoi personaggi o loro ti assomigliano molto?” “A quale di essi sei più legata?”
“Oltre alla scrittura riesci a dedicarti ad altre passioni?”
“Leggi molto? Se sì di quali argomenti o a quali letture non sai rinunciare?”
“Puoi disporre di tempi e spazi che appartengano esclusivamente a te?”
Stiamo vivendo con affanno questo inspiegabile caos della pandemia che ci accomuna, facendoci oscillare tra speranza e disillusione. E’ una dimensione indecifrabile, del tutto simile ad un limbo sospeso nella nebbia, ma ho grande fiducia di poter postare questo scritto nel nostro sito. Lo farò, prometto, a seguito della conferma dell’avvenuta pubblicazione del libro di Valeria.
Porgo l’augurio di vederci tutte, presto, insieme alle nostre due scrittrici per nuovi amichevoli, stimolanti, incontri di cui sento (q.b.) la mancanza.
28.10.2020
Inopia
Il piccolo immobile, al cui interno sono sbucata alla vita negli anni ’50, apparteneva all’imponente e prestigiosa Industria per la quale lavorava mio padre. Stava incastonato tra molti altri, al terzo piano di uno di quattro affollati caseggiati, allineati come fiammiferi. Gli scrostati rivestimenti esterni mostravano un colore indefinibile, post bellico: un miscuglio di nero, grigio e giallognolo.
Le scale interne, con i loro parapetti e corrimano in legno, usurati e cedevoli, rappresentavano una costante insidia. Al piano terra, una buia e strettissima rampa conduceva ad uno scantinato, al cui centro giganteggiava l’oscura presenza di una porta tagliafuoco. Era stata posta a protezione di un misterioso “Rifugio di Guerra N° 47” e nessuno di noi bambini ebbe mai l’ardire di avvicinarsi troppo.
Per rispettare le condizioni imposte dall’Industria, (il Diktat!), ogni famiglia condivideva l’appartamento con un secondo nucleo. Con spazi vitali insufficienti e l’unica risorsa economica rappresentata dalla paga mensile dei papà, si era talmente poveri da disporre a malapena dello “stretto necessario”. Obbligati a “resistere per esistere”, rinunciando, fatalmente, a buona parte – anzi! alla parte buona – della vita.
Quando, negli anni ’60 la Fabbrica raggiunse il suo massimo splendore, in molti appartamenti si era già dovuto fare spazio ad altre famiglie operaie salite dal sud, i cui figli ci chiamavano “polentoni” per sentirsi apostrofare “terroni”. Purtroppo i comportamenti peggiorarono e le violenze fisiche e verbali si moltiplicarono.
I “grandi” stremati dal lavoro, usciti dalla Fabbrica al suono assordante della sirena, una volta giunti a casa si abbruttivano con l’alcool ed ogni minimo pretesto provocava scintille. Noi bambini assistevamo troppo spesso alle loro liti furibonde. Per questo, ma soprattutto per comportamenti ben peggiori!, i nostri sguardi infantili andavano perdendo presto la freschezza ed il candore dell’innocenza.
Quando urgeva fottere la fame, la tristezza o il senso di soffocamento che pativamo, una volta terminati i compiti, proprio tutti! si scappava fuori casa a giocare all’aria aperta, nei cortili o nei prati. Qui ci sentivamo amici fraterni, autentici compagni di sventura.
La nostra vera ancora di salvezza – il nostro bene supremo – era rappresentato esclusivamente dall’obbligo di frequentare la scuola, nonostante le non poche difficoltà di apprendimento. Lo studio ci consentiva così di starcene lontano dagli adulti, dai loro cattivi esempi, dai rimproveri incessanti e dai loro fuorvianti consigli. L’istruzione era in grado di supportarci nella crescita: apriva i nostri orizzonti, accendeva i nostri cuori e, per qualche spensierata ora, bruciava dispiaceri e paure.
7 Marzo 2017
La mucca della Valle Aurina
In una malga della Valle Aurina viveva una mucca pezzata il cui manto era coperto di bellissime chiazze. Le altre mucche si complimentavano per la sua bellezza, ma Fanny – era questo il suo nome – non riusciva a vedersi e ad ammirare i disegni del suo corpo perché non aveva mai visto uno specchio.
Il giorno del suo compleanno il signor Gino, padrone della malga, decise di regalargliene uno. Finalmente Fanny poté ammirarsi e ne fu entusiasta; ma ebbe l’impressione di essere un po’ grassa. Decise così di mangiare meno erba per dimagrire, ma ogni tanto si nutriva di more e lamponi per dare più colore alle labbra. Quando pascolava portava con sé lo specchio vicino al campanaccio e spesso si allontanava per comporre un cappellino con il fieno. Dopo qualche tempo era diventata più snella, ma il padrone della malga era preoccupato perché produceva poco latte. Le chiese:
«Che ti sta succedendo, mia cara Fanny? Da quando ti ho regalato lo specchio sembri un’altra mucca. Continui a rimirarti, hai le labbra rosse, ancheggi continuamente, ma dimagrisci ogni giorno di più. Non puoi continuare a vivere così! Non vorrei sentirmi costretto a toglierti lo specchio.»
«Lasciami pascolare ancora con il mio specchio!» lo pregò Fanny. «Prometto di mangiare più erba. Ti chiedo soltanto di comprarmi un mantello di plastica trasparente per proteggere il mio manto nei giorni di pioggia.»
Gino l’accontentò e Fanny riprese subito qualche chilo.
In un’altra malga viveva Ermenegildo, un toro che non si era mai innamorato di una mucca. Ma quando da lontano vide pascolare per la prima volta la mucca Fanny non seppe più dominarsi e ruppe la staccionata che segnava il confine del suo branco, per raggiungerla. Fanny vide in quel momento il toro Ermenegildo, e anche per lei fu un colpo di fulmine!
Il toro si avvicinò alla mucca. Le loro code si intrecciarono formando un nodo tale che nessun montanaro sarebbe stato in grado di sciogliere. Coda nella coda, decisero di fuggire mescolandosi in un altro branco per non farsi riconoscere. Ermenegildo sarebbe passato inosservato, ma non si poteva dire la stessa cosa per Fanny con lo specchio, il mantello trasparente e le labbra rosse; perciò raccolsero gli orpelli in un sacchetto del supermercato abbandonato in un sentiero da un turista irriguardoso dell’ambiente. Una volta introdotti nel nuovo branco Fanny tirò fuori ancora una volta tutti gli attrezzi dal sacchetto per abbellirsi, ma Ermenegildo cercò di farle cambiare idea.
«D’altra parte non posso tener nascosti gli ornamenti, perché fanno parte di me, e tu dovresti accettarmi per quella che sono,» disse Fanny, ma Ermenegildo replicò:
«Un giorno tornerai a mostrarti agghindata così come ti ho conosciuta, ma i nostri padroni, che ora si saranno già accorti della nostra scomparsa, ci staranno già cercando, ti scoprirebbero subito con quest’aria civettuola e le altre mucche si accorgerebbero della nostra intrusione».
Infatti i padroni delle due malghe si erano accorti della scomparsa dei loro animali. Ognuno cercava il proprio capo per le montagne, finché non si inzuccarono.
«To’, che ci fai da queste parti?» chiese il padrone di Ermenegildo.
«Sto cercando una mucca che è scomparsa dal mio branco,» rispose Gino. «E tu?»
«Io cerco il mio toro che ho visto fuggire con una mucca con uno specchio e un mantello trasparente. Ormai erano lontani e andavano in direzione di Luttago.»
«Una mucca con lo specchio e il mantello trasparente? Ma è la mia mucca Fanny! Allora sono fuggiti insieme!»
Fu così che i due padroni si misero alla ricerca di Ermenegildo e Fanny.
Nel frattempo toro Ermenegildo e la mucca Fanny, dopo tanto pascolare, si ritrovarono nella deliziosa cittadina di Campo Tures e ne rimasero subito affascinati.
Vicino al castello c’era una semplice casetta di legno con piante e fiori coloratissimi e tendine di pizzo che riproducevano lo stesso paesaggio che si estendeva sullo sfondo; ma più della casetta erano interessati all’adiacente stalla. Quando seppero che era in vendita si precipitarono all’agenzia immobiliare per stipulare il contratto di compravendita.
I risparmi dei due innamorati non erano molto cospicui, ma bastavano per accordarsi con la gentile impiegata. Lasciarono una caparra per bloccare la stalla e accettarono volentieri di lavorare per un’amica dell’impiegata che offriva loro un lavoro molto faticoso nei campi, ma ben retribuito. Fanny inoltre produceva tanto latte da sfamare tutti i bambini di Campo Tures e della Valle Aurina.
Il toro Ermenegildo e la mucca Fanny coronarono così il sogno della loro vita… e vissero insieme felici, stanchi ma contenti, circondati da tanti teneri vitellini che pascolavano vicino alla loro dimora.
A tutti coloro che ci hanno lasciato
C’è il suono di una campana che scocca le ore. Sono seduta al tavolo della mia cucina di fronte alle immagini mute di una televisione che non ha più il ruolo del divertimento ma il tam tam di notizie che non vorresti sentire.
Non si riesce ad avere ragione sul nulla se non la costante imperante paura di una ineluttabile sorte alla quale e’ difficile sottrarsi.
I pensieri si sostituiscono ai ricordi che come farfalle si vorrebbero trattenere per sentirsi sicuri di avere avuto momenti diversi di un mondo che, ahimè è cambiato. Non c’è più.
San Martino. Una frazione ai limiti del sud Milano. Una striscia di terra di confino ma viva e abitata da persone laboriose che formavano un nucleo a sé.
La latteria, il fornaio, il vinaio, il colorificio, la merceria, il tabaccaio, la drogheria, il negozio di tessuti, la tintoria, l’immancabile bar, ritrovo per chi, la sera, era solito fare una partita a carte con gli amici.
I bambini che tornavano dalla scuola erano il segno del passare del tempo di una giornata divisa fra l’impegno scolastico e quello del divertimento nei prati dietro i primi palazzi più alti delle vecchie case ormai corrose dal tempo.
I commercianti conoscevano tutti e tutti conoscevano tutti.
Allegria, ma anche difficoltà di chi aveva meno ma conosceva la solidarietà tradotta in aiuto da parte di chi poteva.
Non erano facili i giorni delle nebbie che duravano giorni, che sapevano di zolfo che arrivava dalle colate di acciaio della vicina ferriera.
L’inverno sembrava un castigo per chi viveva al di qua’ della barriera umida e scura.
Poi, una giornata ti annunciava la primavera con la fioritura nei piccoli cespugli erbosi di tanti piccoli non ti scordar di me.
E ritornava l’energia di vivere nuovi giorni.
A tutti coloro che ci hanno lasciato non solo i ricordi ma l’esempio del semplice vivere.
La ciminiera
Dall’alto dei suoi centodieci metri la ciminiera svettava possente sulla periferia degradata, all’estremità del Paese. La sua lunga ombra mobile e cupa, sovrastando i quattro vecchi popolati caseggiati, transitava sui vetri delle finestre delle abitazioni. Una torre maledetta di forma circolare, in cemento armato e mattoni rossi, simile ad un ciclopico sigaro che eruttava incessantemente fumo velenoso. Inquinandoci, intossicandoci ed indebolendoci. Eppure, come tutti gli abitanti del povero quartiere operaio in cui vivevamo, anch’io coltivavo l’illusoria speranza di poterla scalare un giorno, prima di chiunque altro, fino ad arrivare alla bocca del suo camino…
L’insediamento industriale, posto ai suoi piedi, imponente e prestigioso, impegnando una forza lavoro di seimila unità, produceva molte nuovissime fibre tessili grazie alle eccellenti scoperte del suo Laboratorio di Ricerche, situato all’ interno. Anche mio padre, Poliziotto di Stabilimento – assegnato a estenuanti turni di lavoro per il controllo del chilometrico perimetro esterno -, vi aveva prestato servizio per quarant’anni. Inevitabilmente, sputando sangue, sudore, imprecazioni e rimettendoci la salute.
L’Industria accanto alla quale sono nata e cresciuta, sorta a fine anni ’20, negli anni 60 raggiunse il suo massimo splendore. Dal 1970 visse un lento declino, dovuto ad una profonda crisi del settore e nel 1982 cessò ogni produzione. La malferma ciminiera, con altre sorelle minori, ora domina su quel che resta dell’immensa Fabbrica abbandonata, ormai trasformata in affollato sito per spacciatori, discarica abusiva e rifugio provvidenziale per senzatetto. Salita purtroppo agli onori (o, meglio, “ai disonori”) della cronaca nazionale per il degrado, lo spaccio, le sparatorie e le guerre tra clan rivali, – che vi hanno stabilito le loro fortezze militari -, é stata recentemente denominata “Gomorrakech”.
Se oggi accarezzo l’idea di scrivere, lo devo al dispiacere vissuto davanti al frantumarsi di “quel” mio sogno di bambina, quando ieri due giovani “urban climber” italiani si sono avventurati per la prima volta nell’impresa di arrampicarsi sulla monumentale torre, sino a conquistarne la sommità. Provocando una scarica di pura adrelina nei presenti e filmando ogni loro passo, gli intrepidi scalatori hanno portato a compimento la spericolata iniziativa senza protezioni, senza autorizzazioni e, perfino, senza avvisarmi …
17 febbraio 2017
Il Capo
“Buongiorno, posso esserle utile?” “Buongiorno signora. Vorrei parlare con il Dott. Villa, se è disponibile. Me lo può passare per favore?” La voce dell’uomo in linea non è giovanile, ma interessante e mi piace: tradisce un bell’accento partenopeo.
“Chi devo dire?” “Mi chiamo Ciro, lui non mi conosce, però dispongo di questo numero di telefono ed ho necessità di parlargli personalmente. Può riferirgli che lo sto chiamando da Napoli?” “Per una pratica di lavoro?” “No signora mia, tutt’altro! Si tratta di una sorpresa che non si aspetta.” “Rimanga in attesa.” “Grazie.”
Mi collego con l’interno del Capo e chiedo se intende rispondere alla chiamata. “Ciro chi? Non ha un cognome?” il tono è severo. “Non lo ha voluto dire. E’ in possesso del mio numero diretto eppure sostiene di voler parlare solo con lei. Non vi conoscete; credo si tratti davvero di una sorpresa.” “Come le è sembrato? Non sarà uno che vuole solo farmi perdere del tempo, vero?” ancora burbero. “Non credo. E’ un signore napoletano, educato e gentile.” “D’accordo, me lo passi, grazie. Sentiamo un po’ cosa ha da dirmi.”
Memore di passate esilaranti esperienze, per bizzarre sorprese messe in atto da colleghi burloni di altri uffici, chiedo ai miei compagni se sanno qualcosa di questa strana chiamata. ”Davvero misterioso questo fatto – dice Paolo offrendomi un bellissimo sorriso malizioso -. Cos’ha combinato signora Elvira? Questo tipo l’ha contattata e poi pretende di parlare con il Capo. Vorrei capire.” Mimma interviene ridendo e puntandomi scherzosamente il dito indice: ”Elvi, ricordami quando è stata l’ultima volta che ti trovavi a Napoli.”
“Oh, ma allora sospettate di me! A Napoli ci sono andata un secolo fa. Non c’è il mio zampino in questa storia e poi sapete bene che con il nostro Capo non si può scherzare. Non ci resta che aspett…” interrompo la frase perché dall’Ufficio confinante giunge una sonora risata. Ci osserviamo con incredulità. Paolo, saggiamente, si rende portavoce di un pensiero che ci accomuna: “Ecco la vera sorpresa! Dopo tanti anni che lavoriamo tutti insieme, credo sia la prima volta che sentiamo il Grande Capo ridere a cuor leggero.”
Un quarto d’ora dopo il Dr. Villa esce e viene verso noi scuotendo la testa. Ho l’impressione che sotto gli abbondanti, curatissimi, baffi bianchi stia trattenendo una risatina. Sembra che la telefonata lo abbia molto colpito. Noi tre stiamo letteralmente morendo dal desiderio di sapere qual’é la notizia. Rispettosamente – dal momento che lo sappiamo uomo serio, pieno di riserbo – ci limitiamo a lanciargli veloci sguardi interrogativi.
“Questa ve la devo proprio raccontare” dice. “Finalmente!” penso e mi scappa un ampio sospiro di sollievo. Paolo aggiunge: “Era ora, Capo!” intanto mi lancia uno sguardo aggressivo.
“Ricordate, vero, che in occasione del terremoto In Umbria e nelle Marche avevamo aderito ad una raccolta a favore dei sinistrati? “Si riferisce al terremoto di due anni fa?” chiedo con stupore. “Brava!, proprio quello avvenuto nel settembre 1997.” “E allora?” lo sollecita Paolo “l’impaziente”.
“Di comune accordo avevamo provveduto a donare nuovi capi di abbigliamento invernale” si avvicina alla finestra che affaccia su Piazza Duomo e getta una occhiata fugace al magnifico panorama. “In quella occasione, avevo regalato un loden verde da uomo della mia taglia. Nella tasca interna avevo pure infilato un biglietto pressappoco scritto così ’Se hai bisogno di qualcos’altro, posso aiutarti. Telefona a questo numero – e ho riportato quello di Elvira – ti risponderà la mia segretaria.’ Naturalmente ho anche aggiunto la data ed i miei dati.” Poi, rivolto alla sottoscritta: ”Signora Elvira, mi dispiace non averla avvertita a suo tempo.” Accetto volentieri le scuse. In cuor mio gli sono davvero grata per aver risolto il rebus.
Mentre pendiamo dalle sue labbra lui tace, quasi a volerci tenere sulle spine. Una pausa insopportabile per Paolo che, sbuffando, chiede: “Possiamo sapere cosa c’entra il tizio di Napoli?” “Il signor Ciro di Napoli é un medico pediatra in pensione. Ieri al mercato rionale di Fuorigrotta ha acquistato un loden verde, ancora nella confezione originale, pagandolo ottantacinquemila lire. In serata, mentre se lo riprovava, nella tasca interna ha rinvenuto il mio messaggio di due anni fa. Incuriosito, ha deciso di contattarmi. Voleva capacitarsi della ragione di quella mia nota scritta: non riusciva proprio a comprenderla. Credetemi, non è stato facile per me ricordare e ancor meno scegliere di non mentirgli. Temevo che, saputa la verità, si sarebbe agitato reagendo bruscamente.”
Il Capo inserisce un’altra pausa. Di nuovo è Paolo a sollecitarlo: “Invece?” “Invece, scoppiando a ridere mi ha detto: “Dotto’, aggio pigliato nà putente ‘mbruglià. A mamma d’e fesse è sempre prena..” Nonostante il mio accento milanese, spero proprio di averlo pronunciato abbastanza bene. “Non ho parole, solo qualche parolaccia” commenta Paolo battendo con forza un pugno sul ripiano della scrivania e facendo sobbalzare il portapenne. Mimma, la sola fra noi di origini meridionali, è ammutolita. Non alza più lo sguardo e con eccessivo vigore riprende a digitare sulla tastiera del PC, quasi a volerla disintegrare.
Sono troppo annichilita per esprimere anche un solo commento, per questo chiedo: “Dottore, cosa ha in mente di fare adesso?” “Semplice, quello che ho appena fatto” risponde elargendoci un paterno sorriso amichevole: “Ho invitato il signor Ciro a venirci a trovare. Ha accettato di buon grado mettendo in chiaro, con insistenza, che rifiuterà qualsiasi rimborso per il disturbo, il viaggio o per il suo bel loden. Un gran signore questo medico napoletano! Vi terrò informati. Buon lavoro.”
Settembre 1999
Anneke
Per incrementare l’insufficiente organico del nostro ufficio, oberato di lavoro, lo scorso marzo è stata assunta Anneke, una nuova impiegata di livello: italiana, ma dall’identità e dall’accento stranieri. Una signora poco più che quarantenne, disinvolta, elegante, senza figli, che proviene da una società concorrente ed è esperta del nostro settore. Dotata di un notevole “sens of humor” e di autocritica, ci ha confessato che, avendo un debole per lo “shopping”, ha accettato al volo la ricca retribuzione prospettatale.
Mimma ed io, sin dai primi giorni – ma soprattutto ora, in assenza di Paolo, ancora ricoverato – , abbiamo constatato con sollievo che è molto collaborativa, intraprendente e in grado di gestirsi in autonomia. Abbiamo anche notato, però, che le difetta un pochino la discrezione. Vista la distanza minima che separa le nostre scrivanie, a noi piacerebbe che usasse un tono di voce meno impostato e più basso, almeno nel corso delle conversazioni private, senza “costringersi”, sempre, a sentire tutto.
Sappiamo, per esempio, che la sua più grande passione è la fotografia ed essendo “accreditata” presso le Case automobilistiche assiste spesso alle gare, nel corso delle quali si diverte a “sparare foto” a profusione anche a piloti famosi, suoi amici. Le foto le vengono pagate profumatamente se pubblicate da patinate riviste specializzate.
Purtroppo domenica, durante una gara, ha subito il furto di tutte le sue costosissime attrezzature fotografiche. Oggi, arrivata in forte ritardo e di cattivo umore, ha subito chiarito quanto fosse urgente ed indispensabile acquistarne di nuove. Contattata la Banca ha chiesto un prestito con accensione di un’ulteriore “ipoteca sulla casa”, ma il Direttore glielo ha negato. All’irremovibile bancario risultava, infatti, una “seconda” ipoteca sull’immobile per 42 milioni di lire, consegnati al consorte nel gennaio scorso. Difficile per lui credere che la signora, cointestataria del conto stesso, non ne fosse a conoscenza.
A fine telefonata l’abbiamo sentita inveire, prevalentemente in tedesco, nei confronti di sé stessa e del marito sleale. Accortasi che la stavamo osservando ci ha rivolto un paio di smorfie tristi che non assomigliavano affatto a due sorrisi rassicuranti. Poi si è messa a sfogliare freneticamente la voluminosissima agenda personale da cui – a intermittenza – fuoriusciva una cascata di fogli, negativi di foto, biglietti da visita e molto altro. Evitando di incontrare i nostri sguardi, ci ha subito palesato l’inopportunità di avvicinarci ad aiutarla.
“Faccio prima a contattare la sua Ditta per chiedere il numero dell’Hotel di Jaipur dove pernotta” ha detto tra sè e sè a voce alta. Da lei avevamo saputo che il marito, non facilmente rintracciabile, le telefonava solo se poteva: cioé assai sporadicamente da quando, per lavoro, si trovava in India.
Noi due, senza farci scorgere, ci limitavamo a scambiarci silenziose occhiate interrogative. Sembrava fossimo sincronizzate su un’identica, temibile, domanda: “Adesso cos’altro può succedere?” Poi, quel cos’altro è realmente accaduto.
La centralista della Ditta del consorte l’ha informata che a marzo erano state accettate le dimissioni presentate dal marito, direttamente da Jaipur e a mezzo telex: inutile dunque fornirle il numero di quell’Hotel dove l’uomo non soggiornava più. Rimasta senza parole, Anneke si è lasciata andare ad un pianto isterico. Utilizzando la cornetta del telefono ha pensato bene di martellare rabbiosamente il ripiano della scrivania, provocando un terribile assordante frastuono, a cui hanno poi fatto seguito urla e frasi incomprensibili.
Noi impotenti, sconcertate e con la salivazione azzerata, non sapevamo quali pesci pigliare. Fortunatamente il Responsabile, uscito dal suo ufficio confinante il nostro, è prontamente intervenuto invitandola, con estrema cortesia, a ricomporsi. Dopo averci chiesto di prenotare urgentemente un taxi, l’ha accompagnata nel viaggio di rientro a casa.
A causa di quell’esplosione di rabbia molti colleghi, allibiti ed incuriositi, sono venuti a informarsi di quanto avvenuto. Come noi, si sono augurati di cuore che la signora possa presto riprendersi e tornare a sorridere alla vita. Al momento non è dato sapere che ne sarà del suo futuro personale; ma per quanto attiene l’aspetto professionale, purtroppo, la Direzione non le consentirà di rientrare. La certezza ci è giunta nel pomeriggio da Giuliana, dell’Uff. del Personale. A seguito di una veloce riunione di emergenza, è stato infatti stabilito di “liquidarla” con un congruo assegno di “buona uscita”.
Mimma ed io, tristi e perplesse, non potevamo certamente sospettare che sulla vita matrimoniale della collega stesse per infuriare una battaglia di tale gravità. Stasera, ancora incredule e scosse, cercando di raccapezzarci, ci siamo tenute compagnia al telefono per oltre un’ora. Abbiamo compreso bene la portata del doloroso tsunami che ha sconvolto Anneke e per colpa del quale sarà costretta a rivedere ed aggiornare i capitoli della propria esistenza. Ma non abbiamo affatto trascurato di esternare qualche legittima lamentela per l’eccessivo carico di lavoro che già da domani tornerà a (s)travolgerci.
Prima di augurarmi la buonanotte, Mimma ha detto: ”Elvi, tu che sei capace di farlo, perché non provi a “buttare giù” qualche riga e racconti questa indescrivibile giornata?” Indescrivibile per chi? Non per me che, nel cuore di una notte deprivata del sonno, ci ho provato. L’ho dovuto fare per riequilibrare il mio sensibile stato d’animo, riuscendo così ad esorcizzare l’amarezza ed il turbamento di questo difficile giorno, troppo denso di emozioni.
27 Aprile 1988