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L’INTELLETTUALE

C’era una volta un intellettuale tedesco appassionato di cinema e di tennis. Il cinema rappresentò, fin dall’infanzia, una via di fuga dalle situazioni familiari disarmoniose cui assisteva in casa. Il tennis invece lo faceva sentire vivo e giovane, fino in età avanzata, dato che la buona forma fisica e piccole precauzioni gli consentirono di praticarlo regolarmente e con assiduità ben oltre l’età della pensione.

Capitò un giorno che questo signore, che chiameremo Carlo, si recò a trovare una vecchia amica, inizialmente moglie del suo amico, poi amica ella stessa. A casa dell’amica, come spesso succedeva, c’era un’ospite straniera, come se ne erano succedute molte nell’arco degli anni, dato che l’amica era persona ospitale e progressista e amava ricevere il mondo in casa sua, non potendo assentarsi a causa degli obblighi familiari imposti dai genitori anziani. L’ospite era giovane e quieta, ma attenta. Lo studiò con cura, poi fece le sue mosse. Quando lui propose, su suggerimento dell’amica, di accompagnarla a vedere le attrazioni della città, non se lo fece ripetere due volte.

Si incontrarono la prima volta presso la clinica dove era temporaneamente ricoverato l’anziano padre dell’amica in seguito a un piccolo infortunio. L’ospite andava a trovarlo quotidianamente. Quel giorno si incontrarono per visitare una mostra presso un famoso museo di arte moderna. Pioveva. Lei era molto emozionata. Salì sulla Fiat Idea di lui e restò colpita dalla semplicità con cui si poneva il suo interlocutore. La soggezione rimaneva, ma un piccolo spigolo era stato scalfito.

Si rese conto che era un vero appuntamento con lui, il cuore le diede un brivido. La mostra era abbastanza noiosa, ma l’ospite sfruttò quel tempo per studiare il suo accompagnatore. Più lei cercava di porre rimedio con il raziocinio all’emozione che le paralizzava la lingua e le seccava la bocca, più il cervello le si svuotava di cose sensate da dire.

Un’altra volta passeggiarono nel parco, così, semplicemente. Era più facile parlare in quel modo. Lui l’aiutava molto: faceva domande garbate per mantenere in moto la conversazione, ascoltava con attenzione e faceva osservazioni pertinenti e spiritose. Dopo qualche tempo il braccio di lui si appoggiò sulle spalle di lei e camminarono così, lui con fare protettivo, lei emozionata e incerta.

In una di queste peregrinazioni per i meravigliosi parchi della città finirono in un locale tutto legno e vetro immerso nel verde. Era sera e l’interno era illuminato da luci soffuse e tante candele, che vicino alle finestre si rispecchiavano facendo risplendere l’interno come un palazzo principesco.

Al tavolo di quel locale, alle luci delle candele, ebbero la loro prima conversazione seria; socchiusero i rispettivi cuori per condividere le visioni della vita, misero le carte in tavola. Gli occhi di lui risplendevano con tenerezza e desiderio, si offriva all’amore come un bicchiere di cristallo.

 

Diario

Il 24 marzo proposi a una mia allieva di scrivere una paginetta di diario in inglese, come esercitazione pratica di quanto appreso durante le numerose lezioni con me. Per invogliarla, mi offrii di ricambiare allo stesso modo. E’ così che cominciò il mio esperimento di scambio diaristico. All’inizio non riuscii a scrivere proprio ogni giorno ma, vedendo che la mia allieva si impegnava, non volli essere da meno e mi applicai con più costanza.
Oggi, due mesi abbondanti dopo, sono orgogliosa di potervi dire che scrivere il diario è diventata una piacevole abitudine che mi aiuta a tenere traccia dei piccoli e grandi avvenimenti della mia vita. Il bello è che sta cambiando. All’inizio il mio sforzo era tutto diretto alla metodicità, ora invece comincio a sentire l’esigenza di staccarmi dalla descrizione fattuale per descrivere di più i miei pensieri e le mie emozioni. Questo mi suscita però un conflitto, perché di fronte a un’allieva non me la sento di mettere a nudo la mia intimità. A dire la verità, non la voglio rivelare a nessuno. E’ solo così, secondo me, che un diario è veramente sincero: quando l’autore lo scrive esclusivamente per se stesso, senza l’intenzione che venga letto da chicchessia. In questi giorni sto cercando un modo onorevole nella mia mente per ritrarmi dal mio impegno con la mia allieva, senza però causare la cessazione della scrittura del diario da parte sua, dato che per lei è importante a scopo didattico.

Stavo anche pensando di cambiare lingua. Attualmente scrivo in inglese per dare un valore aggiunto alla mia allieva, ampliare il suo lessico e darle un’idea delle espressioni informali; se scrivo per me sarebbe più naturale scrivere in italiano.

In seguito potrei decidere di condividere occasionalmente una pagina con un mio amico tedesco che sta studiando italiano, solo sporadicamente però. Chissà se arriverò mai a scrivere in tedesco… no, credo che sarebbe necessario una permanenza prolungata nel Paese per attuare il flusso di pensieri in quella lingua.

Sono orgogliosa di me per essere riuscita a impostare questa nuova abitudine. In passato non sono mai riuscita a tenere un diario con regolarità, scrivere ogni giorno mi pesava e mi sembrava un risultato irraggiungibile; che la mia forza di volontà si sia rafforzata?

Cosa pensate di tutto questo? Avete mai tenuto un diario? Lo scrivete tuttora? Vi riesce difficile mantenere la regolarità? In che momento della giornata vi piace scrivere? Rileggete i vostri diari?

 

“Chiunque abbia la mia età ricorda bene dove si trovava e cosa stava facendo nel preciso momento in cui, per la prima volta, sentì parlare della gara. Io ero seduto nel mio nascondiglio e guardavo i cartoni animati quando il notiziario fece irruzione sullo schermo annunciando che…”

… tutti i bambini al di sotto dei 10 anni erano invitati a partecipare a una sfida mondiale di test in cinque ambiti (maturità culturale, psicologica, emotiva, musicale, motoria) che avrebbe premiato il bambino o la bambina vincente con un viaggio di un mese per quattro persone, tutto compreso, che toccava i cinque continenti e impiegava cinque diversi mezzi di trasporto. Per partecipare era sufficiente iscriversi presso la propria scuola e versare una quota minima (se non erro erano mille lire, a quei tempi l’equivalente della mia paghetta settimanale).

 

A cena raccontai ai miei genitori del concorso mondiale, senza particolare interesse. Mia mamma invece, sempre pronta al gioco e alle sfide, mi incitò a partecipare: “Perché no?” mi disse “se gareggiano i tuoi compagni di classe, puoi partecipare anche tu”. Il ragionamento non faceva una grinza, così decisi di provare.

 

Nel corso delle cinque settimane successive la maestra ci somministrò i test, coordinati a livello centrale da un comitato organizzativo internazionale costituito da rappresentanti delle cinque discipline. Erano in ordine crescente di difficoltà. Gli ultimi furono complicatissimi e sicuramente i miei compagni ed io imparammo molte cose che altrimenti non avremmo mai neanche sognato.

 

Una volta completati, passarono diverse settimane. A quei tempi non esisteva Internet e non c’erano aggiornamenti sulle fasi di scrutinio. Un certo giorno, sentimmo l’annuncio alla radio e poi alla televisione, dissero che la selezione era conclusa e che il bambino o la bambina vincente avrebbe ricevuto la convocazione via telegramma per partecipare all’evento di premiazione, trasmesso in mondovisione sul canale 1 della RAI.

 

Nella mia classe c’era molta eccitazione. Il brusio dei bambini serpeggiava sottile finché la maestra non imponeva il silenzio, ma alla minima occasione riprendeva. Furono giorni di grande, elettrica tensione. Tutti volevano partire per l’avventuroso viaggio con la propria famiglia, tutti sognavano Paesi esotici, spiagge paradisiache, montagne con panorami mozzafiato, la giungla inesplorata, gli orsi polari, le renne, i pinguini, le rapide dei fiumi in canoa… Io non mi soffermai troppo sul pensiero, certa che sicuramente c’erano bambini intelligentissimi, molto più dotati di me.

 

Quando tornai a casa, mia mamma – che a quei tempi, fantasiosa com’era, metteva la posta per me in un cestino appeso con un elastico a 2,5 metri dal soffitto, con un pon-pon a mo’ di appiglio sotto, mi avvisò che c’era posta per me. In camera mia vidi una busta gialla nel cestino appeso. Quando l’aprii c’era un fac-simile di un telegramma: con dicitura ufficiale e burocratese una non meglio specificata “autorità mondiale penta-costituita” mi informava che no, per questa volta non avevo vinto, ma premiava la mia partecipazione e la mia buona volontà con un piccolo anellino con pietruzza colorata rossa e due cuoricini. Firmato: Mamma e Papà.

Corsi fuori ad abbracciare i miei genitori per la gioia e la sorpresa e da allora partecipai sempre con grande entusiasmo a tutti i concorsi possibili e immaginabili.

Ne vinsi diversi, di vario tipo.

 

 

 

P.S.

Arrivò primo un bambino cinese di 5 anni che risolveva difficilissimi problemi di matematica a mente, aveva per genitori due professori universitari (musica e ingegneria), una famiglia poliglotta con oltre 5 lingue rappresentate e che parlava correntemente il mandarino, l’inglese, il francese e il suo dialetto locale, suonava il violino e stava cominciando lo studio del pianoforte.

 

Stalker

Anna lo conobbe un’estate mentre faceva una ciclo-vacanza in solitaria in Devon e Cornovaglia, Inghilterra sudorientale: coste frastagliate a picco sul mare, un vento che ti sferzava la faccia, un sole che sembrava di essere alle Maldive. Infatti, quando tornò, dopo una settimana di pedalate su e giù per le colline e i boschetti con top e pantaloni da ciclista, le colleghe le chiesero in quale isola tropicale aveva ottenuto quell’abbronzatura invidiabile. Nemmeno una goccia di pioggia in una settimana! In Inghilterra!

Ma stiamo divagando. Anna lo conobbe in un ostello della gioventù dove si era fermata una sera che non aveva trovato ospitalità in una fattoria come faceva di solito sul calar della sera. Lui lavorava come inserviente. Era inglese, disse di chiamarsi Philip. Le raccontò di aver venduto tutto dopo il divorzio, casa, auto e quant’altro, di essersi licenziato ed essere partito per una lunga vacanza intorno al mondo. Nei Paesi del nordeuropa si usa così. Forse un retaggio del Grand Tour rinascimentale.

Philip fu squisitamente gentile, si fermò a parlare con lei e aveva un accento elegante. Non era bello, ma lei era sempre stata affascinata più dall’intelletto che dall’apparenza. Rimasero a parlare dopo cena finché lui la invitò nella sua camera. Si intendevano a meraviglia, ma Anna rimase comunque sorpresa quando lui le propose di fermarsi a dormire lì. Sulle prime lei la prese come un’offerta cameratesca, per continuare la conversazione che scorreva così bene nonostante l’ora; solo quando lui si stupì, mentre preparavano il letto, che lei non volesse dormire con lui, capì le sue vere intenzioni.

Di quella notte ora, dopo più di 20 anni, ha un ricordo vago, ma della mattina successiva si ricorda benissimo: quando lei si svegliò, lui non c’era più, aveva iniziato il suo turno di lavoro. C’era però un vassoio con la colazione e una rosa, e un bigliettino gentile. Le si arricciarono gli alluci dal piacere. Prima di partire, Anna gli scrisse una lunga lettera descrivendo quanto era stata contenta con lui quei giorni

Quando Anna tornò nella cittadina vicino a Londra dove lavorava, cominciarono a scriversi. Dopo qualche settimana, lui annunciò una visita. Anna si rallegrò. Cominciarono a frequentarsi. Una volta lasciato quel lavoro temporaneo all’ostello, Philip si era trasferito nelle vicinanze di Anna e trovò ben presto un altro lavoro saltuario per mantenersi. Nella sua vita precedente aveva detto di aver lavorato in banca, ora scriveva per la BBC. Cose molto divertenti per spettacoli assai noti, ma che lei, essendo straniera, non conosceva. Ogni tanto lui le leggeva degli stralci, che lei regolarmente non capiva a causa dei numerosi doppi sensi, che ancora le sfuggivano in inglese.

Si frequentarono per alcuni mesi, Anna apprezzava il suo intelletto, la sua proprietà di linguaggio, i complimenti che lui non mancava di farle, ma il suo cuore non volava. C’erano delle stranezze in lui: aveva la mania di lavarsi. Si era rasato tutti i peli del corpo, per essere più pulito, diceva. Si lavava in continuazione, per di più con un sapone di cui ad Anna non piaceva l’odore (Palmolive). Lui si stupì molto quando lei glielo disse.

Ogni tanto avevano piccole discussioni, mai molto animate comunque.

Un giorno che si trovarono dopo il lavoro di Anna – lui l’aveva vista per strada – lui le rivelò di averla vista mentre scrutava il proprio riflesso in una vetrina, passeggiando. Anna ammise la sua civetteria, disse di non essere mai soddisfatta, di essere insaziabile di complimenti, per Philip sembrava essere una colpa grave.

A casa ebbero una discussione su piccolezze, come lavare i piatti e cose del genere. Di colpo lui le mise le mani attorno al collo e cominciò a stringere. Non per soffocarla, solo per farla spaventare. Lei si divincolò e corse in un’altra stanza. Non esistevano ancora i cellulari.

Quando sentì che se n’era andato, chiamò la polizia. Arrivarono due agenti, un uomo e una donna.

Philip prima di andarsene aveva fatto un grande mucchio al centro della stanza con tutti i vestiti di lei, tutti accatastati uno sull’altro.

Gli agenti dissero che per motivi di privacy non potevano rivelarle eventuali precedenti penali dell’uomo. Anna era costernata. Magari aveva a che fare con un maniaco sessuale, un serial killer, uno psicopatico, e lei non aveva diritto di sapere se aveva fatto del male ad altre donne.

Per alcuni giorni non lo sentì più, poi arrivò una cartolina di Philip in cui annunciava che stava partendo “per pascoli nuovi”, lontano. Anna tirò un sospiro di sollievo.

 

 

Salvataggio

Cala la sera ed io mi rallegro al pensiero del divano e del mio nuovo libro. Trilla il cellulare, è Silvia. Mi dice che sente piangere da ore un gattino, in un campo recintato e inaccessibile. Dice che ha suonato ai vicini, ma è una strada di brutte persone, si disinteressano e sono stati sgarbati con lei. Quando tace sento un gattino neonato piangere in sottofondo. Tutti i miei sensori materni si attivano all’istante. Afferro una manciata di croccantini, un trasportino e degli stracci e mi precipito.

10 minuti dopo sto parcheggiando in una stradina sterrata. Raggiungo la mia amica d’infanzia sulla via principale del paese: Silvia è in piedi accanto alla sua bicicletta, appoggiata alla recinzione alta 1,80 mt. Dei cani feroci abbaiano agitati.

Dall’altra parte della rete, nel campo incolto, un uomo si muove bofonchiando frasi incomprensibili. Cerchiamo di perorare la causa del gattino, ma lui niente, non ci vuole far entrare nella sua proprietà.

Noi non ci muoviamo, anzi, appena passano due ragazze giovani io le fermo e chiedo se hanno sentito piangere un gattino in quella zona. Vedo dai loro occhi che anche i loro sensori si sono attivati immediatamente.

Riproviamo a convincere l’uomo a dare un’occhiata sotto l’albero al centro del campo, dove l’erba è alta mezzo metro e ci sono diversi arbusti aggrovigliati. Niente da fare, se ne va. I cani si agitano ancora di più.

Valutiamo il da farsi. I vigili non rispondono, già provato. Io mi ripropongo di chiamare il Sindaco, eventualmente i pompieri. Si potrebbe provare anche con il proprietario ufficiale del campo, un agricoltore che abita nella cascina di fronte, e che io conosco di vista da molti anni.

Silvia mi racconta che la santa del giorno è Santa Pelagia, che nome curioso.

L’uomo torna con un badile e una torcia. Vuole cercare il gatto in mezzo all’erba alta col badile? Silvia ed io ci guardiamo e leggiamo la stessa incredulità l’una negli occhi dell’altra. Darà una badilata al gatto, casomai lo trovasse!

Io riprovo a parlare con l’uomo, suggerendo che, se ci fa entrare, in tre è tutto più facile: uno tiene la torcia e gli altri due cercano. Non se ne parla, nella sua proprietà lui non fa entrare nessuno. Dobbiamo sembrare due temibili terroriste, io con la mia giacca di pile bianco, borsetta e scarpe abbinate, Silvia in T-shirt e pantaloni estivi.

Succede un miracolo, l’uomo ci fa entrare. I cani sentono il nostro odore e ci vogliono fare la festa. Chiediamo rassicurazioni, l’uomo li chiude in una parte del cortile separata dal campo.

In tre cerchiamo, al buio, con una sola torcia. Silvia cerca da sola, io tengo la torcia e l’uomo col badile abbassa l’erba alta per guardare se vi si nasconde un gatto. Col badile. Penso che in quel modo non lo troveremo mai.

Se io fossi un gattino piccolo e indifeso, dove mi nasconderei? Mi avvicino all’albero e scosto gli arbusti attorno al tronco, sollevo le liane che lo avviluppano, frugo tra le foglie secche. Improvvisamente, vedo un sederino peloso con attaccata una coda: l’ho trovato. Quasi non ci credo. Lo annuncio a tutti. E’ grigio e morbido. Lo sollevo decisa da sotto la pancia e me lo metto vicino al petto. E’ minuscolo, piange. Non sembra ferito, appare in buone condizioni. Presa dall’euforia, dò un bacio all’uomo che ci ha permesso di salvare il gattino, dico alla mia amica di imitarmi, ma vedo che lei rimane rigida. L’uomo puzza di alcol.

Ora non voglio altro che portare in salvo il gattino. Vedo che nel cortiletto i cani si sono liberati. Anche Silvia li vede e lo dice a voce alta, sento allarme nella sua voce. Sono due pitbull. Meno male che c’è un cancello che ci divide da loro. L’uomo si avvia a chiuderli nuovamente. Mentre sgattaioliamo via, chiedo all’uomo come si chiama. “Marino”, dice. Silvia gli annuncia che il gatto si chiamerà come lui.

Un tacito accordo ha sancito che terrò io il gattino o la gattina. Per prima cosa lo faccio visitare da un veterinario, poi penserò a nutrirlo. Chissà da quanto tempo non mangia, dei vicini interpellati da Silvia hanno detto di averlo sentito piangere già il giorno prima (“e non siete usciti a vedere? Bastardi!”).

Il gattino è talmente piccolo che mi fa tristezza metterlo nel trasportino, immenso per lui. Non ho avuto il tempo di pulire il trasportino prima di uscire. Mi tengo il gattino in grembo mentre guido, avvolto in un golfino scuro da cui spunta solo la testolina. Si muove a stento.

L’assistente della veterinaria mi dice che il gattino non ha nemmeno un mese ma è in buone condizioni e ha mangiato.  Non dice che è poco reattivo, ma lo vedo da me. E’ troppo spaventato. E’ una femmina. Si chiamerà Marina Pelagia.

I giorni successivi mi trasformo in neomamma. Scaldo omogeneizzati che somministro sulla punta dei polpastrelli, perché così gradisce Marina, me la porto a letto per dormire (e il mattino dopo mi rendo conto di avere i capelli pieni di pulci), le preparo il cestino con la borsa di acqua calda e degli stracci di lana, perché il veterinario ha detto di tenerla al caldo.

Dopo 24 ore non ha ancora urinato né defecato, il veterinario, interpellato, mi tranquillizza dicendo che ci possono volere fino a 48 ore.

48 ore? Ma non va in blocco renale?

Durante la notte fa tutto quello che deve fare.

Il giorno dopo capisco dai suoi lamenti mentre urina che ha la cistite. Ritelefono al veterinario che la vuole vedere.

Rivedo la veterinaria che conoscevo 25 anni fa: è invecchiata bene, più sicura di sè, ma sempre carina nei modi e nella voce come allora.

Imparo la stretta freeze con cui mamma gatta prende i gattini dalla collottola, imparo a nutrire la mia gattina con la siringa senza ago e pure con un sondino masticabile che arriva fino allo stomaco. E’ più facile di quanto pensassi.

Marina protesta vigorosamente quando viene sottoposta all’ecografia: il gel sul pancino è freddo e il dispositivo preme in modo insopportabile contro le pareti irritate della vescica.

Durante l’iniezione dell’antibiotico esco, ormai ho imparato che non sopporto veder soffrire i miei animali, nessun animale. Una volta sono anche svenuta.

La veterinaria dice che Marina ha il carattere di una matriarca. Presto metterà in riga le mie altre due micie, ben più vecchie e ben più grosse.

La storia si ripete. Anche Michelle, arrivata da noi all’età di due mesi, ha messo in pista Susie e fino ad ora era lei, la più giovane, a comandare.

Gradualmente lascio che le mie due micie grandi capiscano che c’è qualcun altro nella mia camera da letto. Sbirciano incuriosite, soffiano, ma sostanzialmente ignorano la nuova arrivata.

Susie è offesa che ci sia un altro gatto nella mia vita e non viene più a trovarmi a letto, non si stende più sulle mie gambe, se ne sta dignitosamente in disparte sul divano del soggiorno, come se la cosa non la riguardasse.

Passano i mesi. Ora Marina è una preadolescente (5 mesi). Da 500 grammi è passata a 2,5 kg, ha fatto tutte le vaccinazioni ed è in lista per l’operazione di sterilizzazione. Su e Ma giocano insieme e si leccano a vicenda, Michelle ha ancora qualche perplessità gerarchica.

Io dormo (poco) con le mie tre figlie pelose e vengo svegliata da bacini baffuti.

IL MIO GRUPPO DI LETTURA

Il mio gruppo di lettura è un infante: è stato fondato solo un anno fa. All’inizio eravamo in tanti, più di una dozzina, e ci riunivamo sul soppalco della biblioteca comunale. Ora alle riunioni mensili ci troviamo quasi sempre in 4 o 5 e la biblioteca ci è preclusa: abbiamo la possibilità di usufruire di un centro ricreativo esterno, ma a noi piacerebbe essere circondate dai nostri amati libri.

Siamo tutte donne, lo siamo state praticamente fin dall’inizio, quando i pochissimi uomini presenti ai primi due incontri non si sono più ripresentati, forse per autoselezione – e non è necessariamente un male.

 

Gli appuntamenti iniziali erano vivaci ed effervescenti: molte persone e tutte volevano dire la loro, tanto che ci faceva comodo il prezioso contributo di alcune moderatrici venute da un gruppo di lettura vicino per aiutarci e guidarci nella scelta dei titoli. Dopo alcuni incontri però il nostro gruppo di lettura ha cominciato a muovere i primi passi sulle proprie gambe e le moderatrici, a causa anche dei mille impegni propri, non hanno più partecipato, pur seguendoci da vicino tramite il gruppo Whatsapp subito creato per tenerci in contatto su tutto ciò che ruota attorno alla lettura.

 

Ci incontriamo una volta al mese alle 21 per confrontarci sul libro, stabilito durante l’incontro precedente, che tutte abbiamo letto nel corso del mese. In genere tutti portano la propria copia del libro, spesso e volentieri qualcuno legge dei passaggi che l’hanno particolarmente colpita e ciascuno commenta liberamente. La fondatrice del gruppo fa da moderatrice. Ultimamente ci troviamo spesso in soli 4 o 5, ciò che toglie vivacità e pluralità alla dinamica del gruppo.

 

Altri gruppi di lettura si organizzano diversamente: per qualche anno ho fatto parte di un gruppo di lettura nel quale ognuno sceglieva liberamente le proprie letture e poi le presentava agli altri partecipanti.

 

Mi provoca sempre un moto di commozione vedere come la fondatrice del gruppo di lettura si cura anche degli aspetti materiali dei nostri incontri: non c’è stata volta che non ci abbia allietato, consolato, incoraggiato con i suoi deliziosi baci di dama (i miei biscotti preferiti, per la leggiadria del nome e per il gusto nocciolato!) di una marca introvabile, sempre posizionati troppo vicino a me, tanto da non riuscire a frenare la mia golosità e finire per spazzolarne almeno la metà; non fa mai mancare bottigliette di plastica con l’acqua e bicchieri (anche se mi piacerebbe che ci orientassimo, col contributo fattivo di tutti, verso una scelta più ecologica, per esempio portando ciascuno la propria tazza e le bottiglie di vetro) .

 

La mia visita autonoma al Festival della letteratura di Mantova di quest’anno mi ha galvanizzato, rattristandomi contemporaneamente per il fatto di viverla da sola. Per l’anno prossimo, mi ripropongo di mettere a disposizione del mio gruppo le mie capacità organizzative per visitarlo assieme. Mi piacerebbe che la profonda emozione che mi ha assalito assistendo, per esempio, alle letture dei Diari di Virginia Woolf sulla Panchina Letteraria fosse condivisa e “portasse semenza”: sono sicura che se partecipassimo in gruppo ne scaturirebbe qualche idea costruttiva.

Anche le conferenze sono state molto interessanti e avrebbero potuto aprire la strada a nuove direzioni di lettura.

 

Cose che ho osservato in altri gruppi di lettura e che mi piacerebbe fare con il mio: letture ad alta voce su temi scelti, colazioni letterarie, libro parlato (donatori di voce), visita di eventi letterari (reading, presentazioni di libri, festival della letteratura di Mantova,conferenze su autori, visite guidate anche auto-organizzate a dimore di autori, riflessioni su citazioni, giochi letterari, letture drammatizzate, viaggi all’estero a tema letterario, ecc.).

 

Anche se il nostro gruppo di lettura è ancora in fasce, a volte transitoriamente in… fase di dentizione, ritengo che sia un importante contributo all’offerta culturale di un piccolo paese: grandi cose possono scaturire da piccole iniziative, come insegna il successo della colazione letteraria presso la biblioteca di Casalmaiocco.

Molti cittadini spesso non partecipano agli eventi per pigrizia, a causa di orari scomodi o perché isolati, ma sono confortati dal fatto di sapere che esistono. Ben triste sarebbe, secondo me, la vita in un paese senza la vivacità apportata da un gruppo di lettura vitale e affiatato.

LA COPPIA

La coppia si teneva su a vicenda.

84 anni lui, 75 lei, e a conoscerli bene ci si rendeva conto che era un miracolo che fossero riusciti a farcela così a lungo.

Lei era nata in Basilicata, da una famiglia di contadini. Erano 7 fratelli. I genitori occasionalmente affrontavano il viaggio a piedi dalla Basilicata alla Puglia per cercare lavoro lasciando i 7 figli a casa da soli.

A 9 anni, la madre prese in disparte la bambina e le disse: “Tu ormai sei andata a scuola, hai fatto la prima e la seconda elementare, adesso basta studiare, devi portare soldi a casa”. Fu così che la bambina venne mandata a servizio a Roma a fare la serva in casa di un giornalista romano e della sua compagna. La bambina doveva anche pulire a casa della madre del giornalista. Fu lì che un giorno sparì del denaro. Venne incolpata la bambina. Lei ebbe un bel negare, venne comunque massacrata di botte, pestata a sangue. Non ebbe mai il coraggio di confessare questo episodio, nemmeno ai propri genitori, che in ogni caso non avrebbero potuto fare nulla perché lontani e perché in disperato stato di necessità. Più tardi, da adulta, non riuscì mai a parlarne nemmeno ai propri figli.

 

Successivamente a Roma la bambina venne raggiunta dai fratelli, poi un po’ per volta si trasferirono tutti al nord. Cominciò uno che si trasferì a Riozzo, poi la bambina lo raggiunse e trovò lavoro in una fabbrica di materie plastiche. Più tardi si sistemarono al quartiere Madonnina di Dresano, dove la bambina, ormai divenuta una ragazza, conobbe il futuro marito, con cui nel giro di un anno si sposò . A 19 anni nasceva la sua prima figlia.

 

QUANDO CADDE IL MURO DI BERLINO

Nel 1989 avevo 18 anni e frequentavo la quarta liceo scientifico, studiavo Kant, Hegel e Marx.

Quando cadde il muro ricordo che ero davanti alla televisione in soggiorno con i miei genitori e mi resi perfettamente conto che stavo assistendo a un evento epocale. Mi salì un groppo in gola, come tutte le volte da allora quando rievoco questo evento.

Successivamente, quando studiavo alla scuola interpreti, ogni volta che in cabina veniva letto un pezzo sulla caduta del muro e noi dovevamo tradurlo, le parole mi si spezzavano, riuscivo a stento a mantenere una voce udibile.

Anche se la mia famiglia non era direttamente coinvolta, mi sentivo parte di quella nazione che per tanti anni aveva subito questa frattura e viveva con questo dolore di separazione e quindi la gioia era tanta, l’incredulità prevaleva, e anche l’apprensione per il futuro: se la Germania sarebbe stata in grado di fare fronte all’impegno enorme che il processo di riunificazione implicava.

Mia mamma, che in fondo avrebbe dovuto esserne colpita molto più di me, in realtà non dava mostra di esserne particolarmente commossa o colpita in qualche modo. Probabilmente le chiesi anche quali erano le sue emozioni, le sue reazioni, ma non mi ricordo quale fu la risposta.

Oggi, quando penso a quel momento storico, il sentimento prevalente è di grande ammirazione per la Germania, per la competenza con cui ha affrontato tutte le necessità burocratiche, pratiche, di integrazione, di riappacificazione con un passato molto difficile. Certamente, permangono ancora dei problemi. Larga parte della popolazione della ex-Germania est non ha un reddito equivalente a quello della Germania ovest, ci sono preoccupanti fermenti di estremismo di destra, la popolazione ancora soffre di una specie di complesso di inferiorità, ma in generale la nazione è unita e si sente parte di un’unica nazione, che per me è un enorme traguardo.

Una delle cose che ricordo con maggior sgomento e ammirazione è il fatto che, quando crollò il muro, nel giro di pochissimi giorni, il governo federale istituì il Begrüβungsgeld (denaro di benvenuto), una piccola somma a cui tutti i tedeschi dell’ex-Germania est avevano diritto all’arrivo in occidente per superare il divario del potere di acquisto delle due diverse valute tedesche. Pur essendo giovane mi rendevo conto dell’enorme sforzo economico che questo segno concreto di aiuto, di buona volontà, di riappacificazione significava. E ancora una volta era la riprova che la Germania era una grande nazione, ben piantata coi piedi per terra.

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