Ogni giorno ho la mia ora quieta, incastonata con cura tra una corsa e l’altra.
La passo con un guinzaglio in mano e un cane che mi trotterella a fianco.
Ce ne andiamo sempre lungo gli stessi sentieri, che sono alla fine due o tre.
Li abbiamo percorsi centinaia di volte, in qualsiasi stagione, ma mi sembrano sempre un incanto.
Oggi mentre cammino c’e’ vento, mi passa addosso e mi riempie le orecchie col fruscio delle foglie
Quando arriva il vento, arrivi sempre anche tu.
Penso che sei da qualche parte a sbirciarmi sorridendo, giocando a farmi una carezza senza essere vista.
Cammino, c’e’ vento.
Ti prendo tra le braccia la prima volta che sei un fagotto che pesa come un pollo, e io una ragazzina che pensa che essere diventata zia e’ una botta d’orgoglio da sfanfarare ovunque.
Le pappe rovesciate, i pannolini di cotone, il profumo di latte e caramelle di gomma, i carillon da far partire per guardarti incantata.
I tappetoni imbottiti dove rotolarti, la maniglie a cui aggrapparti per imparare a stare in piedi.
Ti racconto storie, ti invento giochi, faccio la pagliaccia mille volte per strapparti una risata.
Sei una bimba quieta e silenziosa, sempre in un angolo per non essere vista, col tuo faccino smorto, gli occhi enormi e le dita lunghe come ali.
Mi guardi come se io fossi una maga spara incantesimi, taci, sorridi.
Senza averlo imparato, ci amiamo forte con gli sguardi e nessuna parola e’ mai necessaria.
Cammino, c’e’ vento.
Sei una ragazza ora, e sono arrivate le feste, le discoteche.
Le guerre con i tuoi, le dichiarazioni di indipendenza, il voler essere te stessa con i tuoi sogni e i tuoi ideali, nonostante tutto e tutti.
Arrivano i primi amori, poi quello grande.
Il lavoro nei centri sociali, tra gli umili e i disperati, che tu a lavorare in banca come gli altri volevano, ci saresti soffocata.
Cammino, c’e’ vento, prendo un respiro grosso.
Mi telefoni un pomeriggio qualunque con la voce un po’ strana… “Zia stavo facendo la doccia e nel seno ho sentito qualcosa di strano”.
In un giorno qualsiasi, arriva una clava di piombo, che ti si abbatte sul petto senza neanche avvertire.
Non sai ammettere né concepire che possa essere accaduto.
Non a chi ami con ogni respiro.
Infili la paura e la disperazione in un pentolone, lo sigilli con un coperchio e ti ci siedi sopra.
Perché devi trasformarti in colonna, essere forte per chi ami, dare coraggio, infondere speranza, e in cuor tuo non sai neanche dove trovarli.
Cammino, c’e’ vento.
Arrivano i giorni della paura e del dolore.
Dell’attesa e della speranza.
Arrivano i giorni della gioia per essere sbucati fuori da un tunnel.
E quelli dello sgomento, scoprendo che un altro tunnel ci aspettava dietro la curva.
Cammino, c’e’ vento.
Ecco oggi sei una sposa, diafana e bellissima, noi ben vestiti a battere le mani, tutti che credono al lieto fine.
Siamo verso la fine di una giornata perfetta di gioia e speranza, e mentre vago di stanza in stanza, ti trovo nella sala dei confetti.
Ti guardo senza parlare, stai li’ in piedi, sola e con lo sguardo perso.
Mi accorgo solo ora di quanto sei magra, di quanto sei stanca.
Ci guardiamo negli occhi, ci sorridiamo con tristezza e amore, ci facciamo coraggio in silenzio, perché forse il lieto fine non è di questa storia, e lo sappiamo entrambe.
Cammino, c’e’ vento.
Arrivano i giorni in cui la speranza scivola piano tra le dita, e c’e’ solo da amarti più di ogni cosa.
Ti passo le matite ad una ad una, stai cercando di disegnare il progetto della cucina nuova, che sdraiati in quei letti d’ospedale non e’ facile per niente.
Pezzetti piccoli di pane e marmellata, te li metto in bocca e ci facciamo segno che zitti zitti, e’ un segreto tra noi, perché i medici han detto che lo zucchero e’ vietato, ma noi delle regole ce ne sbattiamo.
Ti imbocco, metto il dito sulle labbra “sscchhh bambina, non ci devono scoprire”.
Tu mastichi piano, alzi gli occhi, sorridi lenta “sscchhh zia, non lo scoprirà nessuno”.
Cammino, c’e’ vento.
Dormi tutto il giorno ora.
Dormi di giorno, dormi di notte, mi chiedo se sai che sono li’ seduta tutti i giorni.
Ti accarezzo le dita lunghe come ali, ti racconto delle piccole cose banali.
Poi pian piano mi faccio coraggio e ti racconto del viaggio che stai per fare, che sicuramente sarà bello e pieno di cose buone.
Chissà cosa andrai a scoprire, dove andrai a volare, o dove e quando atterrerai da qualche parte.
Chissà se troverai il modo di venirmi a trovare.
Che non dobbiamo avere paura, neanche un po’.
Perché i cuori buoni e le anime belle, possono partire solo per viaggi meravigliosi.
Cammino, c’e’ vento.
Dei tuoi ultimi fiori, bambina, ne ho fatto un mazzetto.
L’ho preparato per farlo seccare e tenerlo come una sacra reliquia.
Ma ho appena adottato un micino neonato, che fa più guai di Attila.
E tornata stanca dal lavoro, ho trovato i tuoi fiori sparsi ovunque.
Petali bianchi, foglie, rametti dappertutto.
Il micio mi guarda come un pupo, ha un rametto incastrato tra le orecchie
Mi sei venuta a trovare dunque, hai usato le zampe del micino per dirmi che e’ questo che avresti voluto fare dei tuoi fiori.
Non una composizione morta, fissa in un vaso elegante.
Ma una festa smargiassa, con tutto sparso ovunque senza regole, per festeggiare la vita.
Cammino, c’e’ vento.
Mi piace arrivare alle curve del sentiero.
Mi immagino che sbuchi da li’, i capelli sparsi, uno dei tuoi sciarponi svolazzanti, le dita lunghe come ali.
Ci sorridiamo e basta.
Ed e’ già tutto.
Cammino, c’e’ vento.
Mi fermo, accarezzo la testa al cane.. “Tata dai, torniamo a casa adesso”.
Giro la schiena alla curva, probabilmente l’hai girata anche tu e te ne vai per i tuoi sentieri.
Giro un poco la testa e mi concedo di fare la matta e parlarti ad alta voce.
“Ora la zia va a casa, bambina.
Ci vediamo la prossima volta che c’e’ vento”.
Quello che sappiamo dell’Amore
Quante volte diciamo “ti amo” nella vita?
Non contano i “ti amo” buttati in mezzo ad una frase tanto per dire, ma quelli detti sul serio, con il cuore che batte a mille, le pupille dilatate e le farfalle nello stomaco.
La tesi di Amy consiste nel fatto che i bambini lo dimostrano più frequentemente, attraverso l’affetto e la sincerità, gli adolescenti lo sussurrano sotto voce, ancora increduli di ciò che provano e un po’ timorosi nel dare il loro cuore in mano a qualcun altro, mentre gli adulti sono un genere a sé. Alcuni pretendono di basarsi sulle esperienze, più o meno negative, che si portano alle spalle facendo in modo, molto spesso, che quelle tre paroline non vengano mai più pronunciate e finiscano nascoste sotto pile di scuse e menzogne, a prendere polvere in un angolo remoto di sé.
Qualche giorno prima, mentre Amy stava parlando con una sua amica, si era decisa a chiederle di punto in bianco: «Secondo te cos’è l’amore?»
L’amica l’aveva osservata come si guarda un pazzo o qualcuno che non sa bene ciò che sta dicendo e le aveva sussurrato: «A me lo chiedi? Dovresti essere tu a dirmelo».
Amy l’aveva guardata con fare assente e poi si era girata verso la finestra aperta, come faceva sempre quando pensava ad una risposta sensata da dire.
Con fare deciso aveva risposto: «L’amore è un uomo che sta seduto in un bar la mattina prima di andare al lavoro, pensa alla carriera e alla Gazzetta sportiva che tiene tra le mani mentre sorseggia il suo caffè. Sente di essere soddisfatto, non ha bisogno di nulla. Ad un tratto, però, la porta del bar si spalanca e lei entra. In quel momento lui sa che nulla sarà mai più come prima». L’amica l’aveva guardata dubbiosa: «Beh allora non resta che scoprirlo», le aveva detto con un sospiro.
Quel pomeriggio Amy tornò al bar. Lo trovò al solito posto, con in mano un caffè e la Gazzetta sportiva aperta alla pagina dei risultati del campionato.
Mark teneva gli occhi fissi sulla Gazzetta anche se non la stava leggendo realmente. Mentre sorseggiava il suo caffè ripensava alla ragazza che aveva intravisto il giorno prima e di cui aveva incrociato lo sguardo. Gli aveva sorriso e lui era rimasto colpito dai suoi occhi sereni e remoti.
La sentì entrare nel bar con un brivido, come se improvvisamente stesse respirando aria fresca, e si voltò a guardarla.
Lei indossava un vestitino azzurro, con una gonna lunga. I capelli a caschetto le mettevano in risalto il viso, mentre gli occhi verdi brillavano.
«Indossa i colori del cielo e delle foglie scosse al vento», pensò, e sentì abbattersi tutte le barriere.
«Tu sei una creatura eterea, non puoi stare nel chiuso di un bar, – riuscì a dirle quasi con timidezza – perché non usciamo a fare una passeggiata all’aria aperta?»
Lei accettò con un sorriso.
Mentre camminavano Amy lo prese sotto braccio, con una confidenza che lo stupì piacevolmente, e cominciò a raccontargli della sua passione per il pianoforte che suonava fin da piccola. Le piaceva moltissimo ascoltare i suoni che le sue dita creavano solo sfiorando i tasti di quello strumento. Potevano essere brividi o lacrime le sensazioni che trasmetteva ogni volta che le note entravano nella sua anima.
Mark, si scoprì a desiderare di riuscire a parlarle di sé.
Negli anni aveva costruito attorno a sé così tanti muri da non riuscire più a fidarsi di nessuno. Preferiva non entrare troppo in sintonia, in confidenza con nessuno.
In quel momento, tuttavia, le cose avevano cominciato a cambiare e le sue nubi interiori a diradarsi, spazzate vie dalla brezza degli occhi di lei.
Come leggendogli nella mente, lei gli chiese: «Cosa c’è che ti turba dietro tutta questa imperturbabilità di cui ti travesti? Continui a dire che sei felice, che non hai bisogno di nulla, ma sento in te una malinconia e un dolore profondi. Confidati».
La voce gli uscì come un fiume in piena: «Sono stato ingannato e ferito molte volte, soprattutto da una donna con cui pensavo sarebbe stato per sempre. Così mi sono creato una nuova routine e sto molto bene, sono felice».
«Ma ti manca qualcosa – Amy lo riprese subito prima che lui lasciasse cadere il discorso – sogni una famiglia».
Mark sussultò, si chiese come lei avesse fatto a intuire il suo più grande rammarico.
«Puoi farcela, Mark. Puoi trovare qualcuna che ti restituirà amore e fiducia. Devi solo crederci», lei sussurrò.
Mark chiuse gli occhi per un istante, sentendo che si stavano riempiendo di lacrime.
Quando li riaprì, lei era sparita, come rapita da un turbinio di vento.
Non la rivide mai più.
Amy entrò in ufficio e la sua amica, Malinconia, l’accolse con un sorriso languido: «Alla fine il tuo assegnato ce l’ha fatta, ha trovato una persona che lo ama e lo rende felice. Il capo apprezzerà l’esito positivo di questa tua missione».
Per la prima volta Amy sentì il peso del suo lavoro: interagire con gli umani salvandoli dalle loro stesse emozioni.
Alzò le mani verso l’alto e creò un vortice d’aria. Ci guardò dentro e vide Mark sorridente accanto a una donna. Questa volta c’era mancato poco che si affezionasse sul serio, o forse quel confine lo aveva superato e le faceva male sapere che la sua corsa verso la felicità non aveva mai pace, ogni missione andata a buon fine rendeva felice sempre qualcun altro e lei si ritrovava di nuovo al punto di partenza.
Il capo la richiamò all’ordine: «Ti sei meritata una pausa, ma non dimenticarti di chi tu sei, mi raccomando Amore, o Amy come hai deciso di farti chiamare tra gli umani».
Amore pensò che, forse, l’amore per gli umani è un’emozione temporanea, che li fa sentire vivi anche solo per un momento e che poi, con il tempo, si trasforma in qualche altro suo collega: Affetto, Stima, Fiducia.
«Chissà se il mondo degli umani differisce così tanto dal mio», si chiese mentre camminava verso casa. Una figura le si mise di fianco, la guardò con fare disinvolto e le si presentò: «Mi chiamo Disillusione, ti andrebbe di prendere un caffè?»
Amore esitò ma poi, sentendosi a suo agio, lasciò da parte il suo lato più romantico e innocente e accettò la proposta. Era arrivato il tempo di crescere.
Il calendario sulla pelle
Sazia di sole e mare decido di visitare i tesori archeologici che l’isola mi offre.
Parto di buon mattino, a bordo dell’autobus locale con destinazione Heraklion, entusiasta al pensiero che presto avrei ammirato uno dei musei più importanti al modo.
Il mezzo procede lentamente le fermate sono parecchie alcuni passeggeri sostano in piedi, il caldo si sta facendo insopportabile.
Mentre comodamente seduta mi guardo in giro stupita di come tanta gente può confluire in così poco spazio, noto una donna molto anziana vicino me. È di corporatura minuta, ha le spalle curve, gambe larghe leggermente inarcate.
Si sta asciugando il sudore dal volto con un lembo del fazzoletto nero legato sotto il mento che copre testa e fronte, indossa una camicia a maniche lunghe, un grembiule allacciato in vita sopra la gonna alle caviglie, calza stivaletti da contadina, tutto rigorosamente nero, ha una sporta tracolla.
Provo una tenerezza istintiva per questa vecchietta, mi alzo in piedi agitando un braccio per invitarla ad occupare il mio posto.
Avverto inaspettata la pressione leggera delle sue piccole dita appoggiate alla mia mano; si regge in equilibrio durante il breve tragitto che la separa da me. Sento la sua pelle, punteggiata da macchie scure e dalla quale affiorano spesse vene, ruvida sotto la mia e grinzosa tra le ossa. La mano odora di cipolle, osservo qualche traccia di terra incastonata tra le unghie molto corte, inizia a borbottare tra sé come una filastrocca, sembra di ascoltare la voce sottile e gioiosa di una bimba.
Fisso sul suo viso illuminato dal sorriso le ombre scure di solchi profondi scavati dal susseguirsi delle stagioni, scorgo sulla pelle il colore delle zolle riarse dal sole e nei suoi occhi, infossati sotto le sopracciglia aggrovigliate, ne sono certa, un tempo azzurri, il grigiore di un eterno autunno. Si siede a fatica, mi libera la mano dalla sua, poi borbottando ancora fruga dentro la sporta mi fa dono di una carota e mi benedice impartendomi il segno della croce. Sono grata a questa donna per avermi riservato un gesto tanto importante, la vedo volgere il capo verso il finestrino e assopirsi piano piano.
La pagina di storia scritta sulla sua pelle è uno dei ricordi più belli che conservo dell’isola di Creta.
Apnea
Squilla il telefono. Lo ignoro.
È il mio weekend di libertà e i bambini sono dal padre.
Di certo è lui che ha bisogno di aiuto perché li convinca ad obbedirgli.
Il telefono insiste più volte, rispondo: sono i Carabinieri.
Mio figlio è rimasto coinvolto in un incidente stradale.
Sentirsi gelare il sangue. Ora capisco la sensazione! Per un attimo sembra rimanere bloccato nelle vene.
È in viaggio in elicottero verso l’ospedale di Brescia, quello più vicino per i casi gravi.
Condizioni del ferito: non comunicate.
Posso farcela ad arrivare fino là senza morire di paura!
Mi metto in viaggio, in apnea, ancora non ho notizie ma tengo duro.
Qualunque emozione deve essermi estranea.
Il mio secondo cervello non la pensa allo stesso modo, mi costringe a fare tappa in ogni bagno disponibile.
Finalmente arrivo all’ospedale, lo vedo per meno di un minuto, il tempo per spostarlo dal pronto soccorso alla rianimazione.
Il piccolo volto tumefatto, non può accorgersi di me. Coma.
Anche in questo momento il mio bambino è il più bello del mondo.
Per quattro giorni resto fuori dalla rianimazione, sono pochi i momenti in cui posso vederlo. Continua a non vedermi, a non sentirmi.
Resisto distaccata altrimenti potrei morire.
In attesa la mia mente cerca costantemente un contatto con la sua.
Non mollare piccolo mio, puoi farcela.
Ce la faremo.
Sono passati ormai vent’anni, mio figlio si è appena laureato.
Non penso più a quei giorni, sembra quasi che nulla sia mai accaduto, ma se il telefono squilla…corro subito a vedere chi mi chiama.
Il fuoco della passione
Florence sentiva un sacro fuoco ardere dentro di sé. Non un fuoco qualunque, ma una di quelle fiamme che ti fanno sentire invincibile, destinato a grandi cose. Peccato che il fuoco di Florence fosse alimentato dal carburante sbagliato: l’assoluta convinzione di essere una grande cantante.
Fin da piccola aveva deciso che avrebbe coltivato questo suo talento innato. Durante una recita scolastica, mentre tutti gli altri bambini cantavano “Jingle Bells”, lei, senza alcun preavviso, aveva trasformato la melodia in una specie di assolo metal. L’insegnante aveva pianto, ma non per commozione.
L’anno successivo pensò a una crudele beffa del destino quando, alla nuova recita, le assegnarono la parte della sirenetta che, a causa di un sortilegio, era diventata muta. «É un delitto sprecare una voce come la mia!» aveva protestato invano.
Crescendo, iniziò a esibirsi ovunque: compleanni, matrimoni, persino funerali. Una volta cantò Amazing Grace durante la commemorazione funebre di uno zio, e il prete si dovette fermare per spiegare ai presenti che l’ululato che era risuonato per tutta la chiesa non era un segno apocalittico.
Lei, sorda a ogni critica o consiglio, tirava dritto per la sua strada. «Ho il fuoco della passione!», diceva, e chi lo ascoltava pensava che fosse piuttosto un incendio fuori controllo.
Decise di iscriversi a un talent show locale chiamato “Falling Stars”. Lì, di fronte a una giuria composta da un macellaio, un’insegnante in pensione e un DJ che sembrava allergico alla vita, Florence diede il meglio di sé. O il peggio, dipende dai punti di vista.
Scelse di cantare “My Heart Will Go On”. Ora, immaginate un cinghiale innamorato che grugnisce alla luna dopo una sbronza epica: quello era il livello. I giudici non sapevano se ridere o chiamare un veterinario. Quando finì di cantare, ci fu un silenzio surreale, poi la gente cominciò a fischiare e a lanciare pomodori.
Nonostante il fallimento, Florence non si arrese: «La passione vincerà su tutto!» insisteva, mentre la sua famiglia disperata si barricava in casa ogni volta che lei tirava fuori il karaoke.
Un giorno, però, accadde qualcosa di straordinario. Durante una sagra di paese, il sistema audio si guastò. La gente iniziò a rumoreggiare e il presentatore, disperato, chiese a Florence di cantare a cappella per intrattenere il pubblico. «Almeno tireranno i pomodori a lei e non a me!» pensava.
Lei salì sul palco con la stessa sicurezza di un elefante, ignaro della sua stazza, che entra in un negozio di porcellane. Cominciò a cantare una versione improbabile di “My Sharona” e qualcosa di magico accadde: il pubblico scoppiò a ridere. Ma non una risata cattiva, bensì una risata contagiosa, sincera. Florence, senza saperlo, aveva trovato il suo vero talento: far divertire le persone.
Da quel giorno, abbandonò i sogni di essere una cantante famosa e divenne l’attrazione comica più richiesta delle sagre di tutta la provincia. Il fuoco della passione bruciava ancora ma, finalmente, aveva trovato la sua vera vocazione: portare gioia, stonature e un po’ di follia ovunque andasse.
E così visse felice, storta e (quasi) contenta.
Il respiro del Cosmo
In principio, non vi era nulla. Solo un silenzio infinito, un vuoto senza tempo, privo di luce e di ombra, di emozioni e materia. Poi, il respiro di Dio scosse quel nulla, una lenta e profonda espirazione che fece vibrare il vuoto come una corda tesa. Da quel respiro, arcaico e potente, nacque il primo suono, un’onda che si espanse e plasmò la luce e le stelle.
L’universo si aprì come un fiore nel vento, e l’aria, il respiro stesso del Cosmo, riempì ogni spazio, invisibile e onnipresente. Non vi erano ancora confini tra il tutto e il nulla: l’aria era il tessuto sottile che teneva insieme ciò che era e ciò che sarebbe stato. Era il battito di ali del creatore, l’impulso vitale che aveva dato inizio alla danza cosmica.
Tra le correnti di questo respiro primordiale nacque Etere, una creatura fatta di pura essenza. Non era carne né luce, ma il riflesso vivo del soffio divino. Etere si destò al deflagrare del primo respiro, tra le nebulose nascenti e i vortici delle galassie in formazione, sentendo dentro di sé il ritmo del cosmo, il suo perpetuo alternarsi di inspirazione ed espirazione.
E fu sera e fu mattino: il primo giorno. Ogni alba che si accendeva era un nuovo respiro che infondeva forza ai mondi appena nati. Ogni tramonto era un esalare, una carezza di pace sul volto dell’universo in divenire. Etere ascoltava l’aria e ne percepiva la melodia: canti di nebulose lontane, sospiri di stelle morenti, il mormorio delle onde su pianeti sconosciuti, la vita che si affacciava prepotente a popolare i pianeti.
Si muoveva tra le correnti del vento, ascoltando le storie che l’aria portava con sé: il canto dei mari lontani, i bisbigli delle foreste, le grida degli uomini e il silenzio delle montagne.
Accarezzava con un soffio ogni nascita e ogni morte, danzando allo stesso ritmo del respiro cosmico che tutto aveva originato.
Ma col passare degli eoni, il respiro del cosmo si fece più irregolare. Etere udì un lamento, un’ombra di dolore nell’aria. «Cosa accade?» chiese, alzandosi sopra le galassie come un soffio invisibile.
«Il mio respiro si spezza», rispose una voce antica e vasta. «I miei figli dimenticano il dono dell’aria. Dimenticano che ogni respiro li unisce a me. Chiudono le loro menti e i loro cuori, costruiscono muri, soffocano i venti, e il mio soffio si appesantisce».
Etere sentì la pena del Creatore e decise di riportare l’armonia. Viaggiò attraverso i mondi, guidata dal ritmo del respiro divino, per ricordare agli esseri viventi la sacralità dell’aria. Sul pianeta della Terra, si insinuò sotto un cielo grigio nei sogni dei neonati, insegnando loro a inspirare profondamente per trovare forza e calma, sussurrò ai morenti, mentre esalavano il loro ultimo respiro, mostrando che ogni soffio è parte di un cerchio eterno.
Col tempo, gli esseri viventi iniziarono a ricordare. Alcuni si fermarono a respirare consapevolmente, sentendo in quell’atto semplice il legame con il Cosmo. L’aria si fece più leggera, la danza del respiro riprese il suo ritmo.
Etere, leggera come il primo soffio, tornò a dissolversi nell’aria, lasciando dietro di sé solo un sussurro: ogni respiro è il respiro del Cosmo.
Da quel giorno, ogni volta che qualcuno si ferma per respirare profondamente, l’aria sembra cantare, come a ricordare che siamo tutti parte dello stesso respiro infinito. E il Cosmo, grato, sospira dolcemente.
La notte in cui il fuoco sciolse la neve
Ciao topolino, guarda un po’ dove siamo stasera.
Un’ora fa stavamo mangiando uno yogurth e dipingendo un cassettino, guardando fuori dalla finestra la neve che cadeva.
E ora siamo qui. Sai che sto facendo ora? Sono qui a piedi nudi, e sto guardando le piastrelle di un pavimento.
Le solite lastre di linoleum degli ospedali, queste sono verdine sai? un po’ strisciate qui e là.
Guardo i miei piedi, il verdino sporco, una pozzetta di sangue li’ a terra che, a quanto dicono, pare sia il mio, o il tuo, non ho ancora capito ma non importa molto.
Urlano un po’ tutti, ci sballottano. Infilano flebo e cateteri. Mi stanno letteralmente strappando vestiti, collane e orecchini. Qualcuno telefona “codice rosso, arriviamo”.
Sai topolino, si dice che esista una qualche forza nascosta e misteriosa. Lei arriva quando la tragedia sembra si stia per abbattere sulla nostra testa, ci abbraccia e per qualche attimo ci trascina via da lì.
In un luogo quieto dove ciò che ci sta accadendo è un problema altrui.
E mentre lo tsunami si gonfia e si prepara a travolgerci, noi pensiamo alla serie tv preferita, a quella ricetta di biscotti che ancora non abbiamo provato, alle tende etniche arancioni che vorremmo ma che non troviamo in nessun negozio.
Non so se è per questo…
Ma io ora, in mezzo a tutto questo fracasso, sto solo pensando con un sorriso che dovevi nascere sotto il segno dei Pesci, ma a quanto pare sarai un Acquario, e a noi Bilance gli Acquari piacciono un sacco.
Ora c’è questo medico grande e grosso che ci si pianta davanti.
Forse è irritato dal fatto che il suo smonto turno, evidentemente per colpa nostra, finirà ben più tardi del previsto.
Forse è basito dal fatto che in quella stanza, dove tutti corrono e strillano, io sembro una drogata che si guarda i piedi, tenendo una mano su quel pancione che è più piccolo di quello che dovrebbe essere. Forse ha solo paura, perché ora è tutto nelle sue mani, e se finisce male, sono grane grosse anche per lui. Mi prende le spalle, mi scuote leggermente: «Signora, non credo che il bambino ce la faccia. Signora ha capito? Ha capito che il bambino difficilmente glielo tiro fuori vivo?»
Alzo il viso dal pavimento verdastro e dai miei piedi, lo guardo negli occhi.
Che dice questo dottore? Ma che ne sa lui, topolino, di me e di te? Che ne sa che sei il mio ennesimo figlio, che i figli si amano tutti, ma ce ne sono alcuni che cascano nella vita, quando tutto sembra piatto e immutabile, per scrollarti e farti ripartire.
Che ne sa che sei piombato in un matrimonio ormai finito, in un grembo stanco che ormai pensava che di ‘ste cose non doveva più occuparsi. Dentro una donna che non sapeva più né chi era né dove andare.
Il dottore non lo sa, topolino, che da che sei qui dentro di me, mi hai fatto scoprire una forza che non pensavo di avere. E un amore che mi scalda come un fuoco quieto e scoppiettante, che sa di buono e di frasi piene di speranza e coraggio.
Questo dottore non può venirci a dire che tu forse muori topolino. Mica lo sa quanta forza ci siamo dati e quanti progetti abbiamo per noi.
E mentre ci addormentano con un ago, noi siamo sereni, vero?
Perché il dottore non sa niente di questo amore rosso e caldo, dell’abbraccio in cui ci teniamo da che sei apparso nella mia vita, come avvolti in una coperta di pelliccia a guardare le fiamme di un camino grande e allegro.
È passata, alla fine, questa incredibile notte di neve. E ora, nella mattina bianca e gelida che l’ha seguita, arrancando appesa alla flebo, busso alla porta della nursery.
Mi apre un’infermiera gentile, le sorrido: «Posso vedere il mio bambino per favore?»
Sei pieno di tubicini e piccolo come un coniglietto, e non mi stupisco affatto di vederti gia’ con gli occhi spalancati a cercare di capire da che parte iniziare a gustarti la vita.
Appoggio la mani sul vetro della tua incubatrice, c’e’ li’ attaccato un biglietto con su scritto il nome che ho scelto per te, quello che sarebbe stato il mio, se fossi stata un maschio.
«Ciao topolino, vedi che il dottore si sbagliava? Noi lo sapevamo vero?»
Giri un poco la testa verso la mia voce, spalanchi un po’ di più gli occhi.
Mi hai sentita e mi hai capita.
Io lo so e tu lo sai.
Benvenuto a te, amore mio.
La terra di Ines
Ines è vecchia. Ha ancora il 6 davanti… Ma lei sa di essere vecchia.
Non sa che peso ha nell’anima e nel corpo per farla muovere così lenta, per farla rintanare sempre di più nel suo salotto, l’eterno centrino da finire tra le dita gonfie. A volte ci pensa, alzando lo sguardo dall’uncinetto che dondola, sul perchè è così vecchia.
Forse è stato tutto il lavoro nei campi di quando ero ragazzina, le gravidanze, i sacrifici. I figli sotto le braccia nei rifugi, coi bombardamenti sulla testa, che sa mai quando sarebbe toccato a loro. Le pentole vuote, i ragazzini affamati, le dita spaccate dal gelo, che a lavar panni di ricchi lungo il Naviglio, qualche soldo in più entrava in casa.
Forse ecco… è stata un poco giovane quando, ormai in pensione, coi soldi risparmiati e i figli sistemati, lei e suo marito Primo hanno deciso di realizzare l’unico sogno che si erano permessi.. lì custodito da così tanti anni. Lasciare Milano e tornare alla loro Emilia, così impressa nelle carni dell’anima da farli sentire forestieri ovunque, e costruire la loro casa.
Aveva, l’orto, il frutteto, il pollaio e la conigliera… lo scantinato per le sementi e gli attrezzi. È stato il Primo a costruire tutto, mattone per mattone, ripiano per ripiano.
Il Primo, che in un giorno qualsiasi, lui che mai si era ammalato, ha perso la luce negli occhi, si è messo a letto e mai più si è alzato. Ecco, quel giorno che è rimasta in piedi di fianco a quella fossa al camposanto, Ines è tornata vecchia.
Ha messo nei bauli tutti i vestiti del Primo, ha preso due ragazzoni che si occupano di tutto, e lei fa centrini tutto il giorno, nel salotto buono degli ospiti, dove ormai non ci entra più nessuno.
Si alza con fatica solo per metter su una pastina, un uovo sodo, e poi rimette l’uncinetto tra le dita, tanto prima o poi il Primo la viene a prendere. Ma un giorno è accaduto che una delle sue figlie, in eta’ in cui di gravidanze non se ne dovrebbero far più, ha messo al mondo questa nuova bambina.
E questa cosa proprio l’ha messa in subbuglio, turbando quella lentezza immutabile che lei ha deciso essere l’unico spazio in cui sopravvivere. Vengono tutti i fine settimana, la figlia, il genero e questa piccina che, Dio la perdoni, proprio la Ines non sopporta. Le vuole bene, certo, si deve voler bene ai nipoti, per forza è così.
E lei ci prova, ci prova veramente, ma appena la vede dalla finestra, che inizia a saltare dall’orto al granaio, e poi nel frutteto, e mette quelle manine dappertutto, il respiro le si fa corto, piena di fastidio nel petto per tutta quest’aria bizzarra che questa bimba sparge in giro.
Arriva poi un giorno in cui gliela lascian lì una domenica mattina: «Mamma andiamo ad una sagra di paese lontana, la bimba si annoia, la lasciamo con te va bene»?
Vorrebbe urlare Ines… che no, non va bene e proprio non vuole… Ma come sempre nella vita, sorride e annuisce. E inizia questa domenica terribile. Ines la chiama dalla finestra: «Bimba non andar lì, bimba lascia stare le galline che le spaventi, bimba esci dal granaio, che se se si rovescia un sacco ti schiaccia».
Ferma alla finestra, con il respiro veloce che appanna il vetro, Ines pensa che se poi la bimba si fa male, la figlia e il genero avranno da ridire.. Sospira esausta, posa il centrino e inizia a scendere le scale che portano all’orto.
«Bimba, bimba dove sei?»
Esce da dietro un muro, sudata, con la magliettina sporca di terra e questi occhietti da furetto che scoppiettano.
«Nonna nonna… Ho scoperto dei tesori bellissimi, te li faccio vedere, vieni vieni vieni..»
La tira per un dito, e lei vorrebbe scrollar via quelle manine sporche, e dirle che lo sa bene cosa c’è nella sua terra, che il suo Primo ha costruito pezzo per pezzo. Ma sorride di sforzo, e si fa trascinare nel granaio.
«Nonna prova, se infili la mano nei sacchi, i chicchi le si mettono tutti attorno e la accarezzano.. E poi nonna, se metti dentro la faccia e respiri, senti che profumo di pane e biscotti».
Sospira Ines: “Va bene lo faccio, magari poi la bimba si mette tranquilla”.
Non si ricordava cosa fosse infilare una mano nei sacchi… Il miglio, il mais, il grano, la crusca… Quel profumo di forno e di pastone. Segue la bimba ad ogni sacco, finché questa le prende ancora il dito e lo tira: «Ora nonna vieni a conoscere le galline, sono diventata amica di tutte».
E lentamente Ines arranca al pollaio, il dito stretto non da’ più così fastidio.
Ed ecco la Nerina, la Parlante, la Fosca, la Lulù… Perchè Primo dava a ciascuna un nome, anche se poi finivano tutte nella pentola. E le vengono attorno chiocciando, e riesce ad abbassarsi quel tanto che basta per sfiorare le loro piume.
Che non ricordava fossero così morbide.
La bimba ride e le tira il dito, perché a quella piccola età, c’è troppo da scoprire per soffermarsi su qualcosa… «Nonna l’orto, l’orto, vieni a vedere cosa ho trovato».
Cammina piano Ines, con le gambe gonfie… ed ecco i pomodori, le carote, le insalate. Gli alberi di susine, di pesche, di ciliegie.
La bimba davanti che saltella, e che poi le si pianta davanti con aria seria: «Ora nonna, la cosa più meravigliosa… Non si vede ma si sente… Inginocchiati di fianco a me». Mai avrebbe pensato la Ines di riuscirci, anche solo di provarci. Ma scricchiolando e gemendo, si ritrova accucciata di fianco alla bimba.
«Nonna, fai come me, infila le mani nella terra… È calda nonna, vuol dire che è viva». Infila le sue dita nella terra smossa e sì: è calda, è viva. La terra, la sua terra.
Che in una qualsiasi domenica d’estate, le ha ricordato di riprendere a vivere.
Scricchiolando e gemendo, Ines si tira in piedi.
«Bimba, andiamo, ti faccio la cioccolata». Non le tira più il dito, sorride e infila la manina nella sua.
E, pian piano, rientrano in casa.
Il giardino dei ricordi
Stamattina Giuditta è più mesta del solito. Non è andata, come ogni giovedì, al bar per la colazione con le sue amiche. È triste e malinconica, guarda il giardino della sua casa avvolto da una nebbiolina umida e i ricordi arrivano cattivissimi e implacabili a marcare la differenza tra ieri e oggi.
Si rivede giovane sposa, attraversare la porta d’ingresso di casa tra le braccia del suo Guglielmo, come tradizione vuole, e suggellare il passaggio con un bacio appassionato.
Quella casa così tanto desiderata ma fonte di molti pensieri, preoccupazioni e con un mutuo trentennale da pagare.
Lei e il suo Elmo, così lo chiamava, si sentivano invincibili insieme e pronti ad affrontare qualsiasi imprevisto.
Rivede il loro giardino, oggi verde, colmo di ortensie rose e gelsomini, incolto e secco e il loro orto, allora pieno di sterpaglie, dissodati, seminati e coltivati con tanto amore per la gioia dei loro figli.
Ricorda ancora le voci dei piccoletti: «Papà, possiamo assaggiare i pisellini?»
«Posso strappare le carote?»
«Ma quando possiamo mangiare le more?»
Le stagioni si susseguono e l’orto e il giardino ne scandiscono il tempo.
È Pasqua! Lei ha preparato gli ovetti di cioccolato avvolti nella carta crespa e li ha nascosti tra le siepi delle azalee, sull’albicocco, in mezzo alle ortensie e tra i rami del gelsomino.
«Si parte per la caccia al tesoro. Siete pronti? Via!»
Otto bambini tra figli e nipoti corrono per il giardino alla ricerca degli ovetti.
«Acqua… acqua… acqua… fuochino… fuochino… fuoco!»
Ecco il primo è stato trovato e via via si continua fino a trovarli tutti.
Lei ha voluto ripristinare la caccia al tesoro degli ovetti perché era una tradizione della sua famiglia di origine.
Il nonno materno nascondeva nell’orto le uova sode e poi invitava i piccoli di casa a trovarle. Un nonno avanti, moolto più avanti della Ferrero che decenni dopo ha portato la caccia agli ovetti in televisione.
«Mamma, ci hanno copiato!» dicono i figli ormai divenuti adulti.
Adesso il giardino nasconderà gli ovetti per i nipotini.
Li vede correre coi piedini nudi sull’erba tagliata dal suo Guglielmo e pensa che é stata molto felice con lui anche se il giorno del matrimonio lei è arrivata prima di lui in chiesa.
Ebbene sì! Si è fatto aspettare: già da allora avrebbe dovuto capire come sarebbero andate le cose . Anche stavolta è arrivata prima, ma oggi non è impaziente, lo aspetterà con trepidazione e quando arriverà si abbracceranno nuovamente, vestiti di luce.
C’era una Volta, nello stesso Tempo
Tutte le ragazze di qualsiasi tempo sognano di sposare il Principe. Avevo questo sogno anch’io, ne parlavo per interminabili notti con il mio diario, l’amico più intimo che abbia mai avuto. Ahimé, chissà che fine avrà fatto. Sarà rimasto nella vecchia casa, dove nessuno l’ha mai più cercato, nemmeno quei due fratelli che avevano battuto ogni contrada della regione a caccia di storie.
Di uomini ce ne sono tanti, ma di Principe ce n’è uno solo. Sposarsi, è tutta qui la chiave del successo. Conquista un uomo onesto e sarai rispettabile, sposa un uomo incostante e sarai una disgraziata, vivendo nel riflesso dei suoi vizi. Puoi sperare in un colpo di fortuna oppure prendere parte alla corsa per colpirli, interessarli, convincerli ad investire.
Da sola non arrivi da nessuna parte, e se ci arrivi ti ritrovi a pezzi, irriconoscibile, sfigurata dai compromessi e con l’anima martoriata dai ricatti.
Nostra madre restò vedova quando ancora eravamo fanciulle. Fu in quei duri mesi che ci forzò a studiare canto e pianoforte, per quanto non fossimo particolarmente portate per la musica. Mentre affinavamo i nostri talenti, il volto di nostra madre si riempì di rughe d’apprensione e, consumandosi lentamente d’angoscia per il futuro di tutte noi, diventò inflessibile, severa, e spietata.
Grazie alla Provvidenza, di lì a poco si risposò con un uomo per bene, agiato e frequentemente lontano per affari. Era chiaro, a me e a mia sorella, che nostra madre aveva giocato bene le sue carte, anche quelle che non aveva. Ci trasferimmo a vivere nella grande casa del nostro patrigno, un palazzo vecchio ma decoroso, con una bella tenuta.
Un semplice sguardo di nostra madre spazzò via la nostra timidezza e varcammo quella soglia col mento alto, forse sentendoci già un poco regine ma, disgraziatamente, non eravamo sole.
Il nostro patrigno aveva una figlia, una ninfa dei boschi dagli occhi sognanti, terribilmente innocenti. Il suo sorriso, un incantesimo potente, ogni suo boccolo dorato era un’opportunità in più rispetto a quelle che la sorte aveva riservato a me. Da lì a pochi anni il salotto sarebbe stato frequentato da file di pretendenti, tutti interessati alla bella e ricca figlia del mercante. Ad asta terminata saremmo rimaste noi fondi di magazzino.
Allora ci detergemmo la coscienza con la perfidia di nostra madre e demmo inizio a quel gioco strano, che ci divertiva e ci teneva occupate durante le lunghe giornate in casa. Le imbrattavamo il viso, i capelli e i vestiti con la cenere, la obbligavamo poi ad umiliarsi, facendole mangiare la terra impastata con le sue stesse lacrime. Ci consolavamo così, giocando alle padrone.
Una mattina sentimmo bussare alla porta. Ricevendo poche visite ci vestimmo in fretta e ci precipitammo ad accogliere le notizie in arrivo. Un messaggero reale lasciò nelle mani di mia madre un invito rivolto alla nostra famiglia, a prendere parte al gran ballo di Palazzo. Con l’occasione il Principe avrebbe scelto la sua sposa.
Non vedevo il Principe da tempo, da quando eravamo stati ufficialmente presentati al mio primo ballo, chissà se si ricordava di me. Lui era giovane e prestante, dai modi inappuntabili. Non so se fossero gli occhi celesti o la corona, portata con uno stile quasi personale, ma per quei pochi attimi passati insieme mi era piaciuto.
Giorni interi di preparativi, mia madre, mia sorella e io ci presentammo al gran ballo nella nostra forma migliore. Gioielli lucidati fino a far sanguinare le dita, stoffe di prima scelta, capelli intrecciati con la minuzia di una ricamatrice. Mi sentivo come se tutti gli occhi del regno mi guardassero, conducendomi lungo il tappeto rosso più importante della mia vita.
Sporgevo lo sguardo oltre la folla e lo vedevo volteggiare a tempo di musica, non riuscendo mai a capire con chi avesse dato inizio alle danze. La gente si accalcava muta attorno al centro della sala, con gli occhi incantati puntati su quella coppia come se stesse assistendo a un prodigio. Quando finalmente riuscii a distinguere bene il Principe e la sua incantevole dama rimasi paralizzata, un brivido gelido si propagò per tutto il mio corpo, dai piedi alle braccia, fino alle lacrime.
Non riuscivo a spiegarmi come fosse arrivata fino a quella sala, con un vestito intessuto di fili d’argento e lievi scarpette di cristallo ai piedi, ma avrei riconosciuto quei capelli biondi in meno di un secondo fra tutte le teste presenti quella sera. Finii lo champagne che avevo nel bicchiere, ne chiesi un altro, assaporai anche quell’ultimo sorso di magia e con mia madre e mia sorella ritornai a casa.
La mattina seguente il messaggero reale bussò nuovamente alla nostra porta, con un’insistenza maggiore rispetto alla prima volta. Entrò e si accomodò, reggeva un cuscino di raso tinto di porpora, su cui mostrava una piccola e perfetta scarpetta di cristallo. Qualsiasi cosa fosse andata storta dopo che avevamo lasciato la sala, il Principe voleva ritrovare l’incantevole dama con cui aveva danzato tutta la sera, avrebbe sposato senza indugiare la fanciulla il cui piede avrebbe calzato quel minuscolo tesoro.
La nostra bionda sorella doveva aver lasciato il Palazzo con una certa fretta, peggio per lei. Andai in cucina e con un coltello affilato mi tagliai di netto le dita del piede. Indossai con facilità la scarpetta, ma fui tradita da un filo di sangue che colava silenzioso lungo il tacco.
Mi sedetti in un angolo piangendo dal dolore, in quel medesimo momento lei si faceva avanti, indossava la scarpetta con leggerezza e in uno schiocco di dita raggiungeva il Principe che la aspettava trepidante all’altare.
All’uscita della chiesa due colombe bianche si posarono sulla sua spalla. Come però il suo sguardo si incontrò con il mio, sussurrò una parola e i due uccelli si alzarono in volo. Raggiunsero me e mia sorella e ci cavarono gli occhi.
Ci ritrovammo così, al centro di una folla festante, noi punite con la cecità, e lei con la sua innocenza avvelenata dalla vendetta, costrette a guardare in faccia il futuro senza nessuna gloria, forse avrebbe potuto finire diversamente. Se fossimo state unite.