Racconti e Poesie

Tenendoci per mano: I MELONI DI MIO PADRE

Sono nata in un piccolo paesino della Lombardia, dove gli inverni sono freddi e umidi e le estati calde e afose. Il vento non sapevo neanche cosa fosse. Io l’ottava di nove tra fratelli e sorelle, mio padre un padre-padrone. Quando avevo dodici anni mia madre morì, mio padre si risposò praticamente subito ed io, quasi la più piccola, imparai a fare da schiava ai miei fratelli più grandi. Fu così che appresi la gerarchia tra uomini e donne.

Mio padre commerciava in meloni. Avevamo campi e campi a perdita d’occhio, mio padre assumeva lavoranti per l’estate, che governava con pugno di ferro. Più tardi arrivarono le serre e più avanti ancora gli immigrati che lavoravano in nero per un tozzo di pane. I meloni si vendevano bene. Nella mia famiglia, nonostante fossimo in tanti, non abbiamo mai sofferto la fame.

Il giovedì e la domenica mio padre li caricava su un carretto trainato da due cavalli e li portava sulla piazza del mercato del paese vicino, a venti minuti di cammino. Là, sotto il sole, le massaie tastavano, annusavano, se li rigiravano tra le mani fino a scegliere il migliore, poi lo infilavano nella sporta a rete, a volte due, tre, quattro alla volta, e li portavano alle loro famiglie.

Io da bambina qualche volta aiutavo: mi arrampicavo in cima al carretto e sceglievo quelli che mi venivano indicati, ritiravo il denaro, quando fui in grado di contare davo anche il resto.

All’una, dopo aver ripulito lo spiazzo a noi assegnato, caricavamo l’invenduto e tornavamo a casa leggeri, dove la mia aveva preparato tre marmittone fumanti di pastasciutta al pomodoro, o la polenta. I miei fratelli ed io mangiavamo avidamente e in men che dica era tutto finito. A me toccava aiutare a rigovernare, poi si faceva il bucato e verso sera ci si ritrovava attorno al camino e alla stufa a legna a raccontare storie e a commentare i fatti della giornata mentre mia madre, le mie sorelle ed io ricamavamo. Le donne non dovevano mai essere inoperose, nemmeno nei momenti di riposo. Fu così che iniziai a preparare il mio corredo da sposa.

Poi non lo usai mai. Mi sposai presto, che il corredo non era ancora pronto, per sfuggire a quella vita di solo lavoro.

Conobbi mio marito in una calda sera d’estate profumata di fieno appena tagliato.

Siccome ero la ribelle di famiglia – ed essendo la penultima di acqua sotto i ponti ne era passata – decisi di saltare la cerimonia in chiesa e mi sposai solo in Comune, a Palazzo Reale a Milano. Per la mia famiglia fu uno scandalo e mi predissero morte e sventura. Fortunatamente non andò così male: con mio marito regalammo la vita a tre figli, che studiarono e ci diedero grandi soddisfazioni, vivemmo insieme fino a tarda età, in discreta salute e in buona armonia.

Quando morì mio padre, l’azienda fu rilevata da uno dei suoi fratelli più giovani, che aveva una nidiata di figli. Ogni tanto vedevo una delle sue figlie arrampicarsi sul pianale del furgone nella piazza del mercato e gestire le richieste di meloni delle massaie che, come nella mia infanzia, non mancavano. Le terre della mia famiglia sono ricche e i meloni ci crescono bene. Sono sodi, colorati, zuccherini. Ogni tanto ne sparisce qualcuno, dice mio zio, ma è nell’ordine delle cose. Una delle mie nipoti prenderà in mano le redini dell’azienda, lo vedo già, lei molto più capace e intraprendente dei suoi fratelli: ci sa fare con le signore, è gentile, complice, fa qualche euro di sconto e loro si sentono speciali, sentono di avere un’alleata, perché è donna, sta dalla loro parte. Mio zio è inflessibile e burbero, un gran lavoratore, ma con le persone non ci sa fare. Sua moglie lo assiste defilata, quasi spaventata e grata di quella figlia tardiva che le evita certe incombenze, questo regalo di Dio che sta tirando su le sorti della famiglia, con i suoi doni di diplomazia e il suo fidanzato instancabile lavoratore dalle mani d’oro, che ha rimesso a nuovo l’impianto elettrico di tutta la casa.

I miei fratelli sono tutti sposati, in chiesa naturalmente, e ognuno ha la propria famiglia. Non ci siamo spostati di molto, ci incontriamo ancora spesso per un motivo o per l’altro nei paesini intorno a quello dove siamo nati, spesso ci incrociamo al mercato o a qualche festa di famiglia. Io sono rimasta la pecora nera, ma nessuno mi deride più. La maggior parte di loro ha tresche o vive di apparenze, io amo mio marito: per strada ci teniamo per mano e aspettiamo la pensione mia per poter realizzare il nostro sogno di viaggiare. Nel frattempo mio marito si tiene impegnato, anzi, non ha un minuto libero e dice che non gli basta il tempo! Da pensionato!!

Appena è andato in pensione si è iscritto a un progetto di apicoltura alternativa, top-bar credo che si chiami, nel quale le api non vengono sfruttate come col sistema tradizionale. Nel giro di un anno ha fatto installare sul tetto della nostra casa pannelli fotovoltaici e un sistema di recupero dell’acqua piovana che ci fa risparmiare 600 metri cubi di acqua all’anno.

Le domeniche d’autunno traffica con i telai per gli alveari, le domeniche di primavera va alla ricerca di nuovi pascoli per le famiglie di api ormai cresciute, durante la settimana sforna pane e focacce che regaliamo ai figli e agli amici, poi si è aggregato a un progetto per far partire una comunità energetica nei paesi vicini, che purtroppo non si è realizzato. Mi sento fortunata quando riusciamo a fare qualcosa insieme!

P.S.

Stamattina,

passando la scopa per raccogliere i piumini di polvere,

ho trovato accanto al mio letto

un elastico giallo,secco, a forma di cuore,

un piccolo cuore.

Mi fa piacere pensare che sia

la tua risposta per me.

Mi sentirò meno sola.

Grazie,ti voglio bene anch’io.

Gabriella

Fratello

Ultima radice,

improvvisamente

strappata al mondo,

nera di dolore,

sola.

Sparita all’incontro ,

sfuggente mistero

di vita controcorrente,

oscura scelta di no.

Libera

Ti voglio bene.
Come vorrei un tuo “Ricevuto”

Gabriella

La mia nuova borsa

Mi piacciono le borse. Da quest’estate ne ho una nuova.

Per la verità non è una borsa vera e propria: è uno zainetto, misura da bambina, che ho trovato  in un negozietto, in montagna.

Comperato perché il mio vecchio, estivo, aveva deciso di mostrare al mondo tutto il suo contenuto: si era rotta la cerniera.

Requisiti per il nuovo acquisto dovevano essere: un costo contenuto, forma arrotondata, una dimensione ridotta, un colore allegro, non di plastica. Trovato.

Sfondo blu cielo estivo notturno, stampa con farfalle e fiori, dal rosa al giallo all’azzurro,  di stoffa morbida, chiusura a secchiello, con pattina anteriore e bottone, profili e tracolla color cuoio. Due piccole tasche davanti.

Immediatamente riempito.

Prima le tasche  davanti con fazzoletti di carta perché c’è sempre qualcuno che ha la “candela”, un lucidalabbra per darmi un tono, uno stick per le macchie della vecchiaia e qui non vorrei  spiegare il perché, qualche tic tac per evitare il calo di zuccheri.

All’interno poi, più al sicuro, le chiavi di casa, il portafoglio,piccola cassaforte di utilità e sentimenti, con le foto dei miei figli vestiti da pipistrelli per un carnevale, quelle dei miei genitori e parenti ancora giovani, le carte di credito, la patente, la c.i.e. e un numero considerevole di carte fedeltà di vari negozi, infine il cellulare.

Ci sono anche le borse per la spesa,solitamente tre,una grande e resistente e due  piccole e riciclabili, per ogni eventualità.

C’è poi una scatolina di analgesico per il mal di testa perché quando sono in giro, e mi capita di averlo, immediatamente prendo una pastiglia per godermi appieno quello che sto facendo.

Per ultimo in questi giorni , nella mia borsa, ci sono due cose che ho trovato tra le foto a casa di mio fratello: una patente di carrista del 1939 di mio papà ( che all’epoca aveva ventun anni), con accanto a questa data, il numero  romano XVII a indicare gli anni passati dalla marcia su Roma di Mussolini e una lettera scritta da lui a mia  mamma.

È un intarsio, ingiallito dal tempo o forse no, ritagliato secondo varie pieghe e angoli così  che aprendola sembra un pizzo. MERAVIGLIOSA .

Non ho avuto ancora il coraggio di leggerla perché mi sembra di violare la loro intimità.

Me lo vedo mio padre, giovane soldato, in un momento di pausa dalle manovre del  C.A.R., appoggiato a un muretto , che intaglia la carta e poi , con il cuore nella felicità, scrive alla sua bella. Ignari entrambi di quello che di lì a poco sarebbero stati costretti a vivere .

Fra qualche giorno forse  la leggerò e nell’attesa penso che le borse sono come le persone: quello che hanno dentro è  più interessante di quello che si vede fuori .

 

Gabriella

Fortunato e la principessa azzurra

Fortunato, così lo avevano chiamato i suoi genitori. Peccato che nella sua vita, di fortuna, ne avesse avuta poca.

Almeno sino il giorno prima, quando il capo, un signore grande e grosso da sembrare un pachiderma, lo aveva chiamato per andare in aeroporto a prendere Samantha. Samantha Mason.

A Fortunato, non parve vero quando il Direttore commerciale lo convocò per chiedergli di andare a prendere Samantha Mason, top manager del cliente più grande della loro azienda. «Pensa, ha solo trent’anni ed è già la figura più importante», così gli disse il capo, poi aggiunse: «Non mi far fare brutte figure. Ne va di tutti i nostri contratti, e del tuo posto di lavoro, conseguentemente».

Fortunato era tornato alla sua scrivania. Per qualche istante, incredulo, fissò lo schermo. Un suo collega chiese: «Bronto, tutto bene?». Già perché in ufficio nessuno riusciva a chiamarlo Fortunato. Per loro era Bronto. I motivi erano due: la sua sinusite e la sua somiglianza con un Brontosauro.

Infatti, la natura gli aveva assegnato una certa irregolarità nelle proporzioni. Aveva la testa minuta rispetto al collo. Le spalle strette rispetto ai fianchi e alle gambe, stranamente tozze. I denti piccoli e distanti, come gli occhi. Non era certo un adone, ma compensava magnificamente con due cose: Il senso dell’umorismo e un romanticismo quasi agghiacciante. Sognava la principessa azzurra sul cavallo bianco che lo avrebbe portato nel suo castello.

E quel giorno, la principessa azzurra, sarebbe arrivata. A Malpensa. Se il capo aveva pensato di mettergli paura, si sbagliava. Lui aveva iniziato a sognare.

Fortunato si era preparato per bene, la divisa aziendale fresca di lavanderia, sbarbato e profumato. Aveva anche pensato di accoglierla con un mazzo di fiori. Il miglior benvenuto per una principessa.

Per tempo, si era messo in macchina. Non voleva tardare. Ma si sa, a Fortunato qualcosa andava sempre storto.

Quel giorno, sulla tangenziale, il traffico era bloccato. Un camion ribaltato o qualcosa del genere. Fortunato aveva iniziato ad angustiarsi, batteva le mani sul volante. Alla fine raggiunse l’aeroporto proprio mentre il volo di Samantha stava atterrando. Trovare parcheggio gli prese qualche minuto di troppo, poi, quando stava varcando la soglia degli arrivi, dovette tornare indietro, alla macchina, perché aveva dimenticato il mazzo di rose e il biglietto con il nome di Samantha Mason. Quando finalmente raggiunse la sospirata meta, si sentì per un attimo smarrito. Cercava febbrilmente un posto, dove mettersi nella ressa di gente che pareva essere vomitata dal gate. Per di più, un cingalese continuava a tallonarlo, forse attratto dalle rose. All’inizio, Fortunato lo evitava semplicemente, poi quando si era fatto insistente, lo aveva mandato al diavolo: «Ma vai a fanculo!», più propriamente gli disse. Per poco non gli aveva messo le mani addosso.

Finalmente Fortunato si era piazzato in prima fila agli arrivi. Mazzo di rose in bella vista e cartello un po’ alzato, affinché le persone che uscivano potessero vederlo.

Purtroppo, Samantha Mason non lo raggiunse. Forse, si disse, era già sbarcata. Sicuramente aveva preso un taxi per andare in ufficio. Fece un po’ di giri in aeroporto, con le rose e tutto il resto. Ma niente. Solo il cingalese rompiballe. Fortunato era così disperato che piazzò in malo modo il mazzo di rose tra le mani del cingalese, fece a pezzi il cartello e si diresse verso la sua macchina. Non aveva il coraggio di tornare in ufficio. Men che meno di chiamare il capo per giustificarsi.

Riprese la tangenziale, ma era talmente angustiato da sbagliare l’imbocco almeno due volte.

A un certo punto, ovviamente, fu il capo a chiamare lui. Parlava a bassa voce per non farsi sentire, il tono come un sibilo di serpe, le parole dette tutto di un fiato: «Dove sei che Samantha Mason è già qui».

Fortunato farfugliò qualcosa, il traffico bloccato, il camion ribaltato, ma il capo aveva già messo giù.

Quando entrò al lavoro, si diresse mestamente verso l’ufficio del Direttore. La porta era chiusa. In ogni caso, Fortunato si aggiustò la cravatta della divisa, i capelli, fece un bel respirone e bussò. Voleva scusarsi con il capo e con Samantha. Si era già preparato il discorso, qualche battuta per stemperare la tensione e per accattivarsi la top cliente. Qualcosa tipo: «The devil in the traffic[i]».

Quando disse: «Mi scusi, sono…», sentì la voce del capo interromperlo e dire: «Just a moment, please. Un momento per favore. Ti chiamo dopo».

Fortunato sentì di aver di nuovo pestato qualche uovo.

Si diresse alla scrivania. I colleghi erano stranamente silenziosi. In ufficio aleggiava un’aria diversa. Lui aveva salutato distrattamente, apposta, perché non voleva che nessuno gli chiedesse nulla.

Si era buttato subito a leggere le mail, così per distrarsi. Infatti, quando il telefono sulla scrivania squillò, Fortunato fece un salto sulla sedia.

Era l’interno del direttore. Alzò la cornetta così di fretta che gli scivolò di mano e cadde a terra. La raccolse più in fretta che poteva, quando rispose, sentì il capo fare un sospiro. Un sospiro di quelli che fanno i vulcani prima di eruttare. Comunque disse solo: «Vieni qua».

Fortunato si lisciò i capelli con le mani e nel farlo, si rese conto di puzzare di sudore. Il deodorante non aveva retto. Cercò di ritrovare tutta la sua baldanza, voleva essere positivo, così a lunghi passi tornò verso l’ufficio del direttore, spalancò la porta e rimase immobile come un fermo immagine.

Davvero non riusciva nemmeno a respirare, nel vedere Samantha Mason. Samantha Mason. Samantha cognome, Mason nome. Samantha, cognome di origine dello Sry Lanka. Mason, nome del cingalese che continuava a tampinarlo all’aeroporto. Le rose erano buttate sul tavolino, malamente.

Fortunato ebbe, per la prima volta in vita sua, uno svenimento.

 

[i] Parafrasi di ‘the devil in details’, associabile al nostro ‘quando il diavolo ci mette la coda’.

Le tre amiche

Le onde si infrangevano contro la scogliera nera creando spruzzi di bianco che tornavano al mare, striando il verde profondo delle acque inquiete.

Il cielo era carico di nuvole, ma alcuni raggi di sole trapelavano regalando squarci di blu. Presto il tempo sarebbe migliorato.

Dall’alto della scogliera, si poteva vedere la brughiera correre piatta, bruna di arbusti e rosata d’erica.

In lontananza, vi era la fattoria dei Fincher, una casa bianca e bassa le cui finestre erano ingentilite da imposte colorate di verde oliva. Intorno, cespugli di lavanda delimitavano il frutteto e l’orto. Poco distante, l’essiccatoio per il pesce, il pollaio e l’ovile che in quel momento era vuoto. Se si allungava lo sguardo, si potevano vedere le macchie bianche delle pecore cariche di lana.

La casa dei Fincher era composta da grandi vani, una cucina molto attrezzata, camere luminose dal soffitto rigato di travi, e soprattutto il salotto, la stanza meno frequentata dai Fincher, ma dove risiedevano le nostre tre amiche. Nessuno avrebbe potuto dire né il perché e nemmeno da quanto fossero lì. Di fatto stavano tutto il tempo a chiacchierare amabilmente.

A guardarle da lontano, erano simili e diverse al tempo stesso. Rotondette tutte e tre, davano l’impressione di querule sorelle, ma mentre una aveva la pelle rossa come un’irlandese scottata dal sole africano, le altre due erano piuttosto chiare. Miss Golden aveva quasi il colore del miele, forse grazie alla lunga permanenza all’aria aperta, giacché quell’estate era stata assai clemente rispetto al solito. Miss Smith, invece, era la più bruttina, per via del profilo incerto e della pelle tendente al verde, come soffrisse di quella malattia chiamata clorosi. Era anche la più anziana e  si dava delle arie da gran regina, tant’è che le altre due, di nascosto, la chiamavano Granny[1].

A un artista, potevano sembrare un quadro di Caravaggio.

Come già detto, le tre passavano buona parte del tempo a conversare di ogni futilità, raggiungendo considerazioni profonde sul tempo, sulle fioriture o sulle vicissitudini della famiglia Fincher, formata da papà Fincher, mamma Fincher, piccolo Fincher, gatto Fincher e cane Fincher.

Quel giorno, però, anziché la solita cordiale atmosfera, tra le tre aleggiava una sorta di nervosismo.

«Oh! Cielo! Si può sapere cosa le è successo?», chiese Miss Smith all’amica vicina che se ne stava adagiata in una strana posizione, un po’ di sghimbescio.

«È che ieri sono caduta, e ora guardi…», rispose ella mostrando il fianco acciaccato.

«Oh! Mio Dio, che ematoma! Si sta facendo marrone», disse con voce preoccupata Miss Golden, che stava dall’altra parte, di fianco della dolorante amica.

«Già, colpa del piccolo Fincher. Stava giocando con cane Fincher, proprio qui davanti, e accidentalmente mi ha colpito. Io sono stata presa alla sprovvista e sono caduta rotolando come un sasso sul pavimento».

Le due amiche guardarono Miss Stark quasi con orrore, lei non se ne accorse e continuò: «Sì, mamma Fincher lo ha sgridato. Io non sapevo che dire. Mi hanno subito aiutato, adagiato come adesso, ma il dolore, quello, non passa. Continua a pungere ed è come se si allargasse di minuto in minuto. Sto impazzendo, credetemi», sospirò con la voce che andava via via strozzandosi.

«Le credo eccome», rispose Miss Golden, «a guardare bene, sembra che quel morello, quel livido, s’ingrandisca a vista d’occhio. È duro?».

«Macchè,  a tastarlo, se non mi facesse così male, è tutto molle. Forse mi sono rotta qualcosa», rispose Miss Stark con la voce tremolante.

Le altre si guardarono di sbieco, cercando di non farsi notare dalla poverina, che ora stava piangendo. Nei loro sospiri trapelava una certa ansietà e preoccupazione. Più inquietudine che apprensione: in verità il fianco era davvero brutto a vedersi e starne vicino causava una certa angoscia. In ogni caso, decisero di troncare la conversazione per un po’, così da lasciare che l’amica potesse riprendersi.

Il sole avanzava nella stanza, come strusciando sul pavimento. Il cielo si era definitivamente aperto e dalle finestre spalancate alcune mosche erano entrate infastidendo i presenti. Soprattutto le tre amiche.

Faceva ancora caldo, malgrado fosse settembre inoltrato. L’odore dei fiori d’erica invadeva le stanze della grande casa, talvolta mischiandosi a zaffate di salsedine e di pesce seccato al sole .

Miss Smith ruppe il silenzio chiedendo: «Sta meglio ora, cara?».

«Non molto, anzi, per niente, ma non voglio passare il pomeriggio a piangermi addosso. Voi, piuttosto, come state?»

«Io ho un leggero bruciore dentro. È da due giorni… ma non ho voluto tediarvi con questa cosa. Magari vi sareste preoccupate», rispose Miss Smith.

Le altre due parvero sobbalzare. Miss Golden chiese con un filo di voce teso, il tono di chi è a un passo dallo scatto d’ira: «Scusi? Sta male da due giorni e non ci ha detto niente?»

«L’ho detto, non volevo preoccuparvi. non sarà nulla, che dite?», chiese alle amiche con una vena d’ansia nella voce.

Miss Golden cercò di recuperare la calma e disse: «Si sa che certi disturbi non vanno mai sottovalutati. Conoscevo una vicina… anche lei aveva iniziato a soffrire di bruciori. Ebbene, da un giorno all’altro non l’ho più vista. Mai più vista. Chissà che fine avrà fatto, la poverina».

«Ne ho sentito parlare, di questo fatto. Anche i Fincher ne discutevano. Sembrava quasi un problema nazionale. Si trattava di Miss Red, vero?», disse Miss Stark la cui voce non aveva perso il tono di sofferenza.

«Miss Red, certo. Me la ricordo. Non è accaduto molto tempo fa, no?», aggiunse Miss Smith con la voce incerta per via del suo strano malessere.

«Sì, sarà un paio di settimane. Eppure a vederla, non avreste mai detto che la sua malattia fosse a uno stadio così avanzato», sospirò Miss Golden.

Dopo essersi scambiata una lunga occhiata con Miss Golden, Miss Stark disse: «Ho sentito papà Fincher dire che era una cosa contagiosa. Quella di Miss Red, intendo. Era davvero preoccupato».

Le tre amiche rabbrividirono,  stettero in silenzio per qualche istante, poi Miss Smith prese la parola: «Certo, il mio non è che un leggero bruciore, non ne farei un caso nazionale. Miss Red, invece, aveva qualcosa di molto grave. Credo di aver sentito parlare di Dracunculosi ».

Tra le tre, in verità, la più malmessa era proprio Miss Golden, che cercava di nascondere le rughe che solcavano la sua pelle ormai vizza. Fu proprio Miss Golden a cambiare discorso: «Che cosa avreste voglia di fare, oggi, care?». Tutti i giorni poneva quella domanda e la risposta era sempre la stessa: arrivare sino alla scogliera e fare un bel bagno in mare.

Improvvisamente le amiche ebbero un moto di spavento, tacquero perché era entrata mamma Fincher. Raramente varcava quella soglia, solo per spolverare o cacciare via gatto Fincher, che grattava il divano in damascato rosso.

Mamma Fincher si diresse verso il tavolo Chippendale che impreziosiva la stanza e controllò il vassoio della frutta. Sospirò nel vedere le tre mele.

Uscì per buttarle, ma anziché andare verso il pollaio,si diresse verso la scogliera, attraversando la brughiera. Non avrebbe saputo dire perché. Forse le era spiaciuto vedere quelle belle mele avvizzire.

Forse si era figurata che la vita fosse un po’ così.

Di fatto, le lanciò al vento mormorando: «Addio».

 

 

 

 

[1] Nonna

Io ti ho sognato

Non so come ci siamo incontrati, so solo che ti conosco.

Abbiamo passato del tempo come conoscenti, e ci siamo visti tutti i giorni da settimane. Ma adesso sento il peso della tua prossima partenza. La fuori, una guerra assurda che potrebbe non farti tornare.

Ti guardo, il tuo viso dalla carnagione abbronzata, illuminato da un sorriso bianco e contornato da un pizzetto scuro. Ho voglia di baciarti, ma ho paura che tu possa non contraccambiare.

Sei qui davanti a me, la tua voce profonda mi accarezza la pelle, le tue parole scivolano sulla mia schiena. Un calore mi assale. Penso ai giorni che mancano alla nostra separazione e poi forse non ci vedremo più. Non ho niente da perdere. Ho deciso.

Mi avvicino a te, riducendo la distanza dei nostri corpi, tu smetti di parlare e il tuo sorriso scompare, ma i tuoi grandi occhi castani fissano i miei. Il mio cuore accelera i battiti. Le tue mani afferrano le mie braccia attirandomi a te. Ora i nostri corpi sono cosi vicini che sento anche i battiti del tuo cuore. In un attimo le nostre labbra calde si sfiorano. Solo un attimo, solo un assaggio. I nostri sguardi si incrociano, il respiro affannoso. E allora ci baciamo stringendoci l’uno all’altra, le tue mani afferrano il mio volto e mi baci come se volessi mangiarmi. I vestiti cadono, le nostre mani e le nostre labbra sfiorano la nostra pelle. Facciamo l’amore. Dolce passionale come due persone che si prendono tutto il tempo che gli resta.

Poi tra le lenzuola, mentre la mia testa si appoggia al tuo petto e tu mi accarezzi i capelli, ti dico che non voglio che tu parta. Tu afferri il mio viso e sorridendo mi dici che devi partire per forza. Io chiudo gli occhi per cacciare via quel pensiero. Li riapro. Intorno a me solo il buio della mia stanza. Allungo la mano per cercarti dall’altra parte del letto. Il vuoto. Il silenzio. Ecco la parte più brutta, sospiro forte,  per calmare il mio cuore da tutta la passione ricevuta e silenziosamente parlo al mio cervello: “ Era solo un sogno!”

Dopo un ora non riesco ancora a prendere sonno. Il sogno era così vero. E allora mi chiedo, ma se io ti ho ti ho sognato ed eri così reale, non può essere che dall’altra parte del mondo ci sia lui che abbia sognato me?

La voglia di…

La voglia di
fare l’amore con te
è salita
dal fondo delle gambe,
sincera, inattesa,
forte e seducente,
con fitte improvvise,
nel corpo un tremore
invadente,
il pulsare del sangue,
un martello nella mente

Ho chiuso gli occhi
senza pensare,
le mani aperte
entrambe sul ventre
per lasciarmi cullare
Poi ho capito
che stavo per mancare…
Dalla caduta
mi ha salvato un niente!

(So già  che riderai
quando te lo raccontero’
Sai, stavo al piano ammezzato
Sì, proprio alla “Rinascente”!)

Al mare – fine anni sessanta – prima parte

Mamma e papà davanti, seduti sulla FIAT 850 color caffelatte. Io e mia sorella maggiore dietro. A tenerci ben salde sui sedili non c’erano né seggiolini né cinture di sicurezza, ma una serie di valigie che non appena ti muovevi s’infilavano con gli angoli nel costato.

Io non so se avete presente una FIAT 850. Di fatto, aveva quasi la forma di supposta. Nel nostro caso, anche il colore delle supposte di allora.

Ebbene, la nostra Fiat 850 pronta per partire per il mare perdeva le sembianze di auto e assumeva quelle di piramide. Sul tettuccio, stavano impilate un sacco di cose. Tavolini, sdraio, ombrelloni e altro che non saprei dire. Tutto sommato, eravamo una famiglia che si portava dietro dolo il necessario. Capitava di vedere macchine sovrastate da materassi, credenze, cucine a gas. Credo di aver visto anche una bara. Spero fosse vuota.

Il viaggio iniziava a un’ora imprecisata della notte, quando il mattino deve ancora farsi strada nell’orizzonte viola. Eppure dovevamo percorrere duecento, massimo trecento chilometri. Si andava il Liguria.

La prima tappa, il casello autostradale, pareva un mare grigio coperto di sardine. C’erano così tante macchine in coda che si scendeva e si faceva amicizia. Penso siano nate storie d’amore, faide e scazzottate. Poi si saliva e si riprendeva il viaggio come niente fosse.

All’epoca soffrivo il mal d’auto. Gli ammortizzatori della macchina erano quello che erano, ma sicuramente incideva il fatto che, a un certo punto del viaggio, io e mia sorella ce ne stavamo in ginocchio a fare le linguacce alle macchine dietro. Mio padre ha rischiato il linciaggio.

Generalmente, si alloggiava in qualche pensione. Le pensioni, erano proprio pensioni. Mica come adesso che anche la più sgarruppata c’ha la piscina. No. Allora sembrava di stare in uno di quei condomini dell’hinterland milanese, senza ascensore e con le porte in laminato finto legno.

Il mare, io lo odiavo. Almeno al mattino, perché mia mamma ci costringeva ad alzarci all’alba per andare sul molo a respirare lo iodio. Ioodio, io odio. Camminavamo con la salsedine che ci induriva i capelli. Al pari nostro, si vedevano altri figli emaciati di città che vagavano trascinati come gli ignavi nel limbo.

Quando finalmente il sole lambiva la spiaggia, ci sistemavamo con tanto di ombrellone. Per il bagno, bisognava aspettare, che avevamo appena fatto colazione. Tre ore. Le tre ore più lunghe della mia vita. Allora me ne stavo accoccolata a guardare la gente. Vi dico subito che le donne avevano i peli sotto le ascelle. Tutte, indistintamente. C’erano anche quelle che li avevano sulle gambe e sulla faccia. Non ricordo come si gestisse la questione inguine. Forse i costumi erano talmente alti da nascondere tre quarti del corpo.

Gli uomini, invece, avevano il riportino per nascondere la calvizie. Il riporto era un problema quando tirava vento. Svolazzava come una bandiera.

Mio papà no. Lui era magro come un’acciuga. Non era un cappellone, certo, ma i pochi ricci facevano il loro dovere.

Mia mamma era sempre la più bella della spiaggia. Almeno secondo mio papà. Poteva pure passare Brigitte Bardot, ma mio padre avrebbe detto: «Mica c’ha le gambe belle come le tue».

Noi bambini avevamo i costumi di una strana stoffa, forse un misto tra lycra e flanella. Di fatto, quando si bagnavano diventavano pesanti come tute di palombari.

I bambini si dividevano in due schiere: quelli con le spalle bianche di crema solare, e quelli con le spalle rosse bruciate dal sole.

La crema solare aveva una protezione duecento (mila). Praticamente era malta da applicare con la cazzuola.

Io e mia sorella eravamo nel secondo gruppo. Ci venivano le bolle, poi ci divertivamo a toglierci lembi di pelle che si staccavano docili.

Per fare il bagno, o sapevi nuotare, o avevi il salvagente. Mica i braccioli, credo non esistessero, perlomeno nella nostra famiglia. Noi avevamo un salvagente che se non lo tenevi fermo con le mani, finivi nel buco e andavi in fondo al mare. Una volta papà aveva portato un materassino, di quelli rossi e blu. Puzzava di gomma e s’imbeveva d’acqua. In ogni caso lo usava mamma, così io e mia sorella giocavamo a riva, a farci trasportare dalla risacca. Quanto tornavamo all’ombrellone, il costume penzolava carico di sassolini e macchiato di catrame. Non chiedetemi perché, ma tutte le volte ci si macchiava di catrame.

La merenda era: o pane burro e marmellata, o pane e marmellata. Eravamo una famiglia del nord.

I bambini figli delle famiglie del sud, potevano spaziare dalle fette di pane imbevute di pomodoro alla parmigiana con le polpette.

I giochi da spiaggia erano praticamente tre: pallone gonfiabile colorato, secchiello con paletta, rastrello e un’altra cosa che non ho mai capito a cosa servisse, tipo piccone. Nemmeno fossimo sulle dolomiti. Che poi, io e mia sorella manco ci potevamo fare i castelli di sabbia, perché la spiaggia era di sassi. Al limite potevamo costruire trincee come al fronte. Infine, c’erano le biglie di plastica trasparente, con le foto di Eddy Merx e compagnia bella. Quello era un gioco destinato ai maschi. Io schiumavo perché con le biglie di vetro ero una campionessa del rione.

La percentuale di papà che giocavano con i figli a costruire castelli (non di sabbia, almeno sulla nostra spiaggia), era intorno all’uno per mille. Pochi, pochissimi. La maggior parte se ne stava sotto l’ombrellone a fumare. All’epoca, tutti fumavano dappertutto. Forse solo in chiesa non si poteva. Per il resto, nel cinema, nei ristoranti, negli ospedali, aleggiava una nebbia di nicotina. Soprattutto nei reparti maternità. Lì era praticamente d’obbligo. Anche se un papà non fumava, lì, nella sala d’attesa, si accendeva una sigaretta con il mozzicone dell’altra. Perché i papà mica partecipavano al parto. No, aspettavano fuori in attesa che arrivasse l’infermiera col verdetto: «È maschio!», «È femmina!», «Sono due!». Questo è capitato a mio zio. Credo sia svenuto, ma nessuno se n’è accorto per via della nebbia di nicotina.

Già, perché non esisteva l’ecografia. Il sesso si poteva prevedere con il pendaglio, oppure osservando la pancia, se era a punta o no.

L’orizzonte del mare era punteggiato da pedalò e canotti. Qualche barca di pescatori della domenica. Certo, non c’erano moto d’acqua e nemmeno gonfiabili sfarzosi come Regge di Versailles.

Talvolta potevamo comprare il gelato. Già, il gelato. Adesso puoi scegliere tra un migliaio (alla sesta) di gusti. Allora erano quattro: panna, cioccolata, fragola e limone. Talvolta fior di latte. La vera rivoluzione fu l’avvento della stracciatella

FINE PARTE UNO

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