Racconti e Poesie

Buon cibo

Ho sempre avuto un ottimo rapporto con il cibo, e pessimo con la bilancia!

Da neonata paffutella a bimba magra, da adolescente tondetta ad adulta obesa.

Sono stata capace di adeguare il mio peso a quello che mi piace vedere allo specchio,

ma questo non è un peso che gli altri giudicano buono. Pazienza!

Certo, durante l’adolescenza è stato difficile confrontarsi con amiche, parenti e

conoscenti ma con attenzione ho capito che ogni forma del corpo è bella,

specialmente se cresciamo anche dentro.

Oggi si cerca di far capire che non si dovrebbero fare commenti sul peso , come

non si farebbero ad un calvo o ad una persona magrissima…

Ricordo nel mio passato quanti si sono sentiti in obbligo di elargire consigli non

utili e non richiesti;  ci sono porte della nostra vita che vogliamo aprire solo agli amici intimi,

ai nostri amori ea pochi altri.

Mangiate con gusto!

 

Nandini

Ginevra scese dal treno regionale e venne investita da una folata di vento tiepido: Nizza le dava il benvenuto con un turbinio di odori; c’era l’odore del mare d’estate, naturalmente, l’odore di stazione, costituito da acciaio e fuliggine, l’odore di cibo fritto in olio scadente.

Si incamminò verso l’indirizzo sul foglietto. Suonò il campanello e venne ad aprire Nandini, torreggiante nel suo pareo colorato incorniciato dai lunghi capelli biondo fragola. Si abbracciarono e Nandini cominciò subito a raccontare di Sokholov, il suo pianista preferito, per il quale le due amiche erano venute in Riviera. Nandini lo seguiva da molti anni e ne era innamorata; ovunque tenesse un concerto in Europa, acquistava il biglietto e andava ad ascoltarlo, rapita dalla sua bravura, meticolosità e inavvicinabilità. Le raccontò che più volte era riuscita ad andare nel suo camerino, aveva tentato di baciarlo, lui si era fin spaventato. Ginevra sussultò.

Dopo essersi cambiate, andarono a esplorare la città, la ricerca di cibo il loro obiettivo implicito.

Nandini era vegana da anni, da quando aveva vissuto in India come seguace di un monaco induista, al fianco del quale aveva approfondito le questioni fondamentali: chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Cosa ci faccio qui? Cosa scelgo di mangiare? Lì aveva anche scelto il suo nuovo nome, con il quale firmava le sue traduzioni.

Ginevra aveva riportato i libriccini di Krishnamurti che l’amica sudafricana le aveva prestato: Nandini le disse di tenerli. Cadevano a pezzi e, in ogni caso, ormai quegli insegnamenti facevano parte di lei.

Non era propriamente bella, ma un guizzo di infantile pazzia e la risata improvvisa la rendevano affascinante, con un corpo ancora attraente a 64 anni, merito dei geni e dell’alimentazione.

Comprarono della frutta al mercato, si fecero dei panini con pane e formaggio che mangiarono sul muretto del lungomare e parlarono degli ultimi articoli di Valdo Vaccaro, l’igienista grazie al quale si erano conosciute, traducendo entrambe come volontarie per la causa.

Il concerto si teneva in un grande anfiteatro vicino alla spiaggia. Presero posto indossando i loro più abiti estivi più belli e si immersero nella musica. Alla fine del secondo movimento, Ginevra notò come un’ombra rossastra che si avvicinava al famoso pianista e lo avvolgeva in larghe vòlute che lo circondarono lungamente e poi lentamente si dissolsero. Era stata così rapita da quello spettacolo talmente inusuale che si accorse solo allora che la sua amica si era alzata ed era andata a sedersi sugli spalti più alti dove c’erano parecchi posti ancora vuoti. Sedeva statuaria nel suo abito rosso di organza, appoggiata alla ringhiera. Ginevra la chiamò, ma non ottenne risposta. Uno strano atteggiamento di quel corpo le mandò una scossa di preoccupazione istantanea giù per la colonna. In un attimo fu a fianco a lei cercando di rianimarla, inutilmente.

Il caffè delle otto

Annuso

a occhi chiusi

l’avvolgente profumo

che invade la casa

e,come un pifferaio,

mi porta

verso la cucina.

Sorseggio

a occhi chiusi

il mio seducente elisir mattutino.

Per un po’

non parlo.

Mi penso in Brasile

tra piantagioni

grondanti chicchi rossastri.

Felice.

Apro gli occhi

e sono già sul posto di lavoro.

Peccato!

Caffè…consolazione quotidiana

Il Carnevale

Ogni anno mi prende una grande eccitazione per il Carnevale. L’emozione di vivere per qualche ora nella pelle di un altro personaggio si impadronisce di me e mi mette una specie di frenesia addosso. Purtroppo non riesco mai a preparare per tempo il costume che vorrei.

Ogni anno, al termine dei festeggiamenti, faccio elaborati piani per farmi trovare pronta alla scadenza successiva, ma quasi mai ci riesco.

Non tralascio però di travestirmi, seppure con poco.

Quest’anno ho percorso a piedi mascherata da angolana il tragitto da casa mia al paese vicino, dove la ricorrenza viene festeggiata più in grande stile da grandi e piccini. Era una bella giornata mite benedetta da un sole caldo. Sono partita a piedi col volto coperto da una maschera e con una gran voglia di fare una passeggiata. Lungo il percorso ciclo-pedonale ho mietuto sorrisi benevoli da coppie di mezza età, sguardi sorpresi da automobilisti di passaggio, occhi sgranati da bambini in bicicletta, increduli che anche gli adulti potessero vivere così profondamente questa festa. Già il percorso di avvicinamento al luogo dei festeggiamenti è stato un divertimento. Ogni tanto si incrociava lo sguardo con altre maschere e subito era intesa, sorrisi abbozzati o addirittura uno scambio di battute.

Una volta sul posto, la musica ad alto volume, i carri allegorici, la quantità di maschere mi hanno travolto e alleggerito. Insieme a molte dozzine di persone abbiamo sfilato per le vie del paese. Ho chiesto a numerosi gruppi e singoli il permesso di fotografarli, alcuni costumi erano davvero originali.

Il tema proposto quest’anno dalla ProLoco del paese era il riciclo, dunque abbondavano ampi abiti femminili realizzati con cucchiai di plastica, con carta di giornale, con materiali vari di recupero. Alcuni uomini erano vestiti da rifiuto, con una tuta bianca e una grande R sulla schiena. Ho addirittura scorto un uomo vestito con un abito realizzato in Pluriball!

Dopo l’esibizione danzereccia, la distribuzione di “chiacchiere” e la premiazione delle maschere più originali, il mio tragitto verso casa è stato allietato dalla dolcezza del tramonto sulle campagne circostanti, questi paesaggi rurali costellati da vecchie cascine tranquille, non degne di nota, ma comunque a me care.

L’anno prossimo voglio vestirmi da Marianna (Maid Marian), l’arciera di Robin Hood.

Colazione letteraria

Io soffro di insonnia. Da quando è morto mio padre vivo nel terrore di una grande disgrazia che si abbatterà su di me, non avrò il denaro sufficiente per mantenere questa grande casa in cui vivo, finirò sotto i ponti sola e derelitta, dunque dormo poco e in modo disordinato.

Generalmente però mi faccio forza e quando mi sveglio, solitamente tra le 4 e le 6 a seconda se è un periodo buono o meno buono, mi alzo e comincio a fare quel che c’è da fare.

L’unico giorno che mi sono riaddormentata a letto con le mie bambine mi sono svegliata alle 10.15. Il giorno della colazione letteraria!

Mi ero tanto rallegrata alla notizia di questo evento, me l’ero segnato sul calendario, mi ero immaginata come sarebbe stata e poi arrivo in ritardo!

Dunque ho sfamato in fretta e furia le creature, sono uscita e mi sono precipitata alla biblioteca indicata. Chiusa.

Ho controllato: l’evento era programmato per il giorno dopo.

In fondo non era un male.

In macchina, decido di dirigermi a cercare il detersivo per la lavatrice che mi manca da giorni, intanto telefono alla mia amica Laura, notoriamente non avara di parole. Mi fermo da lei e le racconto della colazione, lei è subito entusiasta e promette di venire l’indomani.

Scrivo alle organizzatrici per avvisare che saremo forse in due. In realtà poi si aggrega anche la figlia di Laura.

Il giorno dopo infilo una tazza in vetro sottile, la mia preferita, in borsa (si sa mai che ci vogliano far bere da dei bicchieri di plastica… orrore!) e mi presento nel luogo indicato.

Mentre scendo dall’auto mi accolgono Laura e sua figlia. Entriamo in una piccola biblioteca di paese, linda, luminosa e moderna.

Ci sono tre tavoli doppi apparecchiati con cura: tovagliette di pizzo, piatti di ceramica, tazze multicolori e bicchieri uno diverso dall’altro.

Su un grande tavolo sotto la finestra sono allineate le pietanze del buffet, dolci, salate e indefinibili, le caraffe, il pane tostato, tutte cose un po’ particolari.

Su una graziosissima panchina in legno con un romantico cuscino sono ammonticchiati i libri della parte letteraria della colazione: Estasi, Colazione da Tiffany, Il grande Gatsby, Persuasione di Jane Austen e altri che non conosco.

Una giovane donna in una corta gonna di velluto nero a coste e una maglia a righe rosse e nere sta già leggendo. Porta un rossetto dello stesso colore della maglia e ha due occhi azzurri molto belli e luminosi. Qualcuno mi sussurra che è la figlia del primo bibliotecario del mio paese. Buon sangue non mente.

Niente castagne per me

Rovisto coi piedi tra le foglie secche del Parco Forlanini. Ho circa 8 anni, è domenica e i miei genitori, per una volta, mi hanno portato a fare una passeggiata nel parco anche se è inverno e fa freddo. Le castagne, con la loro forma arrotondata e il bel colore caldo e lucente, mi chiamano a sè. Le faccio scorrere tra le mani, me ne riempio le tasche del cappotto, le faccio suonare, le tiro raso terra a mio fratello, ma mi fanno smettere subito; mi piacerebbe usarle ma… a me le castagne non piacciono da mangiare. Dunque per me non sono utili. Sono belle però, questo sì. Un giorno ho provato a infilare una collana di castagne, con trapano e tutto. Alla fine però l’ho buttata via, il risultato non era molto… estetico.

Oggi delle castagne apprezzo l’odore. Le caldarroste di novembre in piazza del Duomo a Milano per me sono il simbolo dell’inverno arrivato.

Forse la mia mancata simpatia per le castagne è dovuta al fatto che nella mia famiglia non c’è mai stata la cultura delle castagne. In Germania credo che non si consumino, ad ogni modo mia mamma non ne ha mai fatto cenno. Mio papà ormai era lontano dalla cultura contadina, forse anche dal ricordo della povertà che le castagne simboleggiano.

Sono riuscita a mangiarle a mia insaputa settimana scorsa a casa della Vanda che, da buona emiliana, aveva organizzato una tagliatellata a casa sua in occasione della Befana. Solo dopo ho scoperto che quelle tagliatelle un po’ scure, dal sapore vagamente dolce, erano fatte con farina di castagne. Non erano poi così male, grazie soprattutto al saporito sugo di funghi porcini.

Cibo

Un frigorifero quasi sempre vuoto, ma…

una dispensa generosa

una tovaglia a quadretti rossi e bianchi

un piatto

una forchetta

un coltello

un bicchiere con poco vino bianco

un tovagliolo

un fornello acceso

un pugnetto di sale grosso

una pentola d’acqua

un po’ di grammi di carboidrati

un cucchiaio d’olio extra vergine

una pioggia di parmigiano reggiano

una musica di sottofondo

Totale = Zero appetito

Troppo tempo

Molto spazio

Abbondanza di mezzi

Tanta libertà, ma…

solitudine a volontà

Contadini

Dormite sopra un letto di terra

risvegliandovi ubriachi di aurore

Indorate i vostri corpi muscolosi

sotto un cielo azzurro propizio

Ricevete sole e perle di sudore

sulla faccia e sulle braccia

Spargete con le mani i semi

della Natura che si rinnova

Sentite in autunno l’agonia

delle foglie appesantite dalla brina

Osservate la vita che passa

attraverso le porte della morte

Loro credono in me

Tra un paio d’ore devo essere in ufficio. Sono quasi ventidue anni che lavoro nella stessa azienda e non mi ricordo nemmeno un giorno cosi duro.

Da qualche mese mi hanno aggiunto ufficiosamente un’altra mansione. Responsabile ufficio vendite oltre che contabile.

Il fatto è che sono entrata in una realtà dove l’azienda non naviga in buone acque e sono molto preoccupata per il nostro futuro. La direzione non sta effettuando una politica di analisi di commessa o analisi di costi, nessun controllo di liquidità. Io cercherò di propormi come responsabile di queste procedure per cercare di salvare capre e cavoli, ma nel frattempo altri responsabili cercano di mettere i bastoni fra le ruote.

Ogni giorno combatto con altri colleghi che non vorrebbero che io riuscissi ad ottenere quel posto. Nei giorni scorsi spesso mi sono sentita abbattuta, tanto da avere voglia di mollare. Ma tra le mie file si sono aggiunte quattro donne che mi seguono e lavorano duramente. Ogni volta che mi sento spossata e avvilita, una di loro mi affianca per qualche lavoro e io la guardo negli occhi. Loro hanno fiducia in me. Loro mi appoggiano. Come posso io mollare? Devo andare avanti anche per loro.

Che peso. E se non ci riuscissi? Se la direzione non dovessi darmi l’incarico? O peggio. Se mi dessero l’incarico e io non riuscissi nell’intento? Comunque ci proverò, non ho molta scelta, lo devo almeno a loro che credono in me.

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