Il giardino dei ricordi

Stamattina Giuditta è più mesta del solito. Non è andata, come ogni giovedì, al bar per la colazione con le sue amiche. È triste e malinconica, guarda il giardino della sua casa avvolto da una nebbiolina umida e i ricordi arrivano cattivissimi e implacabili a marcare la differenza tra ieri e oggi.
Si rivede giovane sposa, attraversare la porta d’ingresso di casa tra le braccia del suo Guglielmo, come tradizione vuole, e suggellare il passaggio con un bacio appassionato.
Quella casa così tanto desiderata ma fonte di molti pensieri, preoccupazioni e con un mutuo trentennale da pagare.
Lei e il suo Elmo, così lo chiamava, si sentivano invincibili insieme e pronti ad affrontare qualsiasi imprevisto.
Rivede il loro giardino, oggi verde, colmo di ortensie rose e gelsomini, incolto e secco e il loro orto, allora pieno di sterpaglie, dissodati, seminati e coltivati con tanto amore per la gioia dei loro figli.
Ricorda ancora le voci dei piccoletti: «Papà, possiamo assaggiare i pisellini?»
«Posso strappare le carote?»
«Ma quando possiamo mangiare le more?»
Le stagioni si susseguono e l’orto e il giardino ne scandiscono il tempo.
È Pasqua! Lei ha preparato gli ovetti di cioccolato avvolti nella carta crespa e li ha nascosti tra le siepi delle azalee, sull’albicocco, in mezzo alle ortensie e tra i rami del gelsomino.
«Si parte per la caccia al tesoro. Siete pronti? Via!»
Otto bambini tra figli e nipoti corrono per il giardino alla ricerca degli ovetti.
«Acqua… acqua… acqua… fuochino… fuochino… fuoco!»
Ecco il primo è stato trovato e via via si continua fino a trovarli tutti.
Lei ha voluto ripristinare la caccia al tesoro degli ovetti perché era una tradizione della sua famiglia di origine.
Il nonno materno nascondeva nell’orto le uova sode e poi invitava i piccoli di casa a trovarle. Un nonno avanti, moolto più avanti della Ferrero che decenni dopo ha portato la caccia agli ovetti in televisione.
«Mamma, ci hanno copiato!» dicono i figli ormai divenuti adulti.
Adesso il giardino nasconderà gli ovetti per i nipotini.
Li vede correre coi piedini nudi sull’erba tagliata dal suo Guglielmo e pensa che é stata molto felice con lui anche se il giorno del matrimonio lei è arrivata prima di lui in chiesa.
Ebbene sì! Si è fatto aspettare: già da allora avrebbe dovuto capire come sarebbero andate le cose . Anche stavolta è arrivata prima, ma oggi non è impaziente, lo aspetterà con trepidazione e quando arriverà si abbracceranno nuovamente, vestiti di luce.

C’era una Volta, nello stesso Tempo

Tutte le ragazze di qualsiasi tempo sognano di sposare il Principe. Avevo questo sogno anch’io, ne parlavo per interminabili notti con il mio diario, l’amico più intimo che abbia mai avuto. Ahimé, chissà che fine avrà fatto. Sarà rimasto nella vecchia casa, dove nessuno l’ha mai più cercato, nemmeno quei due fratelli che avevano battuto ogni contrada della regione a caccia di storie.

Di uomini ce ne sono tanti, ma di Principe ce n’è uno solo. Sposarsi, è tutta qui la chiave del successo. Conquista un uomo onesto e sarai rispettabile, sposa un uomo incostante e sarai una disgraziata, vivendo nel riflesso dei suoi vizi. Puoi sperare in un colpo di fortuna oppure prendere parte alla corsa per colpirli, interessarli, convincerli ad investire.

Da sola non arrivi da nessuna parte, e se ci arrivi ti ritrovi a pezzi, irriconoscibile, sfigurata dai compromessi e con l’anima martoriata dai ricatti.

Nostra madre restò vedova quando ancora eravamo fanciulle. Fu in quei duri mesi che ci forzò a studiare canto e pianoforte, per quanto non fossimo particolarmente portate per la musica. Mentre affinavamo i nostri talenti, il volto di nostra madre si riempì di rughe d’apprensione e, consumandosi lentamente d’angoscia per il futuro di tutte noi, diventò inflessibile, severa, e spietata.

Grazie alla Provvidenza, di lì a poco si risposò con un uomo per bene, agiato e frequentemente lontano per affari. Era chiaro, a me e a mia sorella, che nostra madre aveva giocato bene le sue carte, anche quelle che non aveva. Ci trasferimmo a vivere nella grande casa del nostro patrigno, un palazzo vecchio ma decoroso, con una bella tenuta.

Un semplice sguardo di nostra madre spazzò via la nostra timidezza e varcammo quella soglia col mento alto, forse sentendoci già un poco regine ma, disgraziatamente, non eravamo sole.

Il nostro patrigno aveva una figlia, una ninfa dei boschi dagli occhi sognanti, terribilmente innocenti. Il suo sorriso, un incantesimo potente, ogni suo boccolo dorato era un’opportunità in più rispetto a quelle che la sorte aveva riservato a me. Da lì a pochi anni il salotto sarebbe stato frequentato da file di pretendenti, tutti interessati alla bella e ricca figlia del mercante. Ad asta terminata saremmo rimaste noi fondi di magazzino.

Allora ci detergemmo la coscienza con la perfidia di nostra madre e demmo inizio a quel gioco strano, che ci divertiva e ci teneva occupate durante le lunghe giornate in casa. Le imbrattavamo il viso, i capelli e i vestiti con la cenere, la obbligavamo poi ad umiliarsi, facendole mangiare la terra impastata con le sue stesse lacrime. Ci consolavamo così, giocando alle padrone.

Una mattina sentimmo bussare alla porta. Ricevendo poche visite ci vestimmo in fretta e ci precipitammo ad accogliere le notizie in arrivo. Un messaggero reale lasciò nelle mani di mia madre un invito rivolto alla nostra famiglia, a prendere parte al gran ballo di Palazzo. Con l’occasione il Principe avrebbe scelto la sua sposa.

Non vedevo il Principe da tempo, da quando eravamo stati ufficialmente presentati al mio primo ballo, chissà se si ricordava di me. Lui era giovane e prestante, dai modi inappuntabili. Non so se fossero gli occhi celesti o la corona, portata con uno stile quasi personale, ma per quei pochi attimi passati insieme mi era piaciuto.

Giorni interi di preparativi, mia madre, mia sorella e io ci presentammo al gran ballo nella nostra forma migliore. Gioielli lucidati fino a far sanguinare le dita, stoffe di prima scelta, capelli intrecciati con la minuzia di una ricamatrice. Mi sentivo come se tutti gli occhi del regno mi guardassero, conducendomi lungo il tappeto rosso più importante della mia vita.

Sporgevo lo sguardo oltre la folla e lo vedevo volteggiare a tempo di musica, non riuscendo mai a capire con chi avesse dato inizio alle danze. La gente si accalcava muta attorno al centro della sala, con gli occhi incantati puntati su quella coppia come se stesse assistendo a un prodigio. Quando finalmente riuscii a distinguere bene il Principe e la sua incantevole dama rimasi paralizzata, un brivido gelido si propagò per tutto il mio corpo, dai piedi alle braccia, fino alle lacrime.

Non riuscivo a spiegarmi come fosse arrivata fino a quella sala, con un vestito intessuto di fili d’argento e lievi scarpette di cristallo ai piedi, ma avrei riconosciuto quei capelli biondi in meno di un secondo fra tutte le teste presenti quella sera. Finii lo champagne che avevo nel bicchiere, ne chiesi un altro, assaporai anche quell’ultimo sorso di magia e con mia madre e mia sorella ritornai a casa.

La mattina seguente il messaggero reale bussò nuovamente alla nostra porta, con un’insistenza maggiore rispetto alla prima volta. Entrò e si accomodò, reggeva un cuscino di raso tinto di porpora, su cui mostrava una piccola e perfetta scarpetta di cristallo. Qualsiasi cosa fosse andata storta dopo che avevamo lasciato la sala, il Principe voleva ritrovare l’incantevole dama con cui aveva danzato tutta la sera, avrebbe sposato senza indugiare la fanciulla il cui piede avrebbe calzato quel minuscolo tesoro.

La nostra bionda sorella doveva aver lasciato il Palazzo con una certa fretta, peggio per lei. Andai in cucina e con un coltello affilato mi tagliai di netto le dita del piede. Indossai con facilità la scarpetta, ma fui tradita da un filo di sangue che colava silenzioso lungo il tacco.

Mi sedetti in un angolo piangendo dal dolore, in quel medesimo momento lei si faceva avanti, indossava la scarpetta con leggerezza e in uno schiocco di dita raggiungeva il Principe che la aspettava trepidante all’altare.

All’uscita della chiesa due colombe bianche si posarono sulla sua spalla. Come però il suo sguardo si incontrò con il mio, sussurrò una parola e i due uccelli si alzarono in volo. Raggiunsero me e mia sorella e ci cavarono gli occhi.

Ci ritrovammo così, al centro di una folla festante, noi punite con la cecità, e lei con la sua innocenza avvelenata dalla vendetta, costrette a guardare in faccia il futuro senza nessuna gloria, forse avrebbe potuto finire diversamente. Se fossimo state unite.

Fiume

Sono a letto, fuori piove, e piove forte.
Stasera è stata una bella serata, mamma ha fatto la torta di mele, la mia preferita.  Mio fratello però non lo sopporto più, con quel suo modo di prendermi sempre in giro. Ora voglio dormire, chiudere gli occhi e sognare Matteo. Quanto è bello!
Domani voglio indossare il vestitino a fiori che mi ha fatto la nonna, magari mi noterà.
Fuori continua a piovere, non so se riuscirò a prendere sonno. Piove così forte che sembra di avere la pioggia in casa.
Ma cos’è questo rumore, sembra che qualcuno abbia spalancato la porta di casa.
Scendo dal letto. Oh mio Dio! Ho l’acqua fino alle ginocchia.
Sento papà che urla: “Venite qui che moriamo tutti insieme!” Cosa sta succedendo?! Urlo: “Papà?! mamma?! Antonio?!”
Riesco faticosamente ad arrivare fino in cucina mentre l’acqua continua a salire.
No! Non mi lascerò trascinare via.
Mi aggrappo a qualcosa, non so cosa sia ma presto anche questa comincia a fluttuare nell’acqua che ormai mi arriva quasi alla gola, è sporca e ha un cattivo odore. Ho paura!
Non trovo più mamma, neanche papà. Vorrei urlare ma l’acqua mi inghiottisce.  Forse è solo un brutto sogno o forse ora smetterò di sognare per sempre…
Per sempre.

Uomini pipistrello – Parte tre

Tempo

 

Miro non si era aspettato che a guardia del deposito ci fossero umani. Aveva raccolto molti dati, era certo di non trovarne. Eppure…
Quel giorno era prevista una grossa consegna, così oltre ai Bite e ai Cop, c’erano poliziotti armati. La differenza tra Cop e poliziotti saltava subito all’occhio. I primi non avevano cannule né bombole d’ossigeno: erano androidi. I secondi avevano la testa protetta da grandi caschi tondi che ricordavano quelli degli astronauti.
Per fortuna, Miro li aveva visti da lontano. Non aveva avuto scelta. Era stato costretto a ordinare al Notabile di fermarsi e invertire la rotta verso l’ingresso delle fognature.
Era rientrato tanto illeso quanto sconfitto. Ma non era quello il problema.
Il Notabile lo aveva lasciato scendere con un ghigno in faccia: «Vaff, Bat», aveva sibilato.
«Anche a te, carogna», aveva risposto Miro scandendo bene le parole, come se il fatto di non badare all’ossigeno sprecato fosse un’ulteriore offesa nei confronti dell’uomo grasso e roseo.
Quando Miro raggiunse il luogo dove viveva con sua madre Gala e la moglie Leda, non vide né l’una, né l’altra.
Era pieno giorno, ma le tre loro amache pendevano dal soffitto come sacchi vuoti.
Si girò verso il loro rifugio, il Rif. Un tenue bagliore proiettava sulle pareti di plastica due sagome accucciate. Si precipitò con il cuore in gola verso di loro.
Quando scostò la tenda d’ingresso, quattro occhi lo guardarono spaventati. Miro si bloccò per un istante, scrollò la testa e alzò le mani vuote. Gala e Leda compresero.
La madre di Miro gli fece cenno di avvicinarsi. In quel momento, Leda chiuse gli occhi e sul suo viso si disegnò una smorfia di dolore. Miro girò intorno alle due donne e si accucciò dietro Leda. Le cinse le braccia mettendo le sue mani su quelle della moglie. Si sedette per sostenerne il corpo.
Gala era intenta a misurare il tempo delle contrazioni. Tempo tra una e l’altra. Tempo tra la nascita di Hope e i suoi primi respiri. Gala aveva preparato una piccola bombola. L’aveva riempita giorno dopo giorno, rinunciando a qualche minuto di respiro.
Leda doveva soffrire in silenzio. Meno gente si accorgeva della nascita, meglio era.
Qualcuno avrebbe potuto denunciarli, segnalare la presenza del neonato ai droni di controllo che ogni giorno attraversavano le fogne per la conta delle teste.
Nei mesi precedenti, Gala e Leda avevano preparato stoffe pulite e fatto sobbollire il fango per raccogliere il vapore, goccia dopo goccia, tanto da riempire un piccolo mastello.
Leda si era rilassata tra le braccia di Miro. Piangevano entrambi, per l’emozione e per il loro bambino: non era ora di metterlo al mondo. Non ancora. Ma la natura se n’era fregata. La natura era diventata ostile all’umanità tanto quanto l’umanità lo era stata con lei nel corso dei millenni.
Di nuovo, una contrazione fece irrigidire Leda. A Miro parve di sentirne le scosse in petto. Gala fece cenno che erano passati quattro minuti dalla precedente. Fece un sospiro e si preparò a gestire la parte finale del travaglio della nuora.
Prese le mani di Miro e le mise sotto le ascelle di Leda perché la sostenesse, poi s’inginocchiò tra le gambe aperte e prese a massaggiare la zona pelvica, controllando la dilatazione.
Le contrazioni si fecero sempre più ravvicinate. Leda aveva afferrato una mano di Miro e la mordeva ogni qualvolta gliene arrivava una. Miro era grato per quel dolore che gli puliva la testa, lo rendeva più lucido e concentrato.
Hope nacque dopo un paio d’ore. Era una bambina bellissima.
Gala la prese, ne pulì il corpo e liberò le vie respiratorie, poi le attaccò la piccola bombola.
La bambina era piccola ma piangeva a squarciagola, sana e forte come non si aspettavano, data la nascita prematura.
Intorno al Rif si formò un capannello di Bats. Leda aveva preso in braccio la sua bambina e guardava le ombre fuori in segno di sfida. Miro le accarezzava entrambe, protettivo.
Gala si sedette vicino a Leda, riprese in braccio la piccola Hope e iniziò ad annusarle la testolina, a baciare le manine. Piangeva di gioia e d’amore. Era nonna, il suo sogno.
Riconsegnò Hope ai genitori e uscì dal Rif. Leda attaccò la bimba al seno gonfio del primo latte. Colostro.
Gala si fermò qualche istante per parlottare brevemente con gli altri Bats che si dileguarono.
Poco dopo, Leda, Miro e la piccola Hope si addormentarono profondamente.
Anche Gala, nella sua amaca, si addormentò profondamente, ma il suo sonno era indotto.
Fu Miro a svegliarsi per primo, angosciato dal fatto che presto sarebbe terminato l’ossigeno della piccola.
Uscì dal Rif un po’ intontito. A terra, vide una bombola. Era quella di Gala.
Istintivamente alzò gli occhi verso l’amaca di sua madre e vide un braccio sporgere, una mano pendere verso il tetto del Rif, chiusa quasi a pugno. Solo due dita erano rimaste aperte, come a benedire quella piccola capanna sottostante. Tutto, in quell’amaca, sembrava aver abbandonato la vita ed essere in un altro dove, in un altro tempo. Miro capì.
Gala si era sacrificata per la piccola Hope, la sua nipotina.
L’aveva presa in braccio e si era riempita gli occhi di quel visino perfetto. L’aveva stretta, ne aveva respirati l’odore e il pianto.
Poi, con un senso di compiutezza, aveva fatto senza esitare il suo più grande gesto d’amore.

Uomini pipistrello – Parte due

Terra

Miro mostrava a Leda e Gala, sua madre, il disegno che aveva fatto con un carboncino. Sembrava quasi una mappa del tesoro.
Una croce indicava un punto, altri simboli segnalavano i terribili Bite, droni di terra pronti a eliminare qualsiasi presenza non riconosciuta, alcuni numeri mostravano i Cop, androidi a scorta dei vagoni di bombole e cibo che ogni mattina, all’alba, erano depositati all’ingresso delle fogne, luogo dove i Bat vivevano. Meglio, sopravvivevano.
Due rette parallele contrassegnavano il percorso che faceva la motrice con al seguito i vagoni. Per la maggior parte, il percorso era sotterraneo. Nessun umano si occupava della distribuzione. Il primo lo s’incontrava nella stazione di ricarica: esattamente sulla croce, luogo da dove il treno partiva e tornava.
Lì si prelevava elettricità. I Notabili potevano farlo, avevano autoblindo generatori. Loro, i Bats, no.
Un notabile alla volta, dopo il riconoscimento, conduceva il proprio mezzo al tappeto di ricarica: qualche istante e poteva ripartire con il pieno. Tutto nella massima sicurezza, protetto dai feroci Bite e dagli altrettanto spietati Cop. Nessuno si sarebbe mai sognato di fare un colpo in quel luogo. Miro sì.
L’intento era di arrivare alla stazione nascosto in un vagone. Sotto la giacca avrebbe custodito il Kill. Ne aveva sperimentato più e più volte l’efficacia: emetteva ultrasuoni che inducevano qualche secondo di confusione ai Cop così come ai Bite. Poco tempo, ma poteva bastare per saltare dentro un autoblindo, puntare un bastone al naso di un Notabile e ripartire verso il nuovo deposito di ossigeno. Lì doveva rubare cento bombole per Hope, e tornare nelle fogne. Cento bombole per il suo bambino che sarebbe nato tra poche settimane. Forse prima: Leda aveva avuto contrazioni e perso il tappo.
Per fortuna, gl autoblindo erano protetti da uno scudo di sorveglianza. Una volta dentro, si era al sicuro.
Gala e Leda osservavano la mappa. Tutto sembrava semplice. Tutto era ragionevolmente impossibile. Tutto sarebbe avvenuto il giorno dopo.

La luce dell’alba illuminava a stento l’ingresso della fogna. Miro poteva vederne i contorni perché un buco mai chiuso lasciava penetrare raggi di luce giallastra. Non era per dimenticanza che quella breccia nel terreno era stata lasciata. No. Semplicemente serviva a ferire gli occhi dei Bats durante la consegna. Loro potevano muoversi solo di notte. Il giorno non doveva appartenergli.
Miro aveva gli occhi protetti dalle bende velate che sua madre aveva preparato. Stava nascosto in un anfratto della roccia, schiacciato contro la parete. La terra sudava gocce nere che gli penetravano nel collo della giacca. Le sentiva scivolare giù per la collottola. Alcune avevano raggiunto le sue mani. Era fango. Fango e terra, terra e fango. Dal fango, i Bats recuperavano l’acqua. Dalla terra nulla. Era completamente sterile. Miro, a testa bassa, ne guardava l’aspetto. Era come sabbia nera coagulata dal grasso acido caduto dal cielo.
Tempo addietro, una pioggia mefitica aveva causato l’apocalisse e l’atmosfera ne era ancora pregna. Perciò l’ossigeno scarseggiava. Attribuivano la causa al fato, in realtà tutti sapevano che era il frutto di diverse esplosioni: gli stati erano corsi al riarmo e qualche pazzo aveva innescato il primo ordigno. In risposta, era partita una seconda bomba, una terza, altre, tante, troppe. Nuvole nere continuavano a levarsi e correre sospinte da venti atomici. La terra aveva sporcato il cielo, il cielo aveva poi restituito alla terra deiezioni vischiose.
Miro sentì il sibilo della cabina muovere l’aria nel condotto.
All’arrivo, i vagoni si ribaltarono velocemente per scaricare e ripartire. Miro accese il suo Kill. Con soddisfazione, vide quei maledetti Bite girare su se stessi come scarafaggi capovolti. Saltò dentro un vagone.
Nel frattempo, si erano ammassati molti Bats, ma nessuno fece caso, presi com’erano a distribuire bombole e cibo. C’era anche Gala tra loro. Seguì il figlio con lo sguardo, la bocca le tremava in una preghiera.
Miro avvertì una piccola spinta: il treno era ripartito. Per fortuna, le pareti dei convogli erano spesse e alte. Supino, espirava in un panno umido per evitare che il calore del fiato fosse rilevato dagli infrarossi. Aveva un buon lasso di tempo prima che le emanazioni del suo corpo saturassero il vagone.
Passarono un paio di minuti, poi il treno iniziò a frenare e si fermò. Una scarica di adrenalina pervase Miro. Si sistemò la benda sugli occhi prima di azionare il Kill. Ancora una volta iniziò a fremere. Senza guardarsi intorno, Miro era saltato fuori ed era corso verso il tappeto di ricarica. Una cinquantina di metri, non di più. Cercò di rimettere il suo Kill nella giacca, ma le mani scivolose lo fecero cadere. Miro non poteva fermarsi per raccoglierlo.
Piombò dentro l’autoblindo di un Notabile che, grasso e roseo, sorrideva al nulla mentre ricaricava il suo mezzo.
La faccia dell’uomo si trasformò in una maschera di terrore quando vide il bastone appuntito vicino alla cannula. Come d’istinto alzò le mani, ma Miro fu più veloce, gliene prese una e gli girò il braccio dietro la schiena. Poi intimò: «Input coordinate». Aveva indicato il simbolo da mostrare al lettore ottico. Il Notabile aveva obbedito e autorizzato la scansione. Il mezzo partì veloce.
Miro aveva lanciato un’occhiata in direzione del suo Kill. Stava ancora fremendo, così come parevano tremare i Bite e i Cop tutt’attorno. Si chiese come avrebbe fatto senza di lui al deposito. Sperava che il Notabile, sotto minaccia, avrebbe collaborato.
«Se aiuti, no mal», gli aveva sibilato nell’orecchio. L’uomo aveva annuito terrorizzato. I suoi vestiti candidi avevano vistose macchie di terra.

Non era quello il problema.

Segue parte 3 in ‘Tempo’

 

Uomini pipistrello. Prima parte

Uomini pipistrello – Parte 1
Aria
La luce del fuoco illuminava i volti scavati e neri di fuliggine delle tre figure che sembravano assorte in una meditazione penosa. Ognuna di esse respirava lentamente attraverso le cannule delle bombole messe a disposizione dal Governo. Per loro, Bats, uomini pipistrello, era prevista una quantità di ventiquattro ore. Non un secondo di più. Bisognava stare attenti, centellinare il fiato. Era perciò, ad esempio, che era loro vietato avere nomi più lunghi che quattro lettere. Solo i Notabili potevano arrivare fino a sei. C’erano molte altre cose vietate ai Bats e permesse ai Notabili. Come avere un figlio. Ai ricchi ne era concesso uno per coppia.
Si chiamavano Bats, perché come pipistrelli vivevano e a questi, ormai, assomigliavano.
Abitavano le fogne di una metropoli pressoché abbandonata. Tutte le città si erano svuotate di gente. Morivano, semplicemente.
Gli alti grattacieli erano stati trasformati in orti o allevamenti.
Molto cibo era per i notabili, poco per gli uomini pipistrello. Come l’ossigeno, che scarseggiava di giorno in giorno.
Non per i notabili che addirittura facevano feste, si ubriacavano d’aria.
I Bats potevano girare solo di notte e solo nei limiti segnalati da cartelli fluorescenti, lontano dai quartieri alti. Di giorno, vivevano nelle tubature e passavano la maggior parte del tempo a dormire in amache che pendevano dal soffitto. In alto, si poteva respirare meglio. Prima di ritirarsi nei giacigli appesi, disseminavano il terreno di trappole per topi. Quella carne schifosa andava ad aggiungersi al cibo scarso fornito, una volta il giorno, insieme all’ossigeno.
Tutto, in quei recessi bui, era nero per via della fuliggine. Volte nere, amache nere, facce nere.
In quel momento, dove fuori era mattino, tre persone stavano parlando davanti a un fuoco celato sotto pochi teli. Avevano un problema maggiore della carenza di ossigeno o di cibo: Leda, la donna più giovane, era incinta. Al suo fianco, Miro, padre del bambino. Di fronte, Gala, madre di Miro.
Era semplice nascondere la gravidanza di una Bat. Nessuno veniva mai a fare controlli così specifici. Piuttosto mandavano droni per contare i capi. Tante bombole quante teste.
Il problema veniva dopo la nascita.
Leda, Miro e Gala avevano lungamente sperato nella coincidenza che Tom morisse a ridosso del parto. Ma il vecchio se n’era andato troppo presto e, al momento, nessun altro sembrava avere intenzione a tirare le cuoia.
Se Tom fosse morto con qualche settimana di ritardo, avrebbero praticato un cesareo: il capo del vecchio passava sul neonato.
Lo avrebbero chiamato Hope, speranza, sia fosse stato maschio, sia femmina.
Era da molto che non nascevano bambini Bats. Nessuno voleva una bocca in più da sfamare e da far respirare: Leda, Gala e Miro dovevano sbrigarsela da soli.
«Nuovo deposito tangenziale nord», diceva sottovoce Miro, attento a dosare le lettere.
«Bite», aveva risposto Leda accarezzandosi la pancia ormai voluminosa. Era bella, Leda, era meraviglioso il suo sguardo azzurro, amorevole, tanto da illuminare le anime di Miro e Gala.
I Bite erano droni di terra. Viaggiavano a duemila chilometri orari intorno ai depositi di ossigeno. La forma ricordava uno scarafaggio e avevano antenne che potevano cogliere movimenti a centinaia di metri, terra o cielo. Volatilizzavano ogni cosa o persona non riconosciuta. Chi era intercettato, aveva dieci secondi di tempo per fornire matricola e riconoscimento facciale. I Bats avevano tutti lo stesso numero: 111. Fine sicura. Nessuno andava per il sottile se moriva un Bat.
«Rapirò notabile», aveva detto Miro. Ormai le frasi erano tagliate, ridotte al minimo. Si parlava mentre si espirava. Le voci strozzate erano sempre più simili agli stridi dei pipistrelli.
«Notabite», aveva sussurrato Gala. Gala era vecchia, quasi cinquant’anni. Diventava nonna. Il suo sogno. Ciò che intendeva per notabite era che anche i notabili avevano al loro seguito almeno un Bite.
Miro si alzò lentamente. I muscoli tendevano ad atrofizzarsi e i tendini ad allungarsi. Le braccia, le gambe lunghe e sottili, sembravano lanciarsi dal breve busto. Sempre più pipistrelli senz’ali.
Camminava piano, Miro, attento a non svegliare gli altri. Si era fermato in prossimità del loro rifugio: tre pareti e il soffitto in telo agricolo delimitavano l’area a loro disposizione. Rif, li chiamavano ed erano meno che capanne. Il loro era di tre metri per tre. Ogni Bat aveva un metro a disposizione. Se si consociavano, potevano sommare i metri. I Rif erano ricoveri e latrine al tempo stesso. Nei secchi si facevano i bisogni, con la cenere ci si lavava, a terra si curavano i malati. In caso di necessità, nei Rif era addirittura possibile farsi operare da qualche chir. Miro era il chir che aveva operato il vecchio Tom. Aveva sperato di allungargli la vita sino alla nascita di Hope. Ma l’uomo era morto quando Leda era ancora alla trentesima settimana. Troppo presto.
Miro tornò dalle donne con un involto nelle mani: «Kill bite», aveva detto scostando i lembi della stoffa sporca. Le donne guardarono l’oggetto. Sembrava un piccolo armadillo argentato. Sul dorso, si riflettevano i bagliori del fuoco.
Miro fece cenno di seguirlo. Andarono verso una breccia nella parete nera. La luce entrava diafana, ma lo stesso ferì i loro occhi. Miro liberò il piccolo robot dopo avergli assegnato le coordinate del rione di ricchi più vicino.
Il Kill era rientrato dopo un po’, illeso. Non era stato intercettato. Incredibile.
Le donne esultarono silenziose. Il sorriso di Leda aveva svelato due piccole fossette sulle guance.
Qualcuno si era svegliato e aveva iniziato a protestare verso di loro: ancora attivi, rubavano ossigeno.
«Ora dormir», disse Gala indicando le amache. L’indomani Miro avrebbe studiato un piano dettagliato. Aveva già messo da parte un foglio di carta, una rarità ottenuta in cambio di una tracheotomia.
Contava di arrivare al nuovo deposito e rubare cento bombole: sarebbero bastate al bambino per un anno intero. Nel frattempo, qualche Bat sarebbe morto.
Non era quello il problema.

Segue parte 2 in ‘Terra’

C’è un tempo per ogni cosa

C’è un tempo per ogni cosa. Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttar via. Sento lo scorrere del tempo con il suo dolce malinconico ticchettio, c’è un tempo per fuggire ma non ho ancora trovato il tempo per resistere alla furia del vento.
Eppure qui a Riccione, la mia casa, le mie radici, il tempo pare essersi fermato.
C’è un tempo per tutto, è vero, anche se a volte sembra che il vento porti via ogni cosa, trascinando con sé i sogni che non abbiamo avuto il coraggio di stringere.
Qui a Riccione, però, sotto il cielo che cambia colore con la calma del mare, il tempo ha un ritmo diverso. Non è il ticchettio incessante di una città frenetica, ma piuttosto il respiro lento e profondo della costa, che conosce i segreti della pazienza.
Le onde si susseguono, una dopo l’altra, come gli anni che passano senza fretta, e l’odore di salsedine riempie l’aria, avvolgendo i pensieri come una coperta leggera. Qui, il vento non è furia, ma carezza. Ha imparato a danzare con i pini e con i tetti delle vecchie case, sussurrando storie di chi è passato, di chi ha amato e di chi ha perduto.
Eppure, anche in questa quiete sospesa, c’è sempre quel momento in cui la vita ci chiama a fare una scelta. A resistere o a fuggire. A lasciarci andare come la sabbia tra le dita o a stringere forte, come un anello prezioso che non vogliamo perdere.
Forse non è ancora giunto il tempo per resistere, ma il vento, proprio quel vento che ora mi sembra così forte, porta con sé una promessa: che un giorno saprò come restare, come mettere radici profonde, come trovare forza nel lasciare che il tempo faccia il suo corso.
Perché anche quando tutto sembra in movimento, inarrestabile, c’è un luogo in ognuno di noi dove il tempo si ferma, dove possiamo essere in pace. E questo luogo, per me, ha il suono del mare di Riccione, il fruscio del vento e il sorriso delle persone che incontro per strada. Qui, in questo angolo di mondo, ho imparato che c’è un tempo per ogni cosa, anche per fermarsi e ascoltare.
E forse, chissà, un giorno troverò anche il tempo per resistere.

Mi manca l’aria

Ho prenotato l’esame da quindici giorni e il poco tempo che mi rimane prima di avventurarmici mi rende preoccupata e nervosa. Non so se sarò pronta ad affrontarlo.
Devo sottopormi a una risonanza magnetica e per me, così claustrofobica tanto da non prendere gli ascensori dove é possibile salire per le scale, è fonte di notevole disagio, mi manca l’aria.
Vado in farmacia.
«Dottore, devo sottopormi a una risonanza magnetica, ma questa volta non so se riuscirò a stare tranquilla e ferma per tutto il tempo necessario. Mi potrebbe dare qualcosa per calmarmi?»
Il farmacista mi guarda e poi dal suo retrobottega arriva con un flaconcino di un liquido a base di valeriana, biancospino e passiflora.
«Lo facciamo noi» mi dice «ne prenda 20 gocce un’ora prima della risonanza».
A casa leggo le indicazioni che ne consigliano trenta e decido che ne prenderò venticinque. Non si sa mai: questa volta ho proprio bisogno di un aiuto in più.
La mattina dell’esame arrivo al centro medico in anticipo, cammino nervosamente avanti e indietro nel grande atrio prima di pagare il ticket poi finalmente raggiungo la sala d’aspetto del reparto di radiologia. Zeppa. Più di otto persone stanno aspettando e la mia ansia aumenta, non ho idea se le gocce che ho preso faranno ancora effetto fra tanto tempo.
Dopo un’ora e mezza arriva il mio turno. Entro nello spogliatoio e già mi manca l’aria. Non so se questa volta ce la farò.
Mi spoglio, indosso il camice e mi presento al tecnico che mi ha appena chiamato.
«Si sdrai con la testa verso il tunnel, tenga le braccia lungo il corpo e stia ferma, questo è il campanello se dovesse avere bisogno», puntualizza.
Mi sdraio, sento il rullo che piano piano entra nel tunnel, chiudo gli occhi. Mi manca l’aria.
Mi dico che devo stare tranquilla altrimenti è tempo perso e tutto è da rifare.
Allora, come ogni volta, inizio a recitare il rosario nella mia mente, anche con le intenzioni per ogni decina e premo leggermente le dita sul lettino per contare le ave marie.
Dieci per i miei figli.
Dieci per i miei nipotini.
Dieci per mio marito perché ne ha bisogno da solo.
Mi manca l’aria. Prendo dei piccoli respiri con il naso, non profondi per non muovermi troppo.
Dieci per la mia famiglia di origine.
Dieci alla fine per me.
«Signora, abbiamo finito», dice il tecnico radiologo.
Il rullo piano piano mi riporta fuori da tunnel. Faccio un respiro profondissimo che muove tutto il mio corpo: anche stavolta ce l’ho fatta.
L’aria… invisibile e apparentemente inesistente eppure così necessaria, adesso non mi manca più.

Sveglia naturale

Ecco, sono tornati. Un po’ presto rispetto agli ultimi anni.
La mia sveglia naturale, la mia poesia mattutina.
Gli uccellini sugli alberi!
Nel passato mi svegliavo con il loro canto, e rimanevo nel letto per ascoltarli.
Mi alzavo e mi preparavo il caffe, la Moka. Poi assaporavo quel liquido scuro e bollente, fuori nel balcone. L’aria frizzante sul mio viso.
Sentivo l’energia diffondersi nel mio corpo e mi caricavo per tutta la giornata. Un leone pronto ad affrontare qualsiasi cosa.
Ora, mi svegliano troppo presto, dopo una nottata piena di sogni dove devo difendermi sparando e non riesco a caricare le munizioni. Forse gioco troppo agli spara zombie. Il mio sonno è spesso interrotto.
E poi mi mettono ansia. Si ansia. Purtroppo il loro cinquettio mi ricorda quei giorni in cui eravamo obbligati a restare chiusi in casa.
Sapevo che quel suono pre annunciava un’altra giornata uguale a quella di prima. Colazione e apertura del PC per lavorare in smart working. Pranzo in compagnia di mio figlio e poi ancora lavoro. Cena con mio figlio e letto. Giornate tutte uguali. Senza sapere quando saremmo usciti da questa crisi.
In effetti però ne siamo usciti.
E allora magari questa mattina mi farò un caffè e lo berrò fuori nel balcone.

Elogio

Ci conoscevamo da più di vent’ anni.
Sorrido al tuo pensiero. Di sicuro io conosco lati della tua vita che neanche la tua famiglia conosce.
Appena assunta ti chiamavo “Dottore”, lo pretendevi da tutti i tuoi dipendenti.
Ma da lì a poco, complice la mia sfrontatezza, ho ottenuto il permesso di usare il tuo nome in privato, e poi, più avanti, davanti a tutti.
Ti conoscevo bene. Sapevo cosa ti faceva arrabbiare e cosa ti compiaceva.
Un punto fermo della tua vita, la tua famiglia. Tua moglie e i tuoi figli.
Ci sono stati periodi che l’hai messa a rischio per un capriccio. Per lo stesso capriccio hai messo fine ad un’amicizia che aveva creato il tuo gioiello: la tua azienda.
Lei, la tua creatura. L’hai fatta nascere, modellata, nutrita. E quando è diventata grande e sicura ne hai fatto la tua sala giochi.
Tutto girava intorno ad un unico obiettivo. Chiudere l’ultima grande trattativa del momento. Non importava se si trattasse di acquisto e vendita di merci o di servizi. L’importante per te era sedersi al tavolo da gioco con gli altri giocatori. È come il poker, giocare con le tue carte, a volte bleffando. Alzarsi da quel tavolo sapendo di aver chiuso un affare.
Certo i soldi non li disdegnavi, anzi. Chi ti conosceva superficialmente ha sempre pensato che tu ammirassi il dio denaro, ma la verità era che ti sentivi vivo solo quando potevi giocare. I soldi erano solo una conseguenza di quanto eri bravo.
Nonostante gli ultimi tempi non lavorassi più in azienda, continuavi nel tuo privato a divertirti. Era più forte di te.
Era una giornata di sole, io stavo parlando di te con un cliente a pranzo, mentre i medici cercavano di salvarti la vita. Da li a poche ore, ricevevo la notizia che tu non c’eri più.
Ora sei nella tua ultima dimora. La terra ti accoglie. Tutto ciò che di terreno hai lasciato non lo puoi portare con te. Molti vedranno solo questo. Io con me porto l’esperienza che ti ho rubato per tutti questi anni.
Sorrido guardando il tuo ufficio vuoto. So che non tornerai, ma spero,  che in qualche modo,  mi guardi mentre chiudo la mia ultima trattativa e sorridi anche tu pensando che questo è anche un po’ merito tuo.

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