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Fortunato e la principessa azzurra

Fortunato, così lo avevano chiamato i suoi genitori. Peccato che nella sua vita, di fortuna, ne avesse avuta poca.

Almeno sino il giorno prima, quando il capo, un signore grande e grosso da sembrare un pachiderma, lo aveva chiamato per andare in aeroporto a prendere Samantha. Samantha Mason.

A Fortunato, non parve vero quando il Direttore commerciale lo convocò per chiedergli di andare a prendere Samantha Mason, top manager del cliente più grande della loro azienda. «Pensa, ha solo trent’anni ed è già la figura più importante», così gli disse il capo, poi aggiunse: «Non mi far fare brutte figure. Ne va di tutti i nostri contratti, e del tuo posto di lavoro, conseguentemente».

Fortunato era tornato alla sua scrivania. Per qualche istante, incredulo, fissò lo schermo. Un suo collega chiese: «Bronto, tutto bene?». Già perché in ufficio nessuno riusciva a chiamarlo Fortunato. Per loro era Bronto. I motivi erano due: la sua sinusite e la sua somiglianza con un Brontosauro.

Infatti, la natura gli aveva assegnato una certa irregolarità nelle proporzioni. Aveva la testa minuta rispetto al collo. Le spalle strette rispetto ai fianchi e alle gambe, stranamente tozze. I denti piccoli e distanti, come gli occhi. Non era certo un adone, ma compensava magnificamente con due cose: Il senso dell’umorismo e un romanticismo quasi agghiacciante. Sognava la principessa azzurra sul cavallo bianco che lo avrebbe portato nel suo castello.

E quel giorno, la principessa azzurra, sarebbe arrivata. A Malpensa. Se il capo aveva pensato di mettergli paura, si sbagliava. Lui aveva iniziato a sognare.

Fortunato si era preparato per bene, la divisa aziendale fresca di lavanderia, sbarbato e profumato. Aveva anche pensato di accoglierla con un mazzo di fiori. Il miglior benvenuto per una principessa.

Per tempo, si era messo in macchina. Non voleva tardare. Ma si sa, a Fortunato qualcosa andava sempre storto.

Quel giorno, sulla tangenziale, il traffico era bloccato. Un camion ribaltato o qualcosa del genere. Fortunato aveva iniziato ad angustiarsi, batteva le mani sul volante. Alla fine raggiunse l’aeroporto proprio mentre il volo di Samantha stava atterrando. Trovare parcheggio gli prese qualche minuto di troppo, poi, quando stava varcando la soglia degli arrivi, dovette tornare indietro, alla macchina, perché aveva dimenticato il mazzo di rose e il biglietto con il nome di Samantha Mason. Quando finalmente raggiunse la sospirata meta, si sentì per un attimo smarrito. Cercava febbrilmente un posto, dove mettersi nella ressa di gente che pareva essere vomitata dal gate. Per di più, un cingalese continuava a tallonarlo, forse attratto dalle rose. All’inizio, Fortunato lo evitava semplicemente, poi quando si era fatto insistente, lo aveva mandato al diavolo: «Ma vai a fanculo!», più propriamente gli disse. Per poco non gli aveva messo le mani addosso.

Finalmente Fortunato si era piazzato in prima fila agli arrivi. Mazzo di rose in bella vista e cartello un po’ alzato, affinché le persone che uscivano potessero vederlo.

Purtroppo, Samantha Mason non lo raggiunse. Forse, si disse, era già sbarcata. Sicuramente aveva preso un taxi per andare in ufficio. Fece un po’ di giri in aeroporto, con le rose e tutto il resto. Ma niente. Solo il cingalese rompiballe. Fortunato era così disperato che piazzò in malo modo il mazzo di rose tra le mani del cingalese, fece a pezzi il cartello e si diresse verso la sua macchina. Non aveva il coraggio di tornare in ufficio. Men che meno di chiamare il capo per giustificarsi.

Riprese la tangenziale, ma era talmente angustiato da sbagliare l’imbocco almeno due volte.

A un certo punto, ovviamente, fu il capo a chiamare lui. Parlava a bassa voce per non farsi sentire, il tono come un sibilo di serpe, le parole dette tutto di un fiato: «Dove sei che Samantha Mason è già qui».

Fortunato farfugliò qualcosa, il traffico bloccato, il camion ribaltato, ma il capo aveva già messo giù.

Quando entrò al lavoro, si diresse mestamente verso l’ufficio del Direttore. La porta era chiusa. In ogni caso, Fortunato si aggiustò la cravatta della divisa, i capelli, fece un bel respirone e bussò. Voleva scusarsi con il capo e con Samantha. Si era già preparato il discorso, qualche battuta per stemperare la tensione e per accattivarsi la top cliente. Qualcosa tipo: «The devil in the traffic[i]».

Quando disse: «Mi scusi, sono…», sentì la voce del capo interromperlo e dire: «Just a moment, please. Un momento per favore. Ti chiamo dopo».

Fortunato sentì di aver di nuovo pestato qualche uovo.

Si diresse alla scrivania. I colleghi erano stranamente silenziosi. In ufficio aleggiava un’aria diversa. Lui aveva salutato distrattamente, apposta, perché non voleva che nessuno gli chiedesse nulla.

Si era buttato subito a leggere le mail, così per distrarsi. Infatti, quando il telefono sulla scrivania squillò, Fortunato fece un salto sulla sedia.

Era l’interno del direttore. Alzò la cornetta così di fretta che gli scivolò di mano e cadde a terra. La raccolse più in fretta che poteva, quando rispose, sentì il capo fare un sospiro. Un sospiro di quelli che fanno i vulcani prima di eruttare. Comunque disse solo: «Vieni qua».

Fortunato si lisciò i capelli con le mani e nel farlo, si rese conto di puzzare di sudore. Il deodorante non aveva retto. Cercò di ritrovare tutta la sua baldanza, voleva essere positivo, così a lunghi passi tornò verso l’ufficio del direttore, spalancò la porta e rimase immobile come un fermo immagine.

Davvero non riusciva nemmeno a respirare, nel vedere Samantha Mason. Samantha Mason. Samantha cognome, Mason nome. Samantha, cognome di origine dello Sry Lanka. Mason, nome del cingalese che continuava a tampinarlo all’aeroporto. Le rose erano buttate sul tavolino, malamente.

Fortunato ebbe, per la prima volta in vita sua, uno svenimento.

 

[i] Parafrasi di ‘the devil in details’, associabile al nostro ‘quando il diavolo ci mette la coda’.

Le tre amiche

Le onde si infrangevano contro la scogliera nera creando spruzzi di bianco che tornavano al mare, striando il verde profondo delle acque inquiete.

Il cielo era carico di nuvole, ma alcuni raggi di sole trapelavano regalando squarci di blu. Presto il tempo sarebbe migliorato.

Dall’alto della scogliera, si poteva vedere la brughiera correre piatta, bruna di arbusti e rosata d’erica.

In lontananza, vi era la fattoria dei Fincher, una casa bianca e bassa le cui finestre erano ingentilite da imposte colorate di verde oliva. Intorno, cespugli di lavanda delimitavano il frutteto e l’orto. Poco distante, l’essiccatoio per il pesce, il pollaio e l’ovile che in quel momento era vuoto. Se si allungava lo sguardo, si potevano vedere le macchie bianche delle pecore cariche di lana.

La casa dei Fincher era composta da grandi vani, una cucina molto attrezzata, camere luminose dal soffitto rigato di travi, e soprattutto il salotto, la stanza meno frequentata dai Fincher, ma dove risiedevano le nostre tre amiche. Nessuno avrebbe potuto dire né il perché e nemmeno da quanto fossero lì. Di fatto stavano tutto il tempo a chiacchierare amabilmente.

A guardarle da lontano, erano simili e diverse al tempo stesso. Rotondette tutte e tre, davano l’impressione di querule sorelle, ma mentre una aveva la pelle rossa come un’irlandese scottata dal sole africano, le altre due erano piuttosto chiare. Miss Golden aveva quasi il colore del miele, forse grazie alla lunga permanenza all’aria aperta, giacché quell’estate era stata assai clemente rispetto al solito. Miss Smith, invece, era la più bruttina, per via del profilo incerto e della pelle tendente al verde, come soffrisse di quella malattia chiamata clorosi. Era anche la più anziana e  si dava delle arie da gran regina, tant’è che le altre due, di nascosto, la chiamavano Granny[1].

A un artista, potevano sembrare un quadro di Caravaggio.

Come già detto, le tre passavano buona parte del tempo a conversare di ogni futilità, raggiungendo considerazioni profonde sul tempo, sulle fioriture o sulle vicissitudini della famiglia Fincher, formata da papà Fincher, mamma Fincher, piccolo Fincher, gatto Fincher e cane Fincher.

Quel giorno, però, anziché la solita cordiale atmosfera, tra le tre aleggiava una sorta di nervosismo.

«Oh! Cielo! Si può sapere cosa le è successo?», chiese Miss Smith all’amica vicina che se ne stava adagiata in una strana posizione, un po’ di sghimbescio.

«È che ieri sono caduta, e ora guardi…», rispose ella mostrando il fianco acciaccato.

«Oh! Mio Dio, che ematoma! Si sta facendo marrone», disse con voce preoccupata Miss Golden, che stava dall’altra parte, di fianco della dolorante amica.

«Già, colpa del piccolo Fincher. Stava giocando con cane Fincher, proprio qui davanti, e accidentalmente mi ha colpito. Io sono stata presa alla sprovvista e sono caduta rotolando come un sasso sul pavimento».

Le due amiche guardarono Miss Stark quasi con orrore, lei non se ne accorse e continuò: «Sì, mamma Fincher lo ha sgridato. Io non sapevo che dire. Mi hanno subito aiutato, adagiato come adesso, ma il dolore, quello, non passa. Continua a pungere ed è come se si allargasse di minuto in minuto. Sto impazzendo, credetemi», sospirò con la voce che andava via via strozzandosi.

«Le credo eccome», rispose Miss Golden, «a guardare bene, sembra che quel morello, quel livido, s’ingrandisca a vista d’occhio. È duro?».

«Macchè,  a tastarlo, se non mi facesse così male, è tutto molle. Forse mi sono rotta qualcosa», rispose Miss Stark con la voce tremolante.

Le altre si guardarono di sbieco, cercando di non farsi notare dalla poverina, che ora stava piangendo. Nei loro sospiri trapelava una certa ansietà e preoccupazione. Più inquietudine che apprensione: in verità il fianco era davvero brutto a vedersi e starne vicino causava una certa angoscia. In ogni caso, decisero di troncare la conversazione per un po’, così da lasciare che l’amica potesse riprendersi.

Il sole avanzava nella stanza, come strusciando sul pavimento. Il cielo si era definitivamente aperto e dalle finestre spalancate alcune mosche erano entrate infastidendo i presenti. Soprattutto le tre amiche.

Faceva ancora caldo, malgrado fosse settembre inoltrato. L’odore dei fiori d’erica invadeva le stanze della grande casa, talvolta mischiandosi a zaffate di salsedine e di pesce seccato al sole .

Miss Smith ruppe il silenzio chiedendo: «Sta meglio ora, cara?».

«Non molto, anzi, per niente, ma non voglio passare il pomeriggio a piangermi addosso. Voi, piuttosto, come state?»

«Io ho un leggero bruciore dentro. È da due giorni… ma non ho voluto tediarvi con questa cosa. Magari vi sareste preoccupate», rispose Miss Smith.

Le altre due parvero sobbalzare. Miss Golden chiese con un filo di voce teso, il tono di chi è a un passo dallo scatto d’ira: «Scusi? Sta male da due giorni e non ci ha detto niente?»

«L’ho detto, non volevo preoccuparvi. non sarà nulla, che dite?», chiese alle amiche con una vena d’ansia nella voce.

Miss Golden cercò di recuperare la calma e disse: «Si sa che certi disturbi non vanno mai sottovalutati. Conoscevo una vicina… anche lei aveva iniziato a soffrire di bruciori. Ebbene, da un giorno all’altro non l’ho più vista. Mai più vista. Chissà che fine avrà fatto, la poverina».

«Ne ho sentito parlare, di questo fatto. Anche i Fincher ne discutevano. Sembrava quasi un problema nazionale. Si trattava di Miss Red, vero?», disse Miss Stark la cui voce non aveva perso il tono di sofferenza.

«Miss Red, certo. Me la ricordo. Non è accaduto molto tempo fa, no?», aggiunse Miss Smith con la voce incerta per via del suo strano malessere.

«Sì, sarà un paio di settimane. Eppure a vederla, non avreste mai detto che la sua malattia fosse a uno stadio così avanzato», sospirò Miss Golden.

Dopo essersi scambiata una lunga occhiata con Miss Golden, Miss Stark disse: «Ho sentito papà Fincher dire che era una cosa contagiosa. Quella di Miss Red, intendo. Era davvero preoccupato».

Le tre amiche rabbrividirono,  stettero in silenzio per qualche istante, poi Miss Smith prese la parola: «Certo, il mio non è che un leggero bruciore, non ne farei un caso nazionale. Miss Red, invece, aveva qualcosa di molto grave. Credo di aver sentito parlare di Dracunculosi ».

Tra le tre, in verità, la più malmessa era proprio Miss Golden, che cercava di nascondere le rughe che solcavano la sua pelle ormai vizza. Fu proprio Miss Golden a cambiare discorso: «Che cosa avreste voglia di fare, oggi, care?». Tutti i giorni poneva quella domanda e la risposta era sempre la stessa: arrivare sino alla scogliera e fare un bel bagno in mare.

Improvvisamente le amiche ebbero un moto di spavento, tacquero perché era entrata mamma Fincher. Raramente varcava quella soglia, solo per spolverare o cacciare via gatto Fincher, che grattava il divano in damascato rosso.

Mamma Fincher si diresse verso il tavolo Chippendale che impreziosiva la stanza e controllò il vassoio della frutta. Sospirò nel vedere le tre mele.

Uscì per buttarle, ma anziché andare verso il pollaio,si diresse verso la scogliera, attraversando la brughiera. Non avrebbe saputo dire perché. Forse le era spiaciuto vedere quelle belle mele avvizzire.

Forse si era figurata che la vita fosse un po’ così.

Di fatto, le lanciò al vento mormorando: «Addio».

 

 

 

 

[1] Nonna

Al mare – fine anni sessanta – prima parte

Mamma e papà davanti, seduti sulla FIAT 850 color caffelatte. Io e mia sorella maggiore dietro. A tenerci ben salde sui sedili non c’erano né seggiolini né cinture di sicurezza, ma una serie di valigie che non appena ti muovevi s’infilavano con gli angoli nel costato.

Io non so se avete presente una FIAT 850. Di fatto, aveva quasi la forma di supposta. Nel nostro caso, anche il colore delle supposte di allora.

Ebbene, la nostra Fiat 850 pronta per partire per il mare perdeva le sembianze di auto e assumeva quelle di piramide. Sul tettuccio, stavano impilate un sacco di cose. Tavolini, sdraio, ombrelloni e altro che non saprei dire. Tutto sommato, eravamo una famiglia che si portava dietro dolo il necessario. Capitava di vedere macchine sovrastate da materassi, credenze, cucine a gas. Credo di aver visto anche una bara. Spero fosse vuota.

Il viaggio iniziava a un’ora imprecisata della notte, quando il mattino deve ancora farsi strada nell’orizzonte viola. Eppure dovevamo percorrere duecento, massimo trecento chilometri. Si andava il Liguria.

La prima tappa, il casello autostradale, pareva un mare grigio coperto di sardine. C’erano così tante macchine in coda che si scendeva e si faceva amicizia. Penso siano nate storie d’amore, faide e scazzottate. Poi si saliva e si riprendeva il viaggio come niente fosse.

All’epoca soffrivo il mal d’auto. Gli ammortizzatori della macchina erano quello che erano, ma sicuramente incideva il fatto che, a un certo punto del viaggio, io e mia sorella ce ne stavamo in ginocchio a fare le linguacce alle macchine dietro. Mio padre ha rischiato il linciaggio.

Generalmente, si alloggiava in qualche pensione. Le pensioni, erano proprio pensioni. Mica come adesso che anche la più sgarruppata c’ha la piscina. No. Allora sembrava di stare in uno di quei condomini dell’hinterland milanese, senza ascensore e con le porte in laminato finto legno.

Il mare, io lo odiavo. Almeno al mattino, perché mia mamma ci costringeva ad alzarci all’alba per andare sul molo a respirare lo iodio. Ioodio, io odio. Camminavamo con la salsedine che ci induriva i capelli. Al pari nostro, si vedevano altri figli emaciati di città che vagavano trascinati come gli ignavi nel limbo.

Quando finalmente il sole lambiva la spiaggia, ci sistemavamo con tanto di ombrellone. Per il bagno, bisognava aspettare, che avevamo appena fatto colazione. Tre ore. Le tre ore più lunghe della mia vita. Allora me ne stavo accoccolata a guardare la gente. Vi dico subito che le donne avevano i peli sotto le ascelle. Tutte, indistintamente. C’erano anche quelle che li avevano sulle gambe e sulla faccia. Non ricordo come si gestisse la questione inguine. Forse i costumi erano talmente alti da nascondere tre quarti del corpo.

Gli uomini, invece, avevano il riportino per nascondere la calvizie. Il riporto era un problema quando tirava vento. Svolazzava come una bandiera.

Mio papà no. Lui era magro come un’acciuga. Non era un cappellone, certo, ma i pochi ricci facevano il loro dovere.

Mia mamma era sempre la più bella della spiaggia. Almeno secondo mio papà. Poteva pure passare Brigitte Bardot, ma mio padre avrebbe detto: «Mica c’ha le gambe belle come le tue».

Noi bambini avevamo i costumi di una strana stoffa, forse un misto tra lycra e flanella. Di fatto, quando si bagnavano diventavano pesanti come tute di palombari.

I bambini si dividevano in due schiere: quelli con le spalle bianche di crema solare, e quelli con le spalle rosse bruciate dal sole.

La crema solare aveva una protezione duecento (mila). Praticamente era malta da applicare con la cazzuola.

Io e mia sorella eravamo nel secondo gruppo. Ci venivano le bolle, poi ci divertivamo a toglierci lembi di pelle che si staccavano docili.

Per fare il bagno, o sapevi nuotare, o avevi il salvagente. Mica i braccioli, credo non esistessero, perlomeno nella nostra famiglia. Noi avevamo un salvagente che se non lo tenevi fermo con le mani, finivi nel buco e andavi in fondo al mare. Una volta papà aveva portato un materassino, di quelli rossi e blu. Puzzava di gomma e s’imbeveva d’acqua. In ogni caso lo usava mamma, così io e mia sorella giocavamo a riva, a farci trasportare dalla risacca. Quanto tornavamo all’ombrellone, il costume penzolava carico di sassolini e macchiato di catrame. Non chiedetemi perché, ma tutte le volte ci si macchiava di catrame.

La merenda era: o pane burro e marmellata, o pane e marmellata. Eravamo una famiglia del nord.

I bambini figli delle famiglie del sud, potevano spaziare dalle fette di pane imbevute di pomodoro alla parmigiana con le polpette.

I giochi da spiaggia erano praticamente tre: pallone gonfiabile colorato, secchiello con paletta, rastrello e un’altra cosa che non ho mai capito a cosa servisse, tipo piccone. Nemmeno fossimo sulle dolomiti. Che poi, io e mia sorella manco ci potevamo fare i castelli di sabbia, perché la spiaggia era di sassi. Al limite potevamo costruire trincee come al fronte. Infine, c’erano le biglie di plastica trasparente, con le foto di Eddy Merx e compagnia bella. Quello era un gioco destinato ai maschi. Io schiumavo perché con le biglie di vetro ero una campionessa del rione.

La percentuale di papà che giocavano con i figli a costruire castelli (non di sabbia, almeno sulla nostra spiaggia), era intorno all’uno per mille. Pochi, pochissimi. La maggior parte se ne stava sotto l’ombrellone a fumare. All’epoca, tutti fumavano dappertutto. Forse solo in chiesa non si poteva. Per il resto, nel cinema, nei ristoranti, negli ospedali, aleggiava una nebbia di nicotina. Soprattutto nei reparti maternità. Lì era praticamente d’obbligo. Anche se un papà non fumava, lì, nella sala d’attesa, si accendeva una sigaretta con il mozzicone dell’altra. Perché i papà mica partecipavano al parto. No, aspettavano fuori in attesa che arrivasse l’infermiera col verdetto: «È maschio!», «È femmina!», «Sono due!». Questo è capitato a mio zio. Credo sia svenuto, ma nessuno se n’è accorto per via della nebbia di nicotina.

Già, perché non esisteva l’ecografia. Il sesso si poteva prevedere con il pendaglio, oppure osservando la pancia, se era a punta o no.

L’orizzonte del mare era punteggiato da pedalò e canotti. Qualche barca di pescatori della domenica. Certo, non c’erano moto d’acqua e nemmeno gonfiabili sfarzosi come Regge di Versailles.

Talvolta potevamo comprare il gelato. Già, il gelato. Adesso puoi scegliere tra un migliaio (alla sesta) di gusti. Allora erano quattro: panna, cioccolata, fragola e limone. Talvolta fior di latte. La vera rivoluzione fu l’avvento della stracciatella

FINE PARTE UNO

Babu e l’infinito

«Nonna, tu non vieni con me e mamma?»

«No, piccola scimmia, nonna è vecchia, rimane al villaggio con Didi».

Didi, il cane, se era messo a scodinzolare, sollevando la terra dello spiazzo. La siccità aveva reso tutto friabile, impalpabile. La stagione delle piogge si era fatta sempre più breve e violenta. L’ultima volta, quasi tutte le capanne del villaggio erano state rovinate da una tromba d’aria. Dell’acqua caduta dal cielo, la terra ne aveva rifiutato la maggior parte. Troppo dura per immagazzinarne.

La nonna alzò lo sguardo dal piccolo Babu. Per un momento lasciò quegli occhi grandi pieni di meraviglia, pieni di futuro. Sospirò guardando il cielo offuscato dalla polvere che s’alzava ad ogni alito di vento, avanzando dentro le case, coprendo le poche verdure che crescevano nell’orto.

«Ma così rimani da sola», insistette Babu.

«Che dici, piccolo cerbiatto, sai che verranno a farmi compagnia il nonno e il papà».

«Ma loro sono in cielo!».

«Oh, certo, ma la loro anima può viaggiare e venire da me. Li chiamerò mentre sono a guardare le stelle. Mi racconteranno tutto, veglieranno sul vostro viaggio, e sarà come essere insieme a voi».

«Nonna, mi racconti ancora dove andremo io e mamma?»

«Sì, dolce gazzella. Camminerete molto, dovrai essere bravo, non lamentarti e stare sempre vicino a mamma. Poi arriverete al mare. Tu non hai mai visto il mare. Nemmeno io. Ma so che è fatto d’acqua, tanta acqua azzurra e splendente, senza confini».

«Bello, vero nonna?».

«Bellissimo, piccolo struzzo. Non avrai abbastanza occhi per guardarlo».

«E dopo?».

«Dopo ci saranno delle grandi barche, non come quelle che vedi quando andiamo al fiume, più grandi, per attraversare il mare e arrivare in Italia».

«Italia, bella questa parola, vero nonna? Italia. Mamma dice che è una cosa grande, come il respiro di Dio».

«Grande come il respiro di Dio», ripeté la nonna guardando seriamente il nipotino.

«Mamma dice che in Italia ci sono orti dappertutto, giardini e frutteti. L’acqua nelle fontane è fresca e trasparente. Ci sono cose da mangiare che si possono cogliere dagli alberi, polli arrosto e tacchini. Dice che non ci sono animali pericolosi. Che è il posto più simile a quello dove stanno ora il nonno e papà».

«Certo, piccolo camaleonte, ci sono persone gentili, eleganti con le macchine lucide come specchi. Poi ci sono tante medicine che fanno passare tutti i mali. E gli aerei nel cielo che lasciano strisce che paiono sorrisi. Con gli aerei si va molto lontano».

«Allora, appena arrivo in Italia, prendo un aereo e torno qui, così potrai salire e venire con noi».

«Mi sembra una buona idea, Babu, molto buona. Aspetterò di vedere il sorriso del tuo aereo per volare insieme».

«Nonna…».

«Sshh, piccola lucertola, è ora di dormire. Domani, dovrei metterti in viaggio molto presto, prima che sorga il sole. Mi raccomando, non dimenticare questo».

Nonna allungò una mano sul petto del bambino, dove aveva cucito una tasca. Dentro, oltre a un amuleto, aveva messo la pergamena che aveva vinto Babu durante una gara di corsa campestre, pochi mesi prima, a soli sette anni.

Era stata l’ultima volta che erano andati in città, con il papà di Babu. Poi la guerra se lo era portato via. Erano rimaste la fame e la polvere, al villaggio. Pochi anziani che faticavano a percorrere le quattro miglia per prendere l’acqua al fiume, sempre più secco. Babu meritava di meglio che vedere il fiume inaridirsi e la terra diventare polvere. E poi c’era la guerra. Quella è peggio di qualsiasi carestia. Fa morire le persone, anche quelle rimaste vive.

«Così vedranno che sei un bravo bambino e molto forte, per giunta. Tutti ti vorranno».

«Bene, ma io vorrò stare solo con mamma e con te. In un giardino di fiori e frutta, con le galline che beccano Didi».

«Certo, anch’io, mio amatissimo. Ma ora dormi».

Nonna rimase tutto il tempo a vegliare il sonno del piccolo. Era magro, ma sveglio, intelligente, buono. La nonna si chiese se fosse troppo buono. Pregò gli spiriti e Dio.

Non era ancora sorto il sole. Il cielo nero serbava la cupola di stelle, quando al villaggio arrivò un autocarro.

Sopra, alcune persone insonnolite. C’era anche una ragazza, aveva il pancione protetto dalle mani. Babu aiutò sua madre a salire, tenendole la mano. Si stava issando a bordo, quando volle dare un ultimo abbraccio alla nonna. Corse per il breve tratto con il pianto negli occhi, poi rintanò la faccia nel suo grembo. Si asciugò le lacrime sulla veste, mentre la vecchia gli accarezzava la testa.

«Ora vai Babu, e ricorda di essere sempre una brava persona», disse la nonna con la disperazione nella voce.

Babu salì a bordo. Il carro partì. Destinazione infinito.

Valentina Tereškova

 

Ci sono cose che mi emozionano infinitamente, sono le cose che amo e alle quali non posso dare un solo nome, se non ‘immensità’.

Quando mi sveglio è ancora buio, buio totale. La notte è perfetta, senza luna.

Accendo il lume, bagliori tremolanti s’infrangono sulle pareti nodose e profumate di pino. Nella camera fa freddo, il fiato si addensa come fumo rarefatto. Alla finestra i vetri gocciolano lacrime di condensa.

Mi alzo di scatto, non voglio perdermi lo spettacolo. Ma faccio piano, che sennò mamma si sveglia e mi ricaccia a letto.

Sono già vestita, manca il cappotto che è appeso vicino all’uscio.

Cammino cauta, so quali assi di legno scricchiolano, e io le evito.

Vicino all’ingresso calzo gli stivali, metto la sciarpa, il cappello, i guanti e il cappotto. Sopra lo scialle della notte.

Fuori, la temperatura è scesa sotto i venti gradi. La neve ha una crosta ghiacciata che si spacca ad ogni passo. Mi allontano di qualche metro, avanzo nel giardino antistante la casa.

Mi siedo per terra, affondo un poco. Poi mi sdraio, a occhi chiusi. Il freddo entra nel naso, ma io faccio un gran respiro per trattenere l’emozione. Tra poco aprirò gli occhi e lo vedrò. Il cuore accelera, le guance si scaldano.

Conto fino a tre prima di sollevare le palpebre. Lo sento, è sopra di me,.grande. Infinito.

Uno, due tre.

Il fiato esce dai polmoni. Non riesco a descrivere la gioia, la bellezza.

Il cielo, il cielo è gravido di stelle. Paiono chiamarmi come sirene di Ulisse. La volta ha il colore del cobalto e dello zaffiro, è un tessuto tempestato di brillanti. Allungo la mano, sembra di poterlo toccare. Poi con un dito indico le stelle, accarezzo la via lattea. Immagino di volare come un gabbiano, di girare nello spazio. Io sarò gabbiamo, sussurro, aspettami infinito, che da te arriverò.

Nella casa si accende una luce. Mamma apre la finestra e mi chiama: «Amore, cosa fai lì? Torna che fa freddo, e domani devi andare in fabbrica presto!»

«Arrivo mamma», rispondo.

Mi alzo, gli occhi puntati in alto. Penso: ti prometto che navigherò nell’ infinito siderale.

Il mio nome è Valentina Tereškova, e sono la prima donna nello spazio. Nome in codice čajka, gabbiano.

Donne da favola

Ebbene, miei cari amici, concedetemi una riflessione, qui, tra intimi, nell’atmosfera di queste quattro mura.

Una riflessione sulle donne, sulle femmine, che talvolta, chiamarle così pare pure un po’ dispregiativo.

Per millenni, secoli, decenni le abbiamo confinate nei gradini più bassi della società, delle famiglie patriarcali, degli ambienti lavorativi e persino nelle scuole, a lungo precluse.

Eppure… eppure.. nella narrativa sono spesso le eroine romantiche, le Sante vessate, le eminenze grigie di grandi uomini, le ghostwriter di tante vite.

Soprattutto, sono le protagoniste di ogni favola.

Buone o cattive, belle o brutte, giovani o vecchie.

Prendiamo Biancaneve, per esempio. Ingenua, dolce e incantevole protagonista della fiaba, affiancata suo malgrado dall’altrettanto avvenente madrina. Loro sono i personaggi principali. Mica quel coglione del padre. Perdonate il termine becero, so che vi ha fatto sobbalzare sulle sedie, ma dico, proprio una strega doveva risposare?

E quel fanfarone del cacciatore? «Si signora, faccio io, vado io, ci penso io», e poi se ne torna con le pive nel sacco, che mi fa venire in mente molti… ma lasciamo perdere che sennò va a finire male..

Stendiamo poi un velo sui sette nani. Ometti borderline, se proprio vogliamo dirla tutta. Del resto in giro ce ne sono ben più di sette…

E Cenerentola? ne vogliamo parlare?

Lei, la matrigna, le sorelle, la fata che credo sia turchina, la stessa che salva Pinocchio, tipico esempio di bugiardo. Dicevo, ancora una volta le vere protagoniste sono donne, avvolte in un intreccio pernicioso. Donne che si fronteggiano, in aperto contrasto. E il principe? Ah! Lui. Mah, che dire… quello se ne va in giro con una scarpetta in mano, pronto a sposare la prima che trova con un trentaquattro? Un trentacinque?

Vabbè, qualsiasi considerazione su cappuccetto rosso è un po’ sparare sulla croce rossa. perdonate il cliché ma fa pendant con il colore e la storia. Madre, figlia, nonna: donne fragili ma coese. Gli uomini di questa storia? Un lupo e un cacciatore. Un mangiatore di femmine e uno pronto a sparare sui più deboli. Ah com’è vero Iddio, pare di vedere gente conosciuta.

E poi, altre favole ancora. Che so, la sirenetta, la principessa sul pisello o la bella addormentata nel bosco.

Quest’ultima attorniata da streghe e fate. Donne, donne e ancora donne, in un bouquet profumato e puzzolente di zolfo al tempo stesso. Donne scaltre, ingenue, vendicatrici ma vivaci, vivide, veraci.

Infine lei, Alice, bambina sognatrice di follie, infinitamente divertente, circondata da pazzi, tabagisti, saturnini, bipolari. Eccezion fatta per la regina di cuori. Un po’ isterica, certo, ma al comando di un regno che non c’è, con uomini di carta pronti a cedere col primo alito di vento.

E dire che le favole sono state scritte da uomini!

Macché invidia penis, siamo onesti, qui si tratta di invidia uterus.

Utero, luogo primordiale, culla della vita, primo amore.

È per questo che in ogni uomo alberga una donna.

E in ogni donna, in ogni donna reale, alberga un mondo.

Bronx e castagne – III racconto d’autunno

Bronx e castagne – III racconto d’autunno

New York, anno 1903

In quell’epoca il cuore di New York si espandeva come le pelvi di una baiadera.
Le grandi immigrazioni di inizio secolo depositavano sciami di miserabili che prendevano il posto di ex-miserabili sino ad occupare anche l’ultimo orifizio della città.
Tra questi vi era Delio Morelli che aveva lasciato la fame ed il freddo dell’Appennino modenese per ritrovarli lì, nel Bronx.
Egli abitava al terzo piano, in un’appartamento occupato da una decina di famiglie stipate in pochi vani, qualche gallina libera e molta muffa che si arrampicava sulle pareti umide.
Delio condivideva una stanza con il figlio, la nuora e la piccola nipotina Aurora.
Quel giorno di ottobre il sole del mattino benediva le facciate degli interminabili caseggiati che rigavano il quartiere.
– Nonno Delio! Nonno Delio! Oggi è il mio compleanno!-
– e brava la mia Aurora – disse Delio sorridendo ed allargando le braccia per accogliere il corpicino magro,  – e quanti anni fai piccola mia?-
– cinque nonno!- disse la bimba allargando le dita della manina;
– ed io ti tiro cinque volte le tue treccine!- disse Delio chiudendo tra le sue grandi mai le piccole ciocche.
– E cosa desideri come regalo?-
– mmhhh, cinque castagne! Quelle buone che si comprano vicino allo zoo!-
Di quando in quando il nonno portava Aurora a passeggiare vicino allo zoo del Bronx ed Aurora si fermava sempre ad annusare l’odore delle castagne che arrostivano sul carretto del Greco.
Anche a Delio piaceva sentire quell’odore che lo riportava sulle vie della domenica al suo paese.
– E castagne avrai!- Disse il nonno stringendo al petto il capo della bambina.
Quella fu l’ultima volta che Delio abbracciò la nipote.
Si alzò dalla sedia sentendo nelle ossa il peso degli anni e dell’umidità.
Calcò in testa la sua coppola per uscire di buon ora alla ricerca di un ingaggio nei grandi cantieri di Manhattan.
Furono molti i cancelli ai quali bussò, furono molte le persone alle quali chiese di lavorare abbassando gli occhi e stringendo tra le mani il berretto da italiano.
Ma quel giorno era troppo vecchio. Troppo vecchio a cinquant’anni. Troppo vecchio per tornare e troppo vecchio per restare in una città di molte promesse e poche certezze.
Sulla via del rientro, poco prima che il buio calasse su una giornata infruttuosa, Delio si ritrovò davanti al carretto delle caldarroste.
– Buona sera Greco-
– Calispera amico-
– Cinque caldarroste e pago domani- disse Delio in quella lingua che era diventata lo slang universale della metropoli
– sei pazzo italiano? Non posso fare credito o perdo il posto. Paghi domani, compri domani.-
Dallo zoo si levò il barrito dell’elefante che salutava l’imbrunire.
Il greco si voltò automaticamente.
Delio non saprebbe ancora dire come e perché, ma si era trovato strette nella mano un pugno di castagne che bruciavano quanto la sua vergogna.
Mai aveva rubato, e mai nessuno nella sua famiglia lo aveva fatto.
Ma il suo fu un gesto istintivo, disperato, senza la colpa della volontà.
Forse il greco non si sarebbe mai accorto del furto, ma il poliziotto irlandese che stava osservando la scena urlò -fermo! Ladro!-
Delio si sentì sprofondare in una dimensione da incubo, ma le sue gambe cercarono comunque di portarlo lontano.
Il cuore no. Il cuore cadde nel silenzio e si portò via Delio Morelli.
Al funerale alcuni italiani che erano presenti al fatto  dissero che Delio spirò in dialetto e le sue ultime parole furono
– ca ghe vegna un cancher ai castagn!- 
Molti si chiesero se fu a causa della maledizione di Delio, ma nella primavera successiva morirono quasi tutti i castagni americani, abbattuti dalla Cryphonectria parasitica, chiamato appunto il cancro dei castagni.
Ad oggi, non si è trovato ancora un rimedio.

ADA – II racconto d’autunno

ADA – II RACCONTO D’AUTUNNO

Racconto di Monica Caprari

Con un gesto repentino Ada gettò una foglia dal davanzale.
Poi si affacciò per vederla cadere danzando in una lenta discesa di sei piani.
Giù l’asfalto  era bagnato dalla  pioggia autunnale caduta durante la notte.
Le macchine avanzavano lentamente  provocando uno scalpiccio fastidioso.
Ada guardò il cielo che si era aperto lasciando trapelare freddi raggi di sole.
-Sarebbe una dolce domenica mattina di novembre- pensò Ada-  se non ci fosse tutto questo traffico diretto al centro commerciale in fondo allo strada-.
-Che poi, cosa ci va a fare la gente al centro commerciale?- Si domandò accostando i baveri della vestaglia di paille.
Chiuse le finestre a doppi vetri e tornò a respirare la pace del  suo piccolo e lindo appartamento.
La luce del mattino penetrava lattiginosa  posandosi sulle mensole, che malgrado la meticolosa pulizia parevano ancora impolverate.
Ada  versò una generosa dose di detersivo sulla spugna e prese a passarla qua e là calcando vigorosamente.
-Spreconi e consumatori  bulimici- si diceva pensando ancora ai frequentatori  del centro commerciale.
-fosse per me .. solo kilometro zero.. e niente cadaveri nei piatti!-
George fece capolino dalla camera da letto e balzò sul ripiano della cucina.
Ada si avvicinò per accarezzargli il pelo lucido da soriano castrato.
Oh! come amava gli animali, lei. Proprio ADORAVA gli animali.
Creature in armonia con la natura, pensò chinandosi a prendere una scatoletta per George.
-Tieni la tua pappa buona- gli sussurrò ricevendo un vibrante ringraziamento.
Poi riempì il bollitore e lo mise sul fuoco. Dallo stipo tirò fuori i suoi biscotti preferiti, zenzero cocco e cannella, e  li adagiò cerimoniosamente sopra un piattino in attesa del tè.
D’improvviso il silenzio venne turbato da schiamazzi provenienti dall’appartamento di fianco, abitato suo malgrado da una famigliola alquanto rumorosa.
-Dio, quanto sono insopportabili e grezzi!- si disse.
Si erano trasferiti di recente e Ada aveva avuto modo di conoscerli prendendo l’ascensore.
Si era dovuta fare piccola piccola per far entrare l’ingombrante passeggino recante un guanciuto bambinone di due anni, relativa madre e relativa macchinina giocattolo, praticamente grande quanto la sua vecchia utilitaria.
In quell’occasione Ada aveva comunque cercato di essere amabile
-come ti chiami?- chiese al bambino in sovrappeso che la guardava immusonito.
-Jason- rispose la madre,  pronunciandolo all’italiana tipo Gieson.
Ada alzò un soprracciglio e squadrò   la donna vestita come una stella del pop.
Da quella volta evitava l’ascensore se doveva dividerlo con Lady Gaga e figlio obeso.
Ada tornò alla realtà e notò che la boule del pesciolino rosso aveva l’acqua ormai opalina.
Si  arrampicò sulla sedia per prenderla.
L’aveva messa sulla mensola  in alto per proteggere Albert  dagli attacchi di George.
Mise con cautela la boule nel lavello e fece scorrere poco più di un filo d’acqua.
-Per un ricambio graduale-si era raccomandato il negoziante carceriere dal quale lo aveva salvato e dal quale Ada comprava  i croccantini di George.
Ada sobbalzò nel sentire che i rumori dall’appartamento di fianco aumentavano d’intensità.
-Gieson! non saltare sul divano!- Urlava Jennifer Lopez.
-E basta!-pensò Ada  raccogliendo con cura le briciole sfuggite dal piattino dei biscotti-uno vuole godersi in pace la domenica  e…-
Un tentacolo di pensiero le si allungò sul lunedì, quando avrebbe ripreso il suo lavoro di Back office per una multinazionale farmaceutica.
-Back office- si disse, -il buco del culo degli uffici- Rise della considerazione e della parolaccia liberatoria,
-tutti lo schifano, anche se serve.. per non parlare dei colleghi… fanno i tornei di leccapiedaggine.. falsi come Giuda- e nel pensare questo lo stomaco le si attorcigliava.
Un tonfo fortissimo la scosse.
-Gieson! non lanciare le macchinine contro il muro!-
Ada venne presa da una rabbia isterica.
Poi sgranò gli occhi nel vedere che il pesce rosso galleggiava morto.
Sbadatamente, forse a causa di tutto quel baccano, aveva aperto l’acqua bollente.
Attonita portò le mani al viso.
-GIESON!NON SBATTERE COL TRICICLO CONTRO I MOBILI!-
Un tremore collerico teneva Ada impalata davanti al lavello.
Fu il fischio del bollitore scuoterla.
Un furore cieco le serrava le labbra.
Ada brandì il pesante bollitore.
La sua mano stringeva il manico sino a sbiancarle le nocche.
E corse fuori, con un ghigno che le stravolgeva il volto.
Suonò all’appartamento dei vicini e di rimando la voce della madre urlò –chi è’?-
-A D A-

Monica Caprari

Aki e Haru – racconto d’autunno

Aki scostò il pannello di legno e carta di riso per far entrare la luce del mattino.
Sporse il viso tondo e fresco come un petalo di ciliegio per osservare la prima neve cadere e perdersi  nella terra scura del pianoro antistante.
Presto sarebbe arrivato un inverno lungo e freddo.
Gli alberi sui declivi trattenevano le loro foglie colorando il paesaggio d’amaranto, carminio, miele porpora e molti altri colori ancora.
Aki azzardò qualche passo sulla veranda per annusare l’aria  che odorava di montagne.
Poi il suo sguardo abbracciò le cime. I suoi occhi avevano il colore e la forma delle mandorle che crescevano a valle,  nella prefettura di Akita.
Sorrise alla natura, e due  fossette le contornarono la piccola bocca gonfia di vita.
Improvvisamente il vento le portò lo scalpitio di cavalli.
Qualcuno sarebbe presto arrivato,  e mai nessuno si arrampicava sino al pianoro di Kyatzu.
Un artiglio d’ansia le si aggrappò al petto rendendola incapace di muoversi.
-Haru! Haru!- cercò di gridare, ma la voce le si perdeva in gola.
Il suo giovane sposo dormiva sazio nella stanza dei tatami.
-Haru! Haru!- urlò finalmente correndo dentro casa.
-Aki cosa ti succede? Hai di nuovo visto un orso?-
-Haru! Qualcuno sta arrivando- riuscì a dire la piccola Aki accasciandosi sul tatami,  ancora tiepido ed afroso .
La luce del giorno proveniva ancora da est di Kyatzu quando due messi dello Shogun Akaori scesero dai cavalli e fecero risuonare i loro passi sulle assi di faggio della veranda.
-Samurai Haru!- chiamarono gli uomini.
Aki aprì i pannelli ai messi. I suoi occhi scuri rimanevano bassi.
Inchinandosi si scostò per farli entrare.
Haru non si voltò subito e rimase a guardare la stufa sorbendo rumorosamente la calda bevanda di riso.
-Samurai Haru, abbiamo un messaggio da recapitarvi-
Haru finalmente si girò lentamente prendendosi il tempo di osservare i due uomini coperti di pellicce.
Tese la mano per prendere il rotolo che gli veniva offerto dai due messi inginocchiati.
Poi tornò a guardare la stufa e gli uomini lasciarono la soglia di casa porgendo un ultimo inchino.
-Aki, devo partire. Lo shogun mi ha convocato per difendere le terre di Kyushu da un feroce nemico. Il suo nome è Kublai Kahn. Viene dal mare e tra pochi giorni toccherà le nostre coste. Dovrò essere lì per  tempo e partire oggi stesso-
Aki  rimase in silenzio, mentre i suoi occhi seguivano le nodosità del pavimento come se cercassero pezzi di Shogi(1)  sparpagliato ovunque.
Haru le prese le mani e la condusse fuori.
-Aki- disse – guarda questo ciliegio. Oggi le sue foglie sono d’oro. presto cadranno.
Ne colgo due. Una la terrò qui ben riposta nel mio petto,l’altra la conserverai tu.
Queste due foglie non cadranno a terra, e la mia promessa, amata moglie, è di tornare da prima che le nuove gemme di questo ciliegio vedano il mondo.-
Aki guardò il ciliegio poi alzò lo sguardo verso le montagne e,  tra gli alberi,  vide l’orso fermarsi ad osservare  loro due fermi mano nella mano..

(1) antico gioco giapponese simile agli scacchi

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