Tutti gli articoli di Sara Zucchelli

Quello che sappiamo dell’Amore

Quante volte diciamo “ti amo” nella vita?
Non contano i “ti amo” buttati in mezzo ad una frase tanto per dire, ma quelli detti sul serio, con il cuore che batte a mille, le pupille dilatate e le farfalle nello stomaco.
La tesi di Amy consiste nel fatto che i bambini lo dimostrano più frequentemente, attraverso l’affetto e la sincerità, gli adolescenti lo sussurrano sotto voce, ancora increduli di ciò che provano e un po’ timorosi nel dare il loro cuore in mano a qualcun altro, mentre gli adulti sono un genere a sé. Alcuni pretendono di basarsi sulle esperienze, più o meno negative, che si portano alle spalle facendo in modo, molto spesso, che quelle tre paroline non vengano mai più pronunciate e finiscano nascoste sotto pile di scuse e menzogne, a prendere polvere in un angolo remoto di sé.
Qualche giorno prima, mentre Amy stava parlando con una sua amica, si era decisa a chiederle di punto in bianco: «Secondo te cos’è l’amore?»
L’amica l’aveva osservata come si guarda un pazzo o qualcuno che non sa bene ciò che sta dicendo e le aveva sussurrato: «A me lo chiedi? Dovresti essere tu a dirmelo».
Amy l’aveva guardata con fare assente e poi si era girata verso la finestra aperta, come faceva sempre quando pensava ad una risposta sensata da dire.
Con fare deciso aveva risposto: «L’amore è un uomo che sta seduto in un bar la mattina prima di andare al lavoro, pensa alla carriera e alla Gazzetta sportiva che tiene tra le mani mentre sorseggia il suo caffè. Sente di essere soddisfatto, non ha bisogno di nulla. Ad un tratto, però, la porta del bar si spalanca e lei entra. In quel momento lui sa che nulla sarà mai più come prima». L’amica l’aveva guardata dubbiosa: «Beh allora non resta che scoprirlo», le aveva detto con un sospiro.
Quel pomeriggio Amy tornò al bar. Lo trovò al solito posto, con in mano un caffè e la Gazzetta sportiva aperta alla pagina dei risultati del campionato.
Mark teneva gli occhi fissi sulla Gazzetta anche se non la stava leggendo realmente.  Mentre sorseggiava il suo caffè ripensava alla ragazza che aveva intravisto il giorno prima e di cui aveva incrociato lo sguardo. Gli aveva sorriso e lui era rimasto colpito dai suoi occhi sereni e remoti.
La sentì entrare nel bar con un brivido, come se improvvisamente stesse respirando aria fresca, e si voltò a guardarla.
Lei indossava un vestitino azzurro, con una gonna lunga. I capelli a caschetto le mettevano in risalto il viso, mentre gli occhi verdi brillavano.
«Indossa i colori del cielo e delle foglie scosse al vento», pensò, e sentì abbattersi tutte le barriere.
«Tu sei una creatura eterea, non puoi stare nel chiuso di un bar, – riuscì a dirle quasi con timidezza – perché non usciamo a fare una passeggiata all’aria aperta?»
Lei accettò con un sorriso.
Mentre camminavano Amy lo prese sotto braccio, con una confidenza che lo stupì piacevolmente, e cominciò a raccontargli della sua passione per il pianoforte che suonava fin da piccola. Le piaceva moltissimo ascoltare i suoni che le sue dita creavano solo sfiorando i tasti di quello strumento. Potevano essere brividi o lacrime le sensazioni che trasmetteva ogni volta che le note entravano nella sua anima.
Mark, si scoprì a desiderare di riuscire a parlarle di sé.
Negli anni aveva costruito attorno a sé così tanti muri da non riuscire più a fidarsi di nessuno. Preferiva non entrare troppo in sintonia, in confidenza con nessuno.
In quel momento, tuttavia, le cose avevano cominciato a cambiare e le sue nubi interiori a diradarsi, spazzate vie dalla brezza degli occhi di lei.
Come leggendogli nella mente, lei gli chiese: «Cosa c’è che ti turba dietro tutta questa imperturbabilità di cui ti travesti? Continui a dire che sei felice, che non hai bisogno di nulla, ma sento in te una malinconia e un dolore profondi. Confidati».
La voce gli uscì come un fiume in piena: «Sono stato ingannato e ferito molte volte, soprattutto da una donna con cui pensavo sarebbe stato per sempre.  Così mi sono creato una nuova routine e sto molto bene, sono felice».
«Ma ti manca qualcosa – Amy lo riprese subito prima che lui lasciasse cadere il discorso – sogni una famiglia».
Mark sussultò, si chiese come lei avesse fatto a intuire il suo più grande rammarico.
«Puoi farcela, Mark. Puoi trovare qualcuna che ti restituirà amore e fiducia. Devi solo crederci», lei sussurrò.
Mark chiuse gli occhi per un istante, sentendo che si stavano riempiendo di lacrime.
Quando li riaprì, lei era sparita, come rapita da un turbinio di vento.
Non la rivide mai più.
Amy entrò in ufficio e la sua amica, Malinconia, l’accolse con un sorriso languido: «Alla fine il tuo assegnato ce l’ha fatta, ha trovato una persona che lo ama e lo rende felice. Il capo apprezzerà l’esito positivo di questa tua missione».
Per la prima volta Amy sentì il peso del suo lavoro: interagire con gli umani salvandoli dalle loro stesse emozioni.
Alzò le mani verso l’alto e creò un vortice d’aria. Ci guardò dentro e vide Mark sorridente accanto a una donna. Questa volta c’era mancato poco che si affezionasse sul serio, o forse quel confine lo aveva superato e le faceva male sapere che la sua corsa verso la felicità non aveva mai pace, ogni missione andata a buon fine rendeva felice sempre qualcun altro e lei si ritrovava di nuovo al punto di partenza.
Il capo la richiamò all’ordine: «Ti sei meritata una pausa, ma non dimenticarti di chi tu sei, mi raccomando Amore, o Amy come hai deciso di farti chiamare tra gli umani».
Amore pensò che, forse, l’amore per gli umani è un’emozione temporanea, che li fa sentire vivi anche solo per un momento e che poi, con il tempo, si trasforma in qualche altro suo collega: Affetto, Stima, Fiducia.
«Chissà se il mondo degli umani differisce così tanto dal mio», si chiese mentre camminava verso casa. Una figura le si mise di fianco, la guardò con fare disinvolto e le si presentò: «Mi chiamo Disillusione, ti andrebbe di prendere un caffè?»
Amore esitò ma poi, sentendosi a suo agio, lasciò da parte il suo lato più romantico e innocente e accettò la proposta. Era arrivato il tempo di crescere.

FUOCO

C’è una luce
Nascosta sotto la mia pelle

Si accende ad ogni tuo tocco
Ad ogni tuo sospiro

Brucia
Come il fuoco

Arde prendendosi la mia testa
Il mio cuore

Si spegne
Quando te ne vai

E io maledico
Il mio cuore
La mia testa

Sei una droga
La peggiore

Voglio che smetta
Urlo il mio odio
La mia dipendenza

Poi arrivi
Il fuoco ricomincia a bruciare

Mi arrendo
Ancora una volta
E un’altra ancora

Niente mi sazia
Niente ti sazia

La Mondina

Mia madre mi sveglia, dobbiamo prepararci per andare al lavoro.

La luna si nasconde dietro la coltre di nubi e oltre la finestra il vento umido soffia forte sull’afa dell’estate. Fa caldo, molto caldo, tanto che tutte fatichiamo a prendere sonno, c’è chi cerca di darsi sollievo con un ventaglio e chi, ormai arresa all’amara sorte, rinuncia definitivamente a dormire e passa le ore con lo sguardo rivolto verso il soffitto.

I rumori dei campi riecheggiano fuori dal capannone e scandiscono il tempo ogni notte come un vecchio che conta i minuti sull’orologio logoro: lavoro, sonno, lavoro e ancora sonno.

Da un mese ho iniziato a lavorare come mondina. Ho sedici anni e sia io che mia sorella passiamo i mesi estivi nella risaia per circa dodici ore al giorno.

Mi infilo le calze di cotone fino ai fianchi e indosso la gonna lunga, lego un fazzoletto per coprire la testa, il viso, tutto. Spesso di giorno, piegata sotto il sole, mi capita di sentire gli insetti infilarsi sotto il tessuto, fino quasi a penetrarmi la pelle. Il caldo e il sudore a volte sono insopportabili e le gocce d’acqua colano tra le gambe, nei gomiti e sulla fronte.

Indosso il cappello, è ora di andare.

Lavoro dalle 4 del primo mattino fino al tardo pomeriggio, arrivando alla risaia dopo un percorso a piedi; utilizzare un mezzo di trasporto sarebbe impensabile e ci verrebbe trattenuto dalla paga.

Oggi il mattino è particolarmente umido, questa è la parte del giorno che più mi piace perché il sole è ancora nascosto e l’alba tarda ad arrivare. Sento i grilli e le cicale cantare, il vento che mi passa tra i capelli li rende appiccicosi ma in questo momento non c’è ancora il sole a bruciarmi la testa. Inizio a lavorare con i piedi immersi nel fango e guardo la mia vicina, mi sorride e si gira verso l’amica per spettegolare del paese. Una donna della mia squadra racconta storie e aneddoti sul marito facendoci ridere a crepapelle, ogni tanto cantiamo qualche canzone per scandire la giornata.

Nel nostro lavoro stiamo chine tutto il tempo ad afferrare le erbacce, io le strappo con tutta la forza come ad estrarre qualcosa di marcio, qualcosa di sporco.

Da diversi giorni non vedo più Agnese che mi fa sempre compagnia durante il turno, “non può più venire” dicono, pare si sia presa la malaria a causa delle condizioni di lavoro.

Cantiamo più forte e ogni tanto ci facciamo delle grosse risate, una di noi, la più vecchia, ci tratta come se fossimo sue figlie, è premurosa e ci porta sempre qualcosa di dolce da mangiare dopo il lavoro.

Il sole è ormai alto sopra le nostre teste e alcune donne iniziano a parlare sottovoce di scontri e scioperi in centro paese. A quanto pare le proteste, aiutate da contadini e commercianti, hanno raggiunto un livello drammatico e gli agrari sono preoccupati. Diverse mondine dell’altra squadra sono state arrestate e alcune sono rimaste ferite durante le sommosse.

Anche il nostro principale è più teso ultimamente, controlla tutte durante la giornata lavorativa e ci intima di stare zitte. 

Maggio è quasi finito, ci avviciniamo a giugno e ultimamente i canti nella risaia sono cambiati: le donne alzano la voce e urlano per la loro libertà come a sperare che il vento umido intrappoli le loro parole e le porti dritte a chi possa ascoltarle, anche a Dio se esiste.

Cantano di cambiamenti, della possibilità di lavorare meno e in modo più dignitoso. Ho sentito che la richiesta è di diminuire le ore di lavoro da dodici a otto, a me sembra qualcosa di assurdo, chissà cosa ci farei con qualche ora in più a disposizione, probabilmente dormirei. Ogni tanto ci penso e mi chiedo se davvero possiamo sperare in qualcosa di meglio, se esiste un altro modo per vivere questa vita. Se ci fosse anche solo una possibilità, allora urlerei anche io fino a svegliare Dio.

Oggi, con le altre ragazze, abbiamo deciso di non andare al lavoro, vogliamo scioperare e scendiamo di corsa in paese. Le vie che conosco bene mi sembrano un teatro di battaglia e mi sento come un soldato che decide di andare in guerra, ma questa guerra è tutta per me, combatto per avere ciò che mi spetta di diritto. Siamo tantissimi: mondine, commercianti, agricoltori. L’agitazione e la rabbia si fanno sentire, risuonano sul pavimento e si espandono tra i vicoli in cui siamo cresciute. Camminiamo a passo spedito, speranzose, sento i canti delle risaie riecheggiare con forza attorno a me “Se otto ore vi sembra poche, provate voi a lavorare e sentirete la differenza di lavorar e di comandar”, dopo mesi di proteste ora siamo sotto il Municipio, in attesa di una risposta.

D’un tratto il tempo si ferma, il silenzio cala sulla folla.

Due uomini si fanno avanti e iniziano a dire che a Vercelli è stato sancito l’accordo per la diminuzione dell’orario di lavoro a otto ore, solo le squadre che vorranno potranno estendere l’orario fino a nove ore al giorno. Due donne vicino a me dicono che gli uomini sono uno un operaio di nome Somaglino e l’altro l’Avv. Cugnolio che rappresenta l’associazione contadina.

Il vento umido ora accarezza le lacrime di gioia che scendono sulle guance arrossate, a Vercelli le cose stanno cambiando e mentre le persone accanto a me urlano di felicità c’è già chi dice che anche nelle altre province le cose cambieranno. 

È il primo giugno 1906 e da domani non lavorerò più 12 ore al giorno.

È il primo giugno 1906 e per la prima volta sento che c’è speranza e mi tengo stretta questa voglia di lottare.

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