Racconti e Poesie

Pioggia

Mino si guardò intorno sconsolato, scacciando infastidito un moscone che si ostinava a girargli intorno. Ormai erano mesi che non pioveva, il suo campo coltivato a granturco aveva da tempo perso il colore verde delle tenere foglioline e le pannocchie stentavano a crescere, secche e protese verso l’alto come in uno strenuo tentativo di ricevere qualche goccia consolatrice.
«Per annaffiarle mi rimane solo il mio sudore», pensò disperato. Tocco le pianticelle rinsecchite con le dita callose di chi la terra l’ha lavorata per tutta la vita e la conosce bene, fin troppo bene per sperare in un capovolgimento della sorte.
«Quest’anno il raccolto rischia di essere compromesso», si disse quasi con rassegnazione. Pensò a sua moglie, a cui da tempo nulla riusciva a strappare una risata, e che contava sempre meno su di lui per il vivere quotidiano, a suo figlio che aveva perso ogni fiducia nel futuro e alla terra non voleva più pensare, ai progetti di vita che anno dopo anno andavano in fumo, bruciati dalla stessa arsura che stava prosciugando la vitalità dai suoi campi.
Eppure quella era la vita che da generazioni aveva sostenuto la sua famiglia, quelli erano i terreni che si erano tramandati di padre in figlio. Non conosceva altro, Mino. Non si era mai spostato dai confini delimitati dalle sue rogge.
Un tempo, i campi maturavano rigogliosi e gli anni sterili erano pochi, catastrofi naturali come grandinate o siccità venivano raccontate dai vecchi ai bambini a cui la sera, raccolti nel granaio per scaldarsi a vicenda, raccontavano le storie di messi perdute, disperazione e ripresa fra difficoltà superate e nuove sfide all’orizzonte.
Una vita faticosa ma a cui nessuno avrebbe mai pensato di poter rinunciare: la terra era il loro destino, la loro ragione di essere.
Ora però tutto era cambiato. Ogni anno era più caldo, meno piovoso, e i raccolti si facevano sempre più striminziti.
«Acqua, serve acqua! Dio del cielo, o comunque tu ti chiami: se ci sei, se mi ascolti, fai piovere, fai bere i miei campi e restituiscimi la mia vita!».
Uno sguardo al cielo e uno alla terra secca, rimase fermo ancora un po’, come in attesa.

L’IMPORTANZA DELL’ACQUA

Stavamo viaggiando in quel deserto di neve e ghiaccio da quattro giorni. Avevamo esaurito le scorte di cibo e acqua, il gas era agli sgoccioli e anche i cani erano affaticati.

Di quel passo, avremmo raggiunto la postazione del Centro Ricerche sul Clima a Irkutsk di lì a novantadue ore. Io non ce la facevo più: volevo sdraiarmi sulla slitta e addormentarmi senza pensare più al nostro sfortunato progetto, partito male e proseguito peggio, incagliatosi in una serie di ostacoli prima politici, poi economici e amministrativi, infine logistici e tecnici.

Delle tre ricercatrici internazionali, ero l’unica che era rimasta. Avevo dovuto subire le battute sarcastiche e sessiste dei miei compagni di squadra, ma la mia determinazione e l’abitudine a farmi scivolare di dosso le offese come acqua sulla roccia mi aveva anche guadagnato una certa considerazione.

A differenza delle altre che avevano abbandonato, non avevo una famiglia a cui rendere conto, un marito da cui tornare, dei figli a cui dover dare sicurezza, nemmeno dei gatti abituati a dormire sul mio letto la notte, non più.

Negli ultimi dieci anni la mia vita era la ricerca; il progetto sulla memoria dell’acqua iniziato da Masaru Emoto nel secolo scorso aveva guadagnato credibilità e finanziamenti, i progressi teorici della fisica quantistica avevano dimostrato l’indimostrabile, ora anche le aziende e i governi intravedevano un futuro di potenziali applicazioni commerciali e avevano cominciato a sciogliere le loro riserve.

Il paradosso è che eravamo circondati da acqua ed eravamo tutti disidratati. La sete ci accompagnava dal risveglio all’alba a quando ci fermavamo nelle basi di sosta al tramonto.

Avevamo sbagliato strada per un malfunzionamento della bussola e lo scioglimento del permafrost aveva modificato l’assetto dell’enorme lastra di ghiaccio su cui scivolavamo con le nostre tre slitte, determinando un allungamento del percorso di due giorni. Il gas che ci permetteva di sciogliere il ghiaccio per bollirlo e ricavare acqua potabile era insufficiente per tutti. Dopo due giorni, resosi conto dell’errore, il capo-spedizione aveva deciso di razionare l’acqua: a ognuno di noi spettava mezzo litro di acqua a testa al giorno. Tutti erano molto disciplinati e osservavano scrupolosamente le indicazioni, ma si percepiva un’aumentata irritabilità e una certa stanchezza negli equipaggi.

Al briefing preparatorio avevamo imparato che era sconsigliabile far sciogliere in bocca direttamente la neve cruda, per via dei potenziali patogeni, se non volevamo finire come Rosanna Benzi, che contrasse la poliomielite a tredici anni e visse il resto della sua vita in un polmone d’acciaio. Morì a quarantatré anni.

Angelina

“Angelina,il carro è qui”.
“Arrivo pa'”.

Sono le quattro del mattino e il carro passa dalle cascine per raccogliere le donne e le ragazze che vanno alla monda del riso nei paesi vicini.
Suo padre, Pa’ per i figli, non ha voluto che lei andasse nelle risaie in Lomellina perché avrebbe dovuto stare lontano dalla famiglia e lui voleva proteggere la sua figlia più piccola, così esuberante e allegra, dalle insidie della lontananza da casa.

La ragazza esce portando con sé il sacchetto con un pezzo di pane e cinque noci, il suo pranzo del giorno, lo appendera’ al ramo di un albero, sulla riva.
Sale sul carro sedendosi al limitare di esso,con le gambe a penzoloni perché da lì vede bene il sorgere del sole e le campagne circostanti, in grembo ha un fazzoletto e il suo cappello di paglia.

Sul carro salgono un po’ alla volta tante donne:alcune sono avanti con l’età, la maggior parte giovani, solo poche giovanissime.
Lei è la più giovane del gruppo e ha voluto fare la mondina per aiutare la sua famiglia:cinque figli(due maschi e tre femmine)e il papà, la mamma non c’è più. I due figli maschi sono in Africa, per la guerra d’Etiopia, le sue sorelle maggiori si occupano della casa.

Angelina è orgogliosa di aiutare la famiglia con il suo lavoro, la fa sentire grande:alla fine della monda riceverà una paga e tanti chili di riso quante giornate di lavoro avrà fatto così in famiglia avranno un po’ di cibo in più perché di solito ce n’è poco.

Verso le cinque la ragazza arriva alla risaia e si dispone accanto alle altre donne procedendo insieme nell’acqua per estirpare le erbacce dalla coltivazione del riso.
Ore e ore sotto il sole, con i piedi a mollo e le bisce d’acqua che girano attorno, i tafani e le zanzare che pungono le gambe.

Dopo qualche ora qualcuna alza un braccio: ha sete.Ecco che allora arriva il campe’ con un secchio d’acqua e un mestolo, da lì bevono tutte.
Il padrone della risaia intanto sta sulla riva e incita le donne a camminare più in fretta e a cantare perché così non hanno tempo di chiacchierare e lavorano assiduamente.

La monda va avanti da una risaia all’altra fino a mezzogiorno quando tutte le mondine si siedono sulla riva e mangiano il loro pranzo in fretta quindi ricominciano la pulitura delle erbacce fino al pomeriggio.
Man mano che le ore passano la fatica si fa sentire, il sudore scende sempre più copioso dalla fronte e lungo la schiena, la voce diventa rauca a furia di cantare.
Verso sera il lavoro in risaia finisce e a passo lento si ritorna al carro che ripercorre al contrario il tragitto fatto all’alba, una alla volta le mondine ritornano nelle loro case.

Da bambina chiedevo spesso ad Angelina di raccontarmi le storie di quando era una mondina allora il suo viso si illuminava e i suoi occhi erano più brillanti del solito.
Nei suoi racconti non metteva l’accento sulla fatica, il dolore, la stanchezza,solo sulla gioia delle amiche trovate, dei canti e della giovinezza.
Diceva sempre che a lei era piaciuto fare la mondina perché il contatto con la terra la rendeva felice,perché aveva aiutato la sua famiglia e perché col suo cappello di paglia si sentiva bellissima.

Angelina è mia madre e io sono come sempre fiera di lei.

Eri mia madre

Eri mia madre.

E non ti ringrazio della vita che mi hai dato ma della tua, di vita, che mi hai lasciato in regalo.
Le tue storie di bambina sotto le bombe della guerra.
Che, donna e madre ormai fatta, ti si vedeva ancora la paura in faccia anche per i tuoni di un temporale improvviso d’agosto.
Le storie delle tue cene di miseria, fatte di minestre d’acqua ed erbacce, mentre ci sgridavi torva per i nostri avanzi nel piatto.
Madre piena di forza e coraggio.
Che si è ribellata come una furia a tempi in cui il destino di una donna era essere solo una moglie sottomessa e un’incubatrice analfabeta.
Sei riuscita a studiare.
Sei riuscita a sederti su una poltroncina da ufficio.
Fiera del tuo vestito fine, delle tue unghie laccate di rosso che ticchettavano sulla tua macchina da scrivere.
Mentre le altre si erano arrese ancora prima di iniziare a respirare.
Eri così orgogliosa, mamma, di avercela fatta ad essere qualcosa di meglio.
Fino al giorno in cui la legge degli uomini è venuta a bussare alla tua porta, nonostante tutta la tua furia per essere chi volevi.
E ormai con la fede al dito e il ventre gonfio, sei caduta in ginocchio e ti sei dovuta arrendere.
Via lo smalto rosso, via i vestiti stretti sulla vita da vespa che avevi ormai perso.
Ti guardavo, mamma, nei tuoi grembiulacci informi, senza un filo di trucco, l’odore di candeggina e cavolfiori lessi sempre nell’aria.
Col capo sempre chino su un rammendo o su una conserva da invasare.
Nella tua rabbia dolorosa, per la vita che ti era stata negata dalle leggi degli uomini.
Nei rari momenti in cui ti vedevo con la fronte sul vetro della finestra, pensando di non essere vista, guardando tristemente oltre la strada di sotto e oltre quella vita a cui ti eri dovuta rassegnare, mamma io lo ricordo ancora.
La sera nel letto a macinare parole crociate per mantenere la mente plastica, o leggendo guide turistiche che nascondevi nel comodino, sognando di viaggi che mai avresti fatto.
E le domeniche in cui mi caricavi sul tram, per vedere palazzi e basiliche, io bimba morta di noia e tu incantata a guardare guglie e statue, con la tua guida aperta tra le mani.
Mi hai amata e odiata, mamma.
Perché vedevi in me quella stessa fame di libertà che con così tanto dolore ti eri dovuta ricacciare nello stomaco.
E mi hai inchiodato le leggi degli uomini addosso, così come avevano fatto con te.
Perché non potevi fare altrimenti, ora io lo so.
Alla fine ti ho obbedita, mamma.
Con una fede al dito anch’io, perché cosi si doveva.
Con un figlio dietro l’altro in grembo, perché altrimenti sarei stata un guscio vuoto, un ramo secco, una nullità.
Senza luce per sogni e passioni, perché ormai anche la mia strada era segnata.
Ti ho amata e odiata mamma.
Ma solo alla tua fine, ti ho compresa.
Non esistono vittime o carnefici, esiste il dare cio’ che si è ricevuto, nel bene e nel male.
E spesso sono i carnefici ad avere più ferite delle loro stesse vittime.
Tu non lo sapevi, mamma, ma ora io lo so.
Di generazione in generazione.
Di madre in figlia.
Alla fine si perdona, mamma.
Se stesse e i propri avversari.
Tu ed io.
Ho iniziato a perdonare il giorno in cui ti ho accarezzato i capelli, bianchi e fini come ragnatele, che tu già te n’eri andata.
E anno dopo anno, cadendo e rialzandomi, a volte correndo, a volte trascinandomi, sai cos’ho fatto mamma?
Ho preso quelle leggi degli uomini maledette, una per una, e le ho lanciate contro ogni muro che ho incontrato.
Si sono schiantate in mille pezzi.
Le guardo a terra.. Alcune ridotte in briciole.
Altre ancora vibrano chiedendo imperiosamente rispetto.
Mi turbano, mi spaventano, alcune hanno ancora il potere di chiedere alla mia testa di abbassarsi ancora una volta.
Ma sto imparando a girare lo sguardo lontano da loro.
Verso tutte le possibilità che non hai avuto e che potrò avere io.
Verso la vita che avresti voluto.
Che alla fine sei riuscita a far avere a me.
Perché ad ogni legge degli uomini che ho preso in mano e scagliato contro un muro, tra le mie dita, erano intrecciate le tue.
Vedi mamma, ti ho vendicata alla fine….

Mimose…perché?

La prima volta che un uomo mi ha regalato un mazzolino di mimose recise non ho reagito molto bene,anzi!
Lui era il sindaco del mio paese che si spostava nelle scuole per omaggiare le donne che ci lavoravano.

-Invece delle mimose ci regali un asilo nuovo per i nostri figli che adesso si trovano in un luogo vecchio e pericolosissimo- gli dissi.

Convengo,a distanza di anni,che l’affermazione non è stata accogliente nei suoi confronti,ma allora ero una mamma molto indignata e preoccupata per la sua piccola bambina.
Oggi che non lo sono più continuo a non amare i fiori recisi perché sono già morti e le mimose lo sono particolarmente in quanto il loro profumo e la loro bellezza appassiscono drammaticamente in fretta:il nove marzo sono ormai piccole biglie rinsecchite e puzzolenti.

Mimose. Per me metafora del valore riconosciuto alle donne nella società:un giorno di festa, allegria,turgore e poi gettate in un angolino.
Perché quindi caro marito, collega o uomo qualsiasi invece di regalarmi mimose non mi porti,magari,piantine di lavanda dagli inebrianti e prorompenti fiori lilla che durano nel tempo e profumano di più?

Perché non riconosci,anche con la scelta di un fiore,che la mia presenza nella tua vita non è effimera ma fa la differenza e che senza di me saresti in difficoltà?
Ecco adesso sai come la penso sulle mimose.

Se però proprio vuoi regalarmene una per il suo colore giallo squillante e allegro…che sia almeno viva .
Buon otto marzo a tutti.

Poesia di strada

Salti giù da una Citroen verde
sbatti lo sportello quasi
fari, sibilo si gomme
sbuffo di smog sull’asfalto rovente
con te ha finito.

Sistemi la gonna sui fianchi
il piercing è sole sul ventre liscio,
sei una bambola dal cuore in ceppi.
Le sneakers bianche si fanno spazio
tra lattine, clinex, qualche straccio.
C’è una sedia rotta più in là
per farti regina sei un nuovo acquisto:
soldi contanti.

Siedi, incroci le gambe da gazzella
la bocca è un cuoricino.
Tra cipria e polvere
vorresti raschiare via da dosso gli sguardi
che ti frugano sotto la maglietta
dentro le mutandine.

Intanto passi una mano nel caschetto
castano dei tuoi capelli è imbarazzante tanto sei bella.
Mi lanci un’occhiata dall’altra parte della strada.
Distolgo gli occhi ti lascio sola
ho una figlia della tua età a casa io!

Un’auto rallenta
lui abbassa il finestrino
tu metti il broncio
fai come una bimba che dice NO!

Lui ti annusa hai odore di bestiola
È così che ti vuole
ancora tiepida e dischiusa.

LAURA al mercato

Laura vendeva frutta e verdura a poco prezzo con un traballante banco al mercato di piazza Vittoria, tutte le mattine se il tempo era bello. Ma a Roma il tempo è quasi sempre bello e lei arrivava prestissimo infagottata in un giaccone.

Era un donna piuttosto alta,  grassa , con le gambe corte e gonfie nelle solite ciabatte e indossava sempre un grembiulone scuro che le girava intorno alla pancia sporgente. Nella tasca metteva i soldi incassati. Ai capelli teneva molto, erano sempre in ordine, corti con bei riccioli morbidi, sempre tinti di un biondo color banana che rovinava tutto.

Era una vera popolana, nata a Roma in borgata e aveva ereditato quel semplice banco dal padre ; poi negli anni suo marito Roberto  si occupò degli acquisti della merce. Fortuna che almeno quello lo faceva, perchè di altro faceva poco Un lavoro non lo trovò mai;  passò dal pugilato alle corse in bicicletta, dal cantare allo scrivere testi di canzoni, per finire come pittore , artista  incompreso sempre!

Laura non aveva mai frequentato la scuola, era analfabeta ma sapeva far di conto meglio di tutti, sul lavoro non sbagliava mai anche se doveva far pagare 850 grammi o un chilo e 150 grammi di merce.

Stavo seduta al banco di fiori di una mia zia : la vedevo mangiare la sua frutta e verdura per tutta la mattina e,  più tardi cominciava a mangiucchiare pezzi della carta dove avvolgeva la merce, oppure pezzi di quotidiano. Inorridivo, ma lei non ti guardava mai diritta in faccia,  ti squadrava con la testa chinata in basso e gli occhi piccoli che si sollevavano.

Mi sono ricordata di lei leggendo il libro ” L’analfabeta che sapeva contare” di J.Jonasson

Nonna Elisa

Cento anni fa si sposò Elisa.

Era una pallida e bella sedicenne, con una folta chioma rossa tutta a riccioli e sposò per amore Antonino quasi trentenne, moro , occhi azzurri, impiegato in un Ministero a Roma e …affascinante traditore seriale.

Elisa se ne accorse subito, ma lo amava molto, si amarono comunque e per sempre, ebbero figli e figlie , tanti nipoti ma se penso al loro matrimonio mi sembra una gabbia piena di conformismo e di poco rispetto.

Ho voluto molto bene a questa mia nonna lontana, da piccola le scrivevo letterine una volta al mese, ma mio nonno lo adoravo, simpatico, gentile,chiacchierone.  Una volta l’anno i nonni venivano in treno a Milano a trovarci e ci portavano tanti regali graditi; eravamo quattro bambini e soldi non ne avanzavano mai.

Alla sera quando i grandi parlavano a bassa voce io ascoltavo curiosa e ricordo la nonna che si lamentava delle scappatelle del nonno, così le chiamava;  più tardi sola con mia mamma raccontava di quando lo seguiva e lo vedeva con altre donne ed altri figli… Dopo i giorni più burrascosi il nonno tornava con un gioiellino e dei fiori e tutto finiva lì. -” Questa è la sua famiglia e io sono sua moglie”-  Così terminavano sempre i suoi sfoghi.

In estate da adolescente trascorrevo due settimane da loro e la nonna  cucinava pollo e peperoni o le mammole che sono i carciofi tondi, e il suo ciambellone con tante uova sbattute. Alla fine degli anni sessanta nelle borgate romane c’erano distese di povere baracche e tanta povertà eppure con la nonna tutta ingioiellata attraversavo  Roma ogni giorno in autobus per andare a trovare le zie: poi andavamo tutte al bar a fare colazione e chiacchierare . A casa non avevo queste abitudini.

Poi nonno morì in fretta e vidi i cambiamenti nella vita di mia nonna.

Acquistò una certa sicurezza personale, non fece mai commenti negativi sul nonno ,solo a volte ricordava quanto lui fosse gentile,generoso. Capì che avrebbe meritato più rispetto,aiutata dalle sue figlie. Ma ormai…

Poi accadde che i tanti gioielli ,pian piano,  finirono al Monte di Pietà e non vennero più riscattati.

Dopo poco la sua mente cominciò a vivere in un eterno presente fatto di cura  personale e passeggiate, non parlò più del marito e anche di noi nipoti non ricordava che fossimo tutte sposate e con figli.

Non ho mai capito che male l’avesse colpita, morì anziana e serena; la ricordo sempre curata, ben vestita, profumata, la di Cera di Cupra sul viso e sulle mani e il rossetto rosso sulle labbra sottili, le stesse labbra sottili che hanno ereditato i suoi  figli maschi.

Canzone per te

1992, diploma all’accademia di arte vetrinistica, preparativi per il mio matrimonio, tu che realizzi per me l’album di nozze più originale. La prima foto scattata dalla sarta, mi guardi spalancando gli occhioni nocciola, io leggo sulle tue labbra “ Meravigliosa” e ti abbraccio così, con gli spilli ancora puntati al vestito.
Piango, tu fai “Ahaia”, una goccia di sangue scivola sul pizzo macramè. Rido come una scema e si allenta il pizzo del corpetto.
1992 il Maxiprocesso di Palermo si conclude con pesanti condanne a carico di mafiosi: fa sperare in una società migliore. Firmi il tuo primo contratto da fotografa per una prestigiosa casa editrice, ti trasferisci a Mantova da Gianni: siete innamorati persi.
Nei fine settimana noi quattro insieme: Miri, Gianni, Sara, Luca e quella sera passeggiando sul lungomare a Rimini tu mi vieni vicina mi stringi forte la mano e mi dici in un filo di fiato: “Divento madre Sara”. Gianni sorride nel luccichio delle onde. Sarò io la madrina della piccola Aurora.
“ E dai, datti una mossa! Gli altri sono già tutti a bordo”. Resto immobile con le mani salde sul corrimano. Qui ho l’oceano ai miei piedi, il verde smeraldo dell’isola, negli occhi colori e forme spudorate di fiori strepitosi, ho le Blue Mountain da scoprire ammantate d’aroma di caffè e mistero. Poi ritmo, reggae allegria: il nostro primo viaggio di lavoro.
La sera si ballava sulla spiaggia, nei lenti avvinte come fossimo una cosa sola.
“ Baby don’t  worry about the thing cause every little thing gonna be all right singing don’t worry. Miri, la mia canzone per te” ti sussurravo.
“ No, non ritorno in un luogo dove tutto è Novembre, io resto qui in Jamaica”, rispondo. Allora tu scendi la scalette dell’aereo e vieni a prendermi.
Poi la mostra fotografica a Milano, io ne curo l’allestimento, un successo inaspettato con quelle foto di donne giamaicane che sorridono senza denti e lavorano per mantenere uomini buoni solo a far figlie ubriacarsi.
Siedo su una delle tante panche disposte sul sagrato, allaccio il maglioncino sino al collo scaldo ricordi stretti al cuore. Si apre qualche ombrello tra la marea di gente immersa nel salmodiare delle preghiere. Sento bussare alla spalla, non mi volto “Miri”… bussano di nuovo,
“Miri don’t worry”. Si strappa il filo sottile che ci unisce, è come una fitta alla tempia: mi volto.
Un ragazzo  dice qualcosa dall’alto, ma io non sento, versa parole nella pioggia che scende sottile dalla mestizia del cielo. “ Hai un grosso ragno sulla spalla” scandisce ad alta voce, poi mi da una pacca sulla schiena “ Ecco adesso è andato via “.
Lascialo qui! Se è venuto da me un motivo ci sarà vorrei urlare.
Nonna Emma era ricamatrice, mi diceva sempre che i ragni vanno rispettati perché portano fortuna, forse aveva a cuore Aracne, fanciulla greca abilissima nel tessere che ebbe l’audacia di sfidare la  Dea Atena al telaio. Il lavoro di Aracne si rivelò perfetto al punto che la Dea distrusse la tela della fanciulla e trasformò Aracne in ragno.
Sai Miriana, Emma ammirava la maestria con la quale catturavi emozioni perfettamente sigillate in un lampo di ricordo e la forza d’animo dimostrata nel farti spazio in un mondo del lavoro che di donne non ne voleva.
Nonna ricamò un asciugamano fitto fitto di margherite per te, tu grata avevi massaggiato a lungo le sue mani deformi per l’usura, ma ancora in grado di domare ago e filo, le avevi messe in posa: nel tuo scatto sembravano ragnetti che si arrampicavano sulla tela invisibile.
Guardo il tremito verde scuro tra le foglie dei pioppi che circondano la piazza e mi perdo in un vortice di ricordi.
“ Ti rendi conto del pericolo? No io in quel luogo di donne sepolte vive sotto chili di stracci non ti seguirò! Porti un arma micidiale sul petto: la tua macchina fotografica. Non partire!”
Ma tu presa dall’entusiasmo accettasti l’incarico di reporter in collaborazione con un importante quotidiano.
“ La mia scelta da ora in poi sarà di dare identità  a quelle donne che sono rese invisibili, costrette a vivere in una società che le disprezza. No Sara non ti porterò con me nemmeno se tu lo volessi”.
Saresti rientrata il giorno dopo, provata dalle situazioni affrontate durante il servizio, ma orgogliosa per i risultati ottenuti. Il tuo corpo fu rinvenuto la sera stessa nelle vicinanze dell’aeroporto. Bastò una sola pallottola.
Miriana quale segreto hai carpito agli Dei per aver reciso così presto il filo della tua vita?
Un filo d’incenso si unisce al profumo del glicine arrampicato sul muretto, come mani si muovono tra la folla carezzando guance.
Nel silenzio mi alzo in piedi, la cerimonia volge al termine, dovrei dire qualcosa, salutarti  ma non so, non dico niente, non posso, ritorno al mio posto accanto ad Aurora.
Non posso lasciarti andare Miri io tengo il filo tu sei la mia trama.
Ti tengo.

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