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L’IMPORTANZA DELL’ACQUA

Stavamo viaggiando in quel deserto di neve e ghiaccio da quattro giorni. Avevamo esaurito le scorte di cibo e acqua, il gas era agli sgoccioli e anche i cani erano affaticati.

Di quel passo, avremmo raggiunto la postazione del Centro Ricerche sul Clima a Irkutsk di lì a novantadue ore. Io non ce la facevo più: volevo sdraiarmi sulla slitta e addormentarmi senza pensare più al nostro sfortunato progetto, partito male e proseguito peggio, incagliatosi in una serie di ostacoli prima politici, poi economici e amministrativi, infine logistici e tecnici.

Delle tre ricercatrici internazionali, ero l’unica che era rimasta. Avevo dovuto subire le battute sarcastiche e sessiste dei miei compagni di squadra, ma la mia determinazione e l’abitudine a farmi scivolare di dosso le offese come acqua sulla roccia mi aveva anche guadagnato una certa considerazione.

A differenza delle altre che avevano abbandonato, non avevo una famiglia a cui rendere conto, un marito da cui tornare, dei figli a cui dover dare sicurezza, nemmeno dei gatti abituati a dormire sul mio letto la notte, non più.

Negli ultimi dieci anni la mia vita era la ricerca; il progetto sulla memoria dell’acqua iniziato da Masaru Emoto nel secolo scorso aveva guadagnato credibilità e finanziamenti, i progressi teorici della fisica quantistica avevano dimostrato l’indimostrabile, ora anche le aziende e i governi intravedevano un futuro di potenziali applicazioni commerciali e avevano cominciato a sciogliere le loro riserve.

Il paradosso è che eravamo circondati da acqua ed eravamo tutti disidratati. La sete ci accompagnava dal risveglio all’alba a quando ci fermavamo nelle basi di sosta al tramonto.

Avevamo sbagliato strada per un malfunzionamento della bussola e lo scioglimento del permafrost aveva modificato l’assetto dell’enorme lastra di ghiaccio su cui scivolavamo con le nostre tre slitte, determinando un allungamento del percorso di due giorni. Il gas che ci permetteva di sciogliere il ghiaccio per bollirlo e ricavare acqua potabile era insufficiente per tutti. Dopo due giorni, resosi conto dell’errore, il capo-spedizione aveva deciso di razionare l’acqua: a ognuno di noi spettava mezzo litro di acqua a testa al giorno. Tutti erano molto disciplinati e osservavano scrupolosamente le indicazioni, ma si percepiva un’aumentata irritabilità e una certa stanchezza negli equipaggi.

Al briefing preparatorio avevamo imparato che era sconsigliabile far sciogliere in bocca direttamente la neve cruda, per via dei potenziali patogeni, se non volevamo finire come Rosanna Benzi, che contrasse la poliomielite a tredici anni e visse il resto della sua vita in un polmone d’acciaio. Morì a quarantatré anni.

Il mio nono compleanno

A scuola quest’anno abbiamo cominciato a studiare musica. La mia maestra di musica diceva che sono portata. Ho studiato le note facendo finta, disegnando i tasti del pianoforte sul banco. Per molti mesi ho supplicato mio papà di comprarmi un pianoforte, o almeno di noleggiarlo. Lui diceva sempre che non avevamo soldi per un pianoforte.

Due giorni prima del mio nono compleanno, il venerdì mio padre si è assentato tutta la mattina. Io ero a casa da scuola perché c’erano disordini e le scuole avevano chiuso prima.

Il giorno del mio compleanno mi sono svegliata presto, abbiamo fatto colazione tutti insieme e ho scartato i regalini che i miei genitori e i miei fratelli avevano messo sul mio piatto. Nel pomeriggio abbiamo fatto una festa in cortile: sono venuti i miei compagni di scuola e alcuni amichetti con cui gioco solitamente in strada. Abbiamo giocato a nascondino, soffiato sulle candeline della torta e mangiato patatine. A un certo punto si è fermato un furgone bianco e ha chiesto se abitava lì la signorina Haziz. “Sono io!” ho detto. “Ho una consegna per te” ha detto l’uomo. “Firma qui”.

Quando si è aperto il furgone, sono scesi altri tre uomini e in quattro hanno cominciato a spingere un’asse su rotelle su cui poggiava un grosso pacco nero imballato. Non senza fatica l’hanno trasportato in casa, io saltellavo intorno cercando di capire cos’era. Alle mie domande nessuno dava risposta.

Una volta in casa i trasportatori hanno lanciato uno sguardo d’intesa a mio padre e se ne sono andati.

Io ho cominciato a scartare il pacco, il mio cuore batteva forte. Non osavo nemmeno sperare.

Quando ho tolto il cellophane ai miei occhi si è presentato il più bel pianoforte verticale che avessi mai visto. Nero nero, lucido lucido, con una bella forma sinuosa e arrotondata, non spigoloso come quello della mia amica Fatima. Ho saggiato il do centrale, poi le note dell’ottava superiore, i bassi, l’ottava centrale. Aveva un suono meraviglioso, puro e cristallino. Non vedevo l’ora di suonarlo.

Mi sono messa in piedi così com’ero, senza nemmeno scartare lo sgabello regolabile. A un certo punto, dopo un bel po’ di tempo che suonavo in piedi, mia mamma me lo ha spinto contro le ginocchia e io mi sono seduta.

Oh felicità, gioia pura!

Ho provato tutti gli esercizi che solitamente suonavo sul banco, poi sono andata a prendere i libri di musica e ho cominciato a suonare pezzi nuovi, ne iniziavo uno, poi passavo subito al successivo e così via finché non diventavano troppo difficili.

Mia mamma sorrideva guardandomi. Sono corsa ad abbracciare mio padre e l’ho ringraziato stringendolo stretto stretto e stampandogli un grosso bacio sulla guancia. Mi è scesa anche qualche lacrima di gioia.

I miei fratelli guardavano divertiti e non troppo interessati. Mia sorella era troppo piccola per capire, ma era contenta pure lei, contagiata dall’allegria generale, percepiva che era un momento di festa, un momento bello.

I due giorni successivi dovetti andare a scuola. Contavo le ore che mancavano al suono della campanella per tornare a casa ed esercitarmi. Mi immaginavo che, ora sì, avrei potuto avere un grande futuro come pianista: viaggi all’estero, concerti, concorsi, fiori per me sul palco, applausi. Sapevo però che mi dovevo impegnare per ottenere tutto questo, dunque non volevo perdere nemmeno un minuto.

Due giorni dopo mio padre mi disse che dovevamo lasciare la città e andare per un po’ dalla nonna. Pensai che stesse male la nonna, invece mio padre disse che era scoppiata la guerra. Chiesi se potevamo portare con noi il pianoforte. “E’ troppo grande” disse mio padre. “Dobbiamo lasciarlo qua, ma torneremo a prenderlo”.

Raggiungemmo la nonna, che ci accolse con grande calore. Era contenta e sollevata di vederci. Il giorno dopo ricevemmo una telefonata dai nostri vicini di casa: avevano bombardato la nostra casa, il nostro soggiorno non esisteva più. Io non riuscivo a crederci. Il mio pianoforte nuovo! Il mio futuro!

Piansi a lungo.

Mio papà cercò di consolarmi: mi disse che, sì, sapeva che per me era un grosso dispiacere, ma la cosa importante era che noi fossimo tutti vivi. Quando i razzi cominciarono a colpire la città della nonna, sfollammo tutti insieme in  una città vicina che doveva essere più sicura, ma poco dopo arrivarono le bombe anche lì.

Nel frattempo papà era stato all’ambasciata turca a Tel Aviv e gli avevano concesso i documenti per imbarcarci tutti su una nave che andava a Istambul. Mio papà ha la doppia nazionalità palestinese-turca, così abbiamo potuto essere accolti qua. La vita è più tranquilla qua, vado a scuola, i miei compagni sono simpatici, ma a me manca il mio pianoforte.

Mi chiamo Raja Haziz e sono una bambina palestinese che ama la musica classica.

Angelo

Sono nata una sera di maggio in Sicilia quando le zagare profumavano l’aria.
Vivevo insieme alla mia mamma e ai miei fratelli in una scatola di cartone a bordo strada, dove passavano molte auto. Mi sono ammalata presto. Mia mamma non aveva latte a sufficienza e tempo per scaldarci tutti. Ci sono state notti fredde, ho preso il raffreddore. Tutti l’avevamo.
Un giorno mi ha raccolto una signora. Mi ha dato da mangiare una cosa umida e buona che non era latte. Mi ha curato il raffreddore, che nel frattempo era risalito dal naso e mi aveva infettato l’occhio. L’occhio non è tornato come prima, ma il naso sì.
Poi la signora ha preso dalla strada anche mia mamma, così potevamo stare insieme. Dopo qualche giorno ci ha raggiunte anche mia sorella. Oh, la gioia di giocare tutte e tre assieme, di nuovo una famiglia! Di notte ci stringevamo l’una all’altra e ci addormentavamo coi musi vicini. Beatitudine!
La signora era brava, ci dava da mangiare cose buone, ci accarezzava, aveva un bel gabinetto che puliva regolarmente. Aveva una figlia un po’ rumorosa però. La bambina giocava spesso con noi, io mi divertivo molto con la lenza.
Siamo stati con la famiglia della signora per parecchio tempo. Faceva caldo, si stava bene, i pasti erano abbondanti.
Poi, ai primi freddi, mia sorella è sparita. Io ero triste, ma per fortuna c’era mia mamma che mi leccava e mi consolava.
Un pomeriggio, la signora mi ha messo in un trasportino e mi ha portato in una strada rumorosa. Io avevo paura. Si è fermato un grosso camion e mi hanno messo lì dentro. C’erano tanti scomparti, in ogni scomparto un gatto simile a me. Hanno chiuso la porta e sono rimasta sola. Il camion è partito e faceva molto rumore. Tutti piangevano. Siamo rimasti così per molte ore, faceva freddo.
A un certo punto il camion si è fermato, si è aperta la porta e un’umana ci ha dato da mangiare e ha cambiato i tappetini assorbenti che nel frattempo avevamo sporcato, non avevamo potuto fare altrimenti, non c’era scelta. A me ripugnava sporcare nel mio letto, ma come potevo fare?
Poi la porta si è richiusa e il camion è ripartito. Ancora rumore, ancora freddo, ancora buio, però non piangeva più nessuno.
Dopo un tempo infinito così, con alcune pause per mangiare e cambiare i tappetini , siamo arrivati in un posto dove c’erano delle persone. L’umana ha tirato fuori i trasportini dagli scomparti a uno a uno e ci ha consegnati ad altri umani. Gli umani erano sorridenti, noi spaventati. Faceva freddo.
Io dalla nuova signora sono stata messa in un’auto blu e siamo ripartite. Altro rumore, però stavolta non faceva freddo.
Quando siamo arrivate, questa signora mi ha messo in una stanza piccola tutta per me e ha aperto lo sportello del mio trasportino. Io mi sono guardata bene dall’uscire. Solo quando ero ben sicura di essere sola ho esplorato il perimetro della stanza, che era come quella della mia prima casa, il pavimento era liscio e freddo. E’ arrivata una nuova tana foderata di una cosa morbida, che mi è piaciuta subito. Questa tana era molto più bella e ci stavo volentieri.
Ogni tanto la nuova signora entrava nella stanza, faceva uno strano rumore come di acqua, mi parlava. Io però stavo rintanata nel mio nascondiglio. E’ andata avanti così per parecchi giorni: io uscivo quando ero sola, esploravo, giocavo con il rotolo di carta bianca, saltavo sul davanzale, giocavo con l’asciugamano. Quando sentivo i passi della signora, mi nascondevo. Era molto tranquillo.
Dopo un po’ di tempo, la signora mi ha trasferito in un’altra stanza, molto più grande e con più rumori. Ho cominciato a uscire dalla tana perché un po’ mi annoiavo.
La signora era grande e grossa, anche se mi parlava con voce gentile. Io mi spaventavo e correvo nella tana, oppure mi nascondevo sotto il tavolo.
Col passare dei giorni mi sono abituata alla signora nuova, ma ogni giorno c’erano delle novità. Intanto, ho scoperto che potevo andare alla finestra e guardare fuori gli uccellini, la mia passione! Posso stare ore a guardarli. Poi, ho capito di non essere sola con la signora: circolavano altri gatti in quella casa. Non sembravano nemici, ma non si sa mai. Io stavo ben alla larga.
Dopo un po’ ho capito che la gatta bianca e nera con la mascherina non era pericolosa: dormiva tutto il giorno e non faceva un gran che, così ho cominciato ad accorciare le distanze. Ora qualche volta dormiamo addirittura sullo stesso divano.
L’altra, quella tigrata, invece era indecifrabile. Grossa come una tigre, agile come un leopardo, mi sfuggiva e mi ringhiava. Ancora adesso mi ringhia spesso. Non dev’essere molto sveglia, perché è evidente che io voglio solo giocare.
La signora mi ha messo un piccolo cestino foderato di lana morbida sul divano del soggiorno, proprio di fronte alla porta, così posso tenere d’occhio chi entra e decidere se costituisce una minaccia. In realtà solo adesso cominciano a venire umani diversi, qualche volta.
Io nel frattempo sono cresciuta e il cestino è diventato un po’ piccolo, ma mi ci sento bene, mi fa sentire protetta. Quando sono lì dentro, tutti mi lasciano stare.
In questo posto ora mi sono ambientata e ci sto piuttosto bene. L’unica cosa che lascia un po’ a desiderare è il vitto: il solo pasto decente della giornata (la carne umida) viene servita a colazione, dopodiché ognuno si dedica alle proprie attività e fino al giorno dopo ci sono unicamente dei cosi secchi come il cartone, però si sa, quando si ha fame, non si va troppo il sottile. Io vorrei che la signora capisse che non è cibo degno di un gatto, quello. Per il resto, la signora è gentile con me, mi fa anche dormire insieme a lei sul letto con le altre gatte.
Mi chiamo Clea e sono l’angelo custode di questa casa.

Paronomasia

Sul Mare del Nord c’era un grosso gatto che soffriva di gotta. Viveva in una grotta con sette tigrotti.
Poiché a tutti piacevano le aringhe, abbondava la lisca, ma il servizio di ritiro rifiuti era lasco.
Un giorno sparì uno dei tigrotti. Arrivò il Commissario Montalbano per indagare. Quando vide le lische, guardò negli occhi il gatto e disse: “Qui succedono cose losche!”
”No, Commissario, Le assicuro” disse il gatto con la gotta. “Per favore, mi gratti!”.
Il Commissario grattò il gatto con la gotta che viveva nella grotta con i tigrotti. Tutto d’un tratto, il grosso gatto si trasformò in un tigrotto senza gotta, che strofinò le sue gote contro quelle del Commissario. A quel contatto, il Commissario spiccò un balzo e fu fuori dalla grotta. Se ne andò a casa e mangiò tre cannoli alla ricotta.

Io ricordo

  1. Tappezzeria scozzese sui toni del marrone, ero nell’anticamera di casa nostra. Avevo sei anni e chiesi a mia madre “Mamma, che cos’è la coscienza?”. “Quella che tu non hai” fu la sua risposta. Sentivo mio fratello, più grande di me di otto anni, sghignazzare in sottofondo. Ne sapevo quanto prima.

2. Ricordo che amavo dormire sotto il letto, non sopra. La nostra casa aveva molta moquette. In quegli anni si usava, mia madre la amava perché conferiva una sensazione di calore e accoglienza, si poteva camminare a piedi nudi senza timore di prendersi un maldigola. Ovviamente ce l’avevamo in tutte le camere da letto, oltre che in soggiorno. Ce l’avevamo pure in mansarda, nel seminterrato, sulle scale. Sulle scale era costituita da dei rettangoli incollati che evitavano al piede di scivolare.
Grazie alla moquette, il pavimento non era mai freddo ed io mi ci sdraiavo volentieri. Facevo tutto sul pavimento: puzzles, Lego, biglie, giocare col cane e, appunto, dormire. Ricordo che mi piaceva la sensazione di cuccia sotto al letto: la rete a molle sopra la mia testa, lo spazio appena sufficiente per girarmi.
Ricordo che a volte sentivo i miei genitori salire al piano notte, aprire la porta accostata della mia camera da letto e ridacchiare alla vista di me che dormivo sotto invece che sopra il letto.
Mio fratello non lo faceva mai, non l’aveva mai fatto.

3. Quando ero bambina avevo un cane di nome Yuri. Come Yuri Gagarin. Aveva il mantello marrone e il pancino bianco, anche i calzini erano bianchi e avevano un buon odore d’erba. L’avevamo preso al canile, ricordo che la sua pipì appena arrivato a casa nostra aveva un odore molto forte. Ci mise parecchio per normalizzarsi, e mantenne comunque sempre un odore pungente, di cui ci lamentavamo ogni volta che sostavamo in giardino, d’estate.
Yuri era il mio compagno di giochi, il mio confidente e il mio capro espiatorio. Già intuivo vagamente la scala gerarchica familiare, di cui io ero l’ultimo gradino, ma un giorno mio fratello la rese esplicita dicendo che l’unico su cui io potevo esercitare un qualche potere era il cane.
Il gioco preferito mio e di Yuri era metterci sotto la cassapanca, in un punto in cui il biondo legno di cirmolo veniva illuminato dal sole del pomeriggio, poi io facevo sbucare la mano dallo spazio sotto le gambe della cassapanca e Yuri doveva prenderla. Digrignava sempre i denti e starnutiva a più non posso, cosa che mi divertiva assai.
Ricordo che un giorno che mi sgridarono duramente decisi che, se i miei genitori avessero fatto del male a Yuri – come a volte minacciavano quando faceva la pipì in casa – non avrei più parlato per lo shock (dovevo aver visto alla televisione qualcosa del genere).
Yuri fece una fine triste. Esasperati dalle continue manifestazioni di disagio canino (quando partivamo, pur rimanendo lui in compagnia della nonna, spesso alzava la gamba contro l’angolo del mio letto), all’età di dodici anni lo fecero “addormentare”. Mia mamma non ne poteva più. “La sua vita l’ha fatta” fu il commento di mio papà. A quel tempo non c’era la sensibilità verso gli animali che c’è oggi.
Io continuai a parlare.

Ritorni

Mi piace quando mi guardi con gli occhi spalancati di chi non si capacita. Sei ancora incredulo che io abbia accettato di rivederti. Sono passati sette anni. Ti ho buttato fuori casa il sette settembre del duemiladiciassette, tutti quei sette avrei dovuto giocarli al lotto, invece ho giocato la mia vita. Sapevo solo di non voler passare un minuto di più con te, con un uomo che non mi rispetta, che non conosce l’abc della comunicazione, che si considera un illuminato, che si crede l’unico in grado di guidare mentre tutto il resto del mondo è composto da deficienti. Non un minuto di più o mi sarebbe venuta l’orticaria, mi sarei ammalata, o ti avrei piantato un coltello nella pancia. Vedi, è stato meglio lasciarci, soprattutto per te. Un maschicidio era in agguato, meglio non farlo accadere, io sono contraria alla violenza. E così ti ho rimosso dalla mia vita, faticosamente, pezzo per pezzo, ricordo dopo ricordo, oggetto dopo oggetto. Tu mi hai restituito fisicamente le cose che ti avevo regalato, il cuscino ricamato per te con tanto amore, moderna Penelope tra computer, lavatrici e lezioni di tedesco. Io ho steso pesanti coltri sul male che mi hai fatto, sull’entusiasmo che mi hai rubato, sulle speranze che hai soppresso, sull’ottimismo che hai annullato, ma per fortuna ne è rimasto ancora.

Ora ti ripresenti a me in candide vesti, le guance e il capo rasato, un moderno Buddha simile a colui che mi aveva rapito quando ti conobbi. Ora però so che la tua lingua è biforcuta, la tua mente scaltra, il tuo cuore vendicativo. Non c’è posto nella mia nuova vita per te. Vado avanti per la mia strada, quale che sia.
Ti allontani a testa china, non ti vedrò mai più. E così sia.

Allitterazione, assonanza, onomatopea

ALLITTERAZIONE

Anche avendo avuto avviso anticipato, ambivo ad anteporre alcune amene attività all’assemblea amicale (ammaestramento).

 

ASSONANZA

A   A volte, la sera, la fame mi prende,

B   “Non voglio ingrassare,

A   Il mare mi attende!”

 

C   Biscotti, jogurti, cioccolatini

C   Sussurran soavi gli inviti più fini.

 

B   La voce è decisa, la sento parlare,

A   Con alto tono saccente

B   Non sente ragioni, non vuole mollare.

 

D   Mi salva una mela, succosa e croccante,

D   rossa malia sana e invitante.

 

ONOMATOPEA

Gracida nel pozzo la rana,

Lenta sale per il ramo l’iguana.

Lesta agguanta un insetto,

“Gra gra” dice dirimpetto.

“Blub blub” risponde soddisfatta

l’iguana ora distratta.

La fontana di cioccolata

C’era una volta una regina
che non aveva figli
voleva una bambina
ma si accontentava dei conigli.

Poi un giorno, un dono dei venti,
trovò tre piccoli porcellini:
erano allegri, educati e ubbidienti.

Uno correva come una lepre,
l’altro faceva le fusa come un gattino,
il terzo cinguettava con le pietre.

La regina era una strega laureata
che per i suoi porcellini voleva il meglio:
fece costruire una fontana fatata
che buttava cioccolata al loro risveglio.

18.7.2021

Commerciale e Pasticcere

Commerciale incontra Pasticcere Eataly.
Si amano e vanno a vivere assieme.
Comprano casa insieme in un paesino di provincia.
Trovano una casa vicina anche per la madre di Commerciale.
Dopo vent’anni, sono ormai solo amici.
Non si lasciano per non dare un dolore alla madre di Commerciale.
La madre muore di Covid.
Si lasciano.
La madre di Pasticcere piange.
Commerciale acquista una nuova casa in centro paese e adotta cinque gatti.
Commerciale e Pasticcere si vedono tutte le settimane.
Commerciale impara a cucire.

Maria Amalia

Mi chiamo Maria Amalia, ho  l’hobby dell’uncinetto e frequento un gruppo che si ritrova presso il centro anziani Auser del mio paese.

Ho novantaquattro anni e, siccome vivo da sola e raramente ho ospiti, una settimana sì e una no faccio la torta allo yogurt per le mie compagne di uncinetto. Mi fanno un sacco di complimenti. A volte qualcuna mi chiede di confezionarle una presina, di vendergliela: io non vendo niente, semmai regalo. Sì, perché dopo antipatiche questioni, ho deciso di non vendere più nulla. Lavoro all’uncinetto per la parrocchia. Passo il tempo e mi aiuta a concentrarmi: mi alzo alla mattina alle sei, faccio colazione con caffè e biscotti, sciacquo i piatti e preparo gli ingredienti. Una volta pesati e messi in fila, accendo il forno e comincio a mischiarli. Mi piace pensare che, mentre cucino, le mie coetanee fanno cose simili: indovino le loro case, le loro vite, i loro pensieri.

Mentre la torta cuoce, sistemo la casa. Mi muovo col deambulatore, per cui vado piano, però faccio tutto: prima il letto, matrimoniale, donatomi da mia suocera buonanima. Non l’ho mai potuto soffrire, così convoluto e pesante, in stile spagnolo, ma ai miei tempi non si faceva gli schizzinosi. Poi innaffio le piante, che mi mette di buonumore e alla mia età ci vuole: basilico e prezzemolo, li aggiungo al pasto che mi portano a mezzogiorno. Per fortuna i volontari dell’Auser che me lo consegnano sono sempre allegri. Infine la sala-cucina, dove c’è il divano su cui lavoro all’uncinetto, leggo, guardo la televisione. Entro le dieci bisogna essere presentabili e lo deve essere anche la casa, diceva mia mamma.

Quando la torta è pronta, faccio la prova stecchino, spengo il forno e socchiudo lo sportello. Il vapore profumato si spande per tutta la casa e mi ricorda mia nonna, quando andavamo a trovarla nel fine settimana e lei preparava la torta per me e mia sorella.

Non ho avuto una vita facile, ma non mi lamento, e poi sono ancora qui, mentre la maggior parte dei miei coetanei se n’è andata da un pezzo.

Amo ascoltare la storia della vita delle persone. Quando ne ho la possibilità, cerco di ascoltare bene e memorizzare, poi a casa mi faccio i miei film e a volte li scrivo pure. Da giovane ho lavorato per un giornale ed ero anche brava, avevo un discreto numero di lettori. Oggi c’è Internet, io uso WhatsApp, ma a me piace ancora leggere il quotidiano di carta. In paese lo compro a giorni alterni, in vacanza lo prendo sempre. Ero un’avida lettrice, la mia maestra diceva che avrei potuto avere un futuro come scrittrice. Purtroppo in famiglia c’era bisogno del mio stipendio, così sono andata a lavorare presto, però ho fatto le serali e mi sono diplomata alle Scuole Magistrali.

Il mio primo lavoro è stato come insegnante privata per una famiglia di agricoltori del mio paese. Avevano tre figli, tutti e tre malaticci, così li facevano istruire privatamente. Oltre a me, che insegnavo italiano, storia e geografia, c’era il maestro di matematica, testa fina e gran viaggiatore, per lui presi la mia prima cotta. Ci scambiavamo bigliettini, mi faceva molti complimenti, ero bella a quel tempo, un figurino coi miei capelli lunghi e la vita sottile.

Mi offrirono un posto presso la scuola alberghiera: davo lezioni alla sera, in cambio ricevevo vitto, alloggio e un piccolo stipendio. Fu lì che mi appassionai alla cucina. Essendo diventata buona amica di una delle aiuto-cuoche, cominciai a raccogliere ricette. Risparmiavo ogni lira perché volevo affittare una stanza per conto mio, dove poter essere indipendente e cucinare.

Ora sono vecchia e molti cibi mi disturbano, ma allora potevo mangiare di tutto e lo facevo con giusto. In albergo affinai il palato e presto seppi distinguere una frittata da un’omelette francese, un budino da una mousse au chocolat.

Quando ebbi messo da parte un gruzzolo sufficiente, aprii un catering: lavoravo giorno e notte, a volte mi aiutava mia sorella, le soddisfazioni non mancavano.

Ebbi un discreto numero di amori. Grazie al mio lavoro conoscevo molte persone. Una volta fui invitata a un ballo da un affascinante diplomatico dell’ambasciata francese per il quale avevo organizzato un banchetto. Mi assediava da settimane, ero lusingata. Quella sera non stavo nella pelle! Un’amica mi prestò un abito di quelli attillati che lasciano le spalle scoperte. Gioielli non ne avevo, ma mi sentivo una dea in seta rossa. Camerieri in livrea servirono canapè e frittelle salate di zucchine. Ballammo tutta la sera; il mio cavaliere era galante e mi copriva di attenzioni, senonché verso fine serata lo vidi sbiancare mentre gli veniva incontro una bella donna che lo abbracciò con confidenza: era la moglie, tornata dalle vacanze in anticipo!

Ci rimasi male, ma mi servì di lezione.

Finii per sposare un cuoco. Giovanni era alto e gioviale, mi faceva ridere e sapeva ballare. Ci trovavamo insieme agli altri della brigata di cucina la domenica mattina, organizzavamo pic-nic degni della Regina Elisabetta, ognuno portava qualcosa, poi si condivideva sull’erba, come in un quadro di Toulouse-Lautrec. Alla sera Giovanni ed io andavamo in una sala da ballo e danzavamo fino a cascare dal sonno.

Ogni volta che mi portava fuori, Giovanni mi sorprendeva con un dolcetto preparato apposta per me. Continuò a farlo anche da sposati, in occasione di ogni evento importante: il compleanno, la nascita della nostra prima figlia, l’atterraggio della Missione Apollo sulla Luna, che chissà poi se ci andarono davvero.

Da quando mio marito non c’è più, qualche volta gli parlo e so che mi ascolta. Se sono in difficoltà, talvolta riesce anche a mandarmi un aiuto. Recentemente cercavo un documento, era il giorno del compleanno di Giovanni, improvvisamente sento un rumore, mi volto, vedo un libro caduto dalla libreria, aperto. Lo raccolgo: era aperto al Vangelo secondo Giovanni, all’episodio della guarigione del cieco nato. Lo poso sul tavolo, in quel momento il mio sguardo si posa sul documento che cercavo da tre giorni, appoggiato sulla credenza, che ho improvvisamente “visto”, come se prima fossi stata cieca. Ho ringraziato Giovanni e ho telefonato a mia figlia.

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