Alla fine, me ne sono andata come volevo. Nel posto in cui sono ora, il tempo non scorre e l’aria profuma di glicine, come sul patio della nostra casa, dove usavamo mangiare tutti insieme nelle belle giornate di sole. Qui tuttavia i giorni non hanno peso.
Da qui posso vedere tutto, ma non posso toccare nulla, se non i cuori. Ho tutto quello che posso desiderare, ma mi mancano moltissimo le mie figlie.
Certo, ho provveduto ad aiutare ciascuna di loro: alla più grande ho procurato il lavoro fisso che tanto agognava. Non è cattiva, poverina, ma non ha troppa voglia di impegnarsi. Si sacrifica fino ad annullarsi, per la famiglia: per la nonna, per la sorella, per me… Ma la mattina, se deve alzarsi presto, è una battaglia. Comunque, ce l’ha fatta. Ora lavora in uno stabilimento farmaceutico, ha delle brave colleghe, si trova bene, ha uno stipendio fisso, fa una vita regolare.
Alla più piccola, invece, ho fatto incontrare l’amore della sua vita. È cubano, un bel ragazzone alto e con una bella parlantina, che l’ha fatta innamorare. È quello che ci voleva per una sanguigna come lei. Professionalmente è una donna capace, non avrà problemi.
Loro non sanno che sono stata io, anche se l’amica della mia figlia più grande, quella che scrive, l’ha capito subito che c’era il mio zampino. Del resto, con lei avevo un rapporto speciale: mi sentivo più sua amica io delle mie figlie. Quando ci trovavamo a parlare, ci intendevamo subito perché condividevamo gli stessi valori un po’ fuori moda: vestirsi in modo femminile, ma non volgare, le camicie da notte della nonna coi pizzi, le gonne a fiorellini, lo stile gitano, le stoffe provenzali, l’amore per la conoscenza, il parlare colorito ma non sguaiato, la pacatezza, la dignità, il femminismo.
Del resto, è a lei che ho chiesto aiuto quando mi sono resa conto che in quel modo non potevo più andare avanti.
Un giorno mi disse: «Sai, la parola giusta può cambiare tutto.» Ridevamo delle frasi a effetto che scriveva nei suoi racconti, di quella sua idea che il mondo si potesse risolvere con la bellezza della scrittura.
«Io non so scrivere» le risposi, «ma so leggere. E capisco quando qualcuno dice la verità.»
Lei sorrise, quasi sollevata. Ero la sua lettrice ideale, diceva. Io non lo sapevo ancora, ma era lei che avrebbe scritto la mia storia.
Quando le ho detto che non ce la facevo più, mi ha guardata con occhi intensi. Ho aspettato che dicesse qualcosa, che trovasse una soluzione, che facesse la magia delle parole che sapeva usare così bene.
Ha solo scosso la testa.
«Non posso aiutarti» ha sussurrato.
In quel momento, qualcosa dentro di me si è spezzato. Se nemmeno lei poteva salvarmi, allora non c’era davvero più niente da fare.
Forse avrei dovuto combattere di più? Pensavo che ci fosse una strada. Invece non c’era.
Quella sera, quando anche lei mi disse che non poteva aiutarmi, capii di stare urlando in un pozzo vuoto.
Mi accasciai nel mio letto sanitario, in silenzio.
Spensi l’interruttore.
Smisi di lottare.
La mia truppa se la cava, anche senza di me. Il padre delle mie figlie sta lentamente andando in declino, la vita fa il suo corso. Mia mamma tra un po’ mi raggiungerà. Ci stiamo già preparando ad accoglierla.
L’amica di mia figlia non lo sa, ma a volte le sussurro all’orecchio. L’altra sera, mentre correggeva un suo racconto, ha trovato una frase che non ricordava di aver scritto.
L’ha letta più volte, si è passata le dita sulle tempie, ha controllato i vecchi appunti.
Ma no, quella frase non era sua.
Eppure era lì, impressa in inchiostro nero.
Sono sicura che ha capito.
Sono sempre stata più brava a leggere che a scrivere, ma questa volta ho fatto un’eccezione.
Mi guardo intorno.
Qui ho tutto.
Tranne il mio cuore, che è rimasto laggiù.