Racconti e Poesie

Benedetta “Slammer” per la Giornata Mondiale della Poesia

L’articolo della giornalista Valeria Giacomello ci racconta che Benedetta Murachelli, poetessa di Peschiera Borromeo assai conosciuta e stimata, si è messa alla prova, e ha dato prova, in forza della sua sorprendente vitalità, di saper tenere testa a tutti gli altri poeti presenti giovedì 31 marzo, vincendo il Poetry Slam di San Donato. La notizia ha reso particolarmente felici e fiere le “alunne” partecipanti al suo Laboratorio di Scrittura di Pantigliate.

In merito al Poetry Slam, ho cercato di saperne di più, ed ho così scoperto che ha origini antichissime: già i Greci organizzavano questo tipo di competizione. Negli ultimi anni ha avuto un rinnovato slancio, prima in America e adesso in tutto in mondo; nel 2018, in Italia, gli eventi sono stati più di 300.

Si tratta dunque di un fenomeno davvero curioso, straordinario, che desta sorpresa. La recita avviene su un palcoscenico. I poeti concorrenti recitano i loro versi, in una vera e propria gara. Alla fine è il pubblico a decretare il vincitore.

Con l’interpretazione della poesia accade il recupero dell’oralità, forma di trasmissione culturale a me tanto cara. Ogni artista, attraverso il Poetry Slam, avendo a disposizione il corpo, la voce e tre minuti per esprimersi, è come se si esibisse in una disciplina teatrale, estremamente coinvolgente. I suoni delle parole, giocati bene, sono determinanti e superano il senso delle parole stesse, imponendo i presenti alla riflessione.

Direttamente dalla voce di Benedetta abbiamo poi saputo che la gara si era svolta in diverse manche, con lei sempre in testa. Quando ha vinto aveva “abbattuto” ben quattro giurie scelte fra il pubblico.

Con estrema bravura, la nostra attivissima poetessa, otre a scrivere di poesia, a narrarci le sue molteplici esperienze di vita, ad insegnarci ad amare la grammatica, la semantica, le metafore, le similitudine, la struttura dei grandi Poeti, e altro, sa pure recitare con spigliatezza e intraprendenza. E lo fa con la stessa naturalezza di una ragazza che scuote il sole dai capelli mentre mescola lo zucchero nella tazzina di caffè.

 

Il miele ereditato Efrain Barquero

Mio nonno era il fiume che fecondava queste terre.
Pieno d’innumerevoli mani e occhi e orecchie.
E, nello stesso tempo, cieco e taciturno come un albero.
Era la barba antica e la voce profonda della casa.
Era il seminatore e il frutto. Il ceppo rugoso.
L ‘indice del tempo e il sangue propizio.
Mio nonno era l’inverno con le mani fiorite.
Era il fiume stesso che popolava le terre.
Era la terra stessa che moriva e rinasceva.
Mia nonna era il ramo incurvato dalle nascite.
Era il volto della casa seduto in cucina.
Era l’odore del pane e della mela conservata.
Era la mano del rosmarino e la voce della preghiera.
Era la povertà dei lunghi inverni
avvolta nello zucchero come un’umile ghiottoneria.
Quindici figli mangiarono dalle sue mani miracolose;
Quindici figli dormivano col suo sonno d’aquila.
In molti nipoti e pronipoti abbiamo continuato
a passare nelle sue braccia secche.
Ma lei è sempre la mano che mescola l’acqua e la farina.
È il silenzio delle notti pieno d’uccelli addormentati.
È il braciere dell’infanzia con la focaccia che scappava.
Mio padre era quello che assomigliava di più alla terra.
Deve essere nato insieme con il frumento o il grano.
Mio padre era bruno.. e dormiva sul cavallo.
Era come il cavaliere lento della primavera.
Gli altri miei zii assomigliavano tutti agli uccelli locali.
Tutti avevano qualcosa degli alberi e delle montagne.
Alcuni erano possenti come i cavalli normanni.
Altri avevano il volto di pietra o di grano tostato.
Ma tutti ricordavano le cose prossime alla terra.
Era uno sciame turbolento che riempiva la casa.
Era una banda di pavoncelle che preannunciava la pioggia.
Erano le cesene che rubavano le ciliege.
lo nacqui quando erano già vecchi;
quando mio nonno aveva i capelli bianchi,
e la barba l’allontanava come nebbia,
io nacqui quando ardevano i falò di maggio.
E la prima cosa che ricordo è la voce del fiume e della terra.

Nonna Roma


Poesia di Monica Caprari


Sei scomparsa

passando fra le mie dita

mischiandoti con la terra

lasciandomi sola con l’inverno.

Un ultimo bacio ancora.

Poi chissà quando

e chissà  se

ci rivedremo.

Potrei coglierti con le viole

che crescono sul muro di cinta

ma la mia mano non le raggiunge

e la tua mano non trema più

11 Settembre

Paralizzata, incredula,
spaventata, stordita

davanti alle immagini
dell’attacco all’America

Fragile, insicura brucio gli occhi
tra quelle fiamme

Piango su quei corpi, impreco
sul nemico invisibile

Scolpito dentro un dolore fulmineo
straziante, indelebile

Ridotta a brandelli l’anima patisce
sgomento e paura

riaffiorerà insicura, frastornata,
debolissima

Pochi minuti dissolvono pace e
prosperità nella polvere

densa di suoni, grida e suppliche
Rossa di sangue








DI CHI?

Poesia di chi sei?
Non mia né di altri
che ti desiderano

Affascini il mio cuore
che più si innamora
Eppure lui sa!

Sa che tu vieni e vai
Lo prendi lo streghi
Lo costringi lo abbandoni

Lo riprendi quando vuoi
Lo seduci un’altra volta
Se ti afferra ti allontani

Ecco che poi ritorni
Ancora Senza preavviso
Adesso sei qui, con me

Possiedi le mie mani
e non mi appartieni
Poesia di chi sei?






Fotogrammi in filigrana

Fotogrammi luminosi giocavano
sul tuo profilo attraente e rilassato
mentre ti guardavo tu dormivi
Poi tutto si faceva più opaco

Con sorprendente Poesia ti osservavo
con tenerezza, dissolvenza del vero,
scoprivo il volto tuo in primissimo piano
più fragile e sincero

Questa storia, pensavo, é nata proprio
per conquistarmi; mi piace, mi scalda, mi dona
sa legare i sogni, il presente, i ricordi.
Uno ad uno in filigrana





IL MIO AMANTE

Il mio amante ha la fragranza di un biscotto appena sfornato. Mi inebrio della sua pelle di seta, il suo abbraccio mi avvolge in una nuvola di cacao. Scendo negli abissi attraverso i suoi occhi di carbone, i suoi denti aguzzi di cucciolo gli illuminano il viso. Gli sto insegnando a sorridere.

Labbra fatte per baci voluttuosi come non ne ho avuti mai e muscoli come anguille che risvegliano emozioni sepolte nel mio cervello preistorico.

Non è un musicista, non è un creativo, non è un accademico, eppure mi ha catturato. Ė un interessante ambasciatore di un altro mondo che mai avrei pensato mi sarebbe stato dato un giorno di conoscere.

Ogni tanto non ci capiamo, ci incartiamo, ci scontriamo perché in quest’era fatta di messaggi virtuali le parole non sempre sono sufficienti. Servono sguardi, mani, ore passate insieme, fili d’argento tesi da ombelico a ombelico a collegare anime affini.

Il tempo insieme è un ruscello che scorre impetuoso, il nostro rapporto ha carattere torrentizio.

LA MIA PIU’ GRANDE PAURA

La mia più grande paura è di non riuscire più a permettermi di vivere nella casa in cui sono cresciuta, la casa dei miei genitori e della mia giovinezza, la casa dei ricordi e delle insofferenze, del giardino e delle continue migliorie.

Questa casa mi tiene ancorata al mio destino e alle mie paure, è in fondo la misura della mia vigliaccheria. Non solo, è anche ben al di sopra di un’impronta di anidride carbonica accettabile e, forse proprio per quello, mi fa sentire una gran dama.

Questa casa, che mai sarei stata in grado di acquistare e che mi è stata lasciata in eredità, rappresenta il cordone ombelicale che mi collega alla mia terra, al mio Paese, a quel che resta della mia famiglia.

Questa casa mi dà sicurezza e al tempo stesso è la causa delle mie paturnie, delle mie insonnie notturne, delle mie angosce per il futuro; mi dà al tempo stesso continuità e senso di appartenenza, mi aiuta a camminare diritta per la mia strada, senza cedere alle tentazioni di un mondo ormai impazzito. Queste pareti, intrise di ricordi e di voci familiari, emanano una fiducia incoraggiante, sussurrano le parole buone di mio padre e le urla gioiose di mia madre, sono lo scalpiccìo delle zampe bianche di Yuri, le corse pazze di gioia di Puffy, il profumo pomeridiano della Oma su per le scale. Questa casa è tutto quel che resta di noi, dopo che ce ne saremo andati, forse è per quello che è così difficile immaginare di separarmi da essa.

I GABBIANI (Cardarelli)

Il poeta Vincenzo Cardarelli, utilizzando similitudini e metafore, paragona il volo “perpetuo” dei gabbiani alla sua vita, ma anche alla vita di tutti noi.

Ho letto e riletto il testo poetico e ogni volta ho provato emozioni toccanti e profonde che non avrei mai immaginato. Quante volte, sulla spiaggia all’imbrunire, mi è capitato di vedere questi uccelli che, con il loro volo basso, agile e veloce, ti sfiorano planando sulla sabbia alla ricerca di cibo e poi, con i loro strilli acuti, tornano a volare liberi verso il cielo colorato di tramonto.

Ed è allora facile immedesimarsi nel loro cercare senza fine. Nella nostra vita siamo spinti dall’affanno ad “acciuffare” le occasioni e a rincorrere freneticamente sogni e progetti. Poi sopravviene il bisogno della “gran quiete marina”, di pause e di silenzi per cercare di capire il senso di tutta questa frenesia. Il poeta conclude significativamente:” ma il mio destino è vivere  / balenando in burrasca”. In questo verso bellissimo avvertiamo il divenire spesso “burrascoso” del nostro vivere quotidiano.

Il Carnevale

Ogni anno mi prende una grande eccitazione per il Carnevale. L’emozione di vivere per qualche ora nella pelle di un altro personaggio si impadronisce di me e mi mette una specie di frenesia addosso. Purtroppo non riesco mai a preparare per tempo il costume che vorrei.

Ogni anno, al termine dei festeggiamenti, faccio elaborati piani per farmi trovare pronta alla scadenza successiva, ma quasi mai ci riesco.

Non tralascio però di travestirmi, seppure con poco.

Quest’anno ho percorso a piedi mascherata da angolana il tragitto da casa mia al paese vicino, dove la ricorrenza viene festeggiata più in grande stile da grandi e piccini. Era una bella giornata mite benedetta da un sole caldo. Sono partita a piedi col volto coperto da una maschera e con una gran voglia di fare una passeggiata. Lungo il percorso ciclo-pedonale ho mietuto sorrisi benevoli da coppie di mezza età, sguardi sorpresi da automobilisti di passaggio, occhi sgranati da bambini in bicicletta, increduli che anche gli adulti potessero vivere così profondamente questa festa. Già il percorso di avvicinamento al luogo dei festeggiamenti è stato un divertimento. Ogni tanto si incrociava lo sguardo con altre maschere e subito era intesa, sorrisi abbozzati o addirittura uno scambio di battute.

Una volta sul posto, la musica ad alto volume, i carri allegorici, la quantità di maschere mi hanno travolto e alleggerito. Insieme a molte dozzine di persone abbiamo sfilato per le vie del paese. Ho chiesto a numerosi gruppi e singoli il permesso di fotografarli, alcuni costumi erano davvero originali.

Il tema proposto quest’anno dalla ProLoco del paese era il riciclo, dunque abbondavano ampi abiti femminili realizzati con cucchiai di plastica, con carta di giornale, con materiali vari di recupero. Alcuni uomini erano vestiti da rifiuto, con una tuta bianca e una grande R sulla schiena. Ho addirittura scorto un uomo vestito con un abito realizzato in Pluriball!

Dopo l’esibizione danzereccia, la distribuzione di chiacchiere e la premiazione delle maschere più originali, il mio tragitto verso casa è stato allietato dalla dolcezza del tramonto sulle campagne circostanti, questi paesaggi rurali costellati da vecchie cascine tranquille, non degne di nota, ma comunque a me care.

L’anno prossimo voglio vestirmi da Marianna (Maid Marian), l’arciera della saga di Robin Hood.

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