Era una giornata dal cielo terso nella mia bella città d’adozione: Berlino mi stordiva già con il frastuono del traffico. Come ogni mattina mi affrettavo a raggiungere il posto di lavoro con passo incalzante: temevo il solito ritardo. Il mio sguardo si volse distrattamente oltre la vetrina di un caffè. Un giovanotto seduto su uno sgabello aveva un’aria dimessa e triste. Stavo quasi rallentando il passo con l’intento di entrare nel bar per chiedergli cosa mai potesse essergli accaduto… Ma accidenti, mi accorsi che era tardi e allora non mi fermai.
Fuori dal caffè una ragazza si toccava i lunghi capelli setosi, piangendo. Forse conosceva il giovanotto triste.
Ancora una volta fui sul punto di fermarmi per cercare di aiutarli. Ero convinta che si conoscessero e che fossero in crisi. Avrei fatto qualsiasi cosa per riavvicinarli… questo avrebbe rasserenato anche la mia giornata.
L’orologio segnava le otto e mezza! Corsi a perdifiato per evitare il semaforo rosso e arrivai in ufficio in ritardo. Se avessi raccontato al capufficio dei due ragazzi forse non si sarebbe infuriato; invece passai un brutto quarto d’ora.
Gli starnuti di Antonio
Mi chiamo Antonio. Sono single non per mia scelta. Ho raggiunto la soglia dei cinquant’anni. Sono un bell’uomo con capelli brizzolati e riccioluti.
Colleziono collari per cani di piccola taglia che raccolgo in una teca in bella vista nella sala da pranzo. Alcuni sono impreziositi con pietre e gemme luccicanti.
Ho sempre sognato un piccolo cagnolino da coccolare, ma ero un camionista e il mio lavoro non mi ha mai consentito di averne uno. Per consolarmi, nel periodo estivo aiutavo Gianni, un mio amico, nel suo negozio di toilette per cani.
Un bel giorno Gianni mi propose di entrare in società con lui. Accettai di buon grado. Ero al settimo cielo! Ero entusiasta di avere lasciato quel mostro di camion, che non faceva altro che macinare chilometri e chilometri di asfalto con me, rendendo le giornate rumorose e solitarie.
Era bello alzarsi di mattina presto per dedicarsi alle piccole cose quotidiane e poi correre dalle creaturine che mi aspettavano, perché sapevano che le avrei dispensate di coccole.
Da quando mi misi in società con Gianni, non passarono molti giorni che mi scoppiò un fortissimo raffreddore. Quanti starnuti! Non ci crederete, ma era il primo raffreddore della mia vita! Presi delle pastiglie per farmelo passare, perché mai e poi mai avrei potuto pensare di mancare un giorno dalle mie adorate bestioline. Peggioravo sempre più, finché non mi decisi di consultare un medico. Indovinate qual era la diagnosi, che per me era quasi una sentenza di morte? “Allergia al pelo del cane”!
Il rigattiere dei sogni
Raccolsi tutto il materiale con cura e lo misi in un baule, un ricordo di mia nonna. Caricai la cassettiera nell’auto e la portai da Giovannino. Sicuramente qualcuno la riempirà di sogni, sperando che non facciano la muffa.
Il giorno dopo mi presentai alla segreteria di una scuola musicale per iscrivermi a un corso di canto. Ero circondata da ventenni che mi guardavano incuriositi. Anch’io mi sentivo come loro, perché le passioni non hanno età.
Non sei fantasia
Impugni le spade nel buio della notte e con abilità intrecci affilati colpi d’acciaio, stendendo filo spinato lungo le mie spalle.
Solchi l’anima con braci incandescenti.
Subdola nemica, ti presenti senza preavviso.
Spero che te ne vada via, ospite indesiderata, invadente…
Mi arrendo a un dolore prepotente, sordo, cupo come le notti insonni che offuscano la mia mente.
Tra le coltri infuocate mi rigiro sfinita, con la speranza di assopirmi, almeno per pochi attimi cullata dalle onde del mare, sognando quella leggerezza che non mi appartiene più.
Voglio tornare alla quotidianità dimenticata.
Non pretendo di sconfiggerti, so che perderei la battaglia.
Ti subisco, ma intendo denunciarti a un mondo che rifiuta di vederti.
Per quanto tempo ancora verrai ignorata, maledetta fibromialgia?
Neve
Nevica da ore. I fiocchi volteggiando si posano sul prato e sul vialetto di casa, provati da un lungo viaggio. Il paesaggio è incantato: tutto tace, la pace mi avvolge; si ode solo il rumore dei miei stivali che sollevano la soffice neve. Divertita ne prendo una manciata e la passo sul viso come facevo da bambina, quando fingevo di truccarmi.
Anche Mel, la mia cagnolina, incuriosita dalla neve balzella qua e là come una capretta e sulle zampe le si formano piccoli ghiaccioli simili a calzini intonati col pelo nero e riccioluto. Corre veloce nonostante la neve e io fatico a tenere il suo passo… si diverte tanto!
Con gli schiamazzi lontani dei bambini la mia mente fruga nel passato e i ricordi ritornano più vivi che mai. Un sorriso si stampa sul mio volto: ero bambina e guardavo la neve dalla finestra con il nasino all’insú. Immaginavo che mi cadesse addosso; ma la finestra era chiusa. Stavo finendo i compiti, ma mi distraevo in continuazione, tanta era la voglia di raggiungere gli amici giù nel prato che stavano facendo un pupazzo di neve. Terminati i compiti, mi preparai frettolosamente.
La mamma aveva lasciato sull’uscio gli stivali di gomma neri che, ahimè, lasciavano passare il freddo, e i calzettoni che mio fratello portava per le passeggiate in campagna con il papà e, benché mi andassero larghi, li indossai volentieri. Nella tasca della giacca a vento riposi un sacchetto con bottoni colorati per decorare il pupazzo di neve.
Una volta scesa, gli amici mi accolsero tirandomi delle palle di neve che finirono puntualmente all’interno del collo della giacca a vento. Dopo la corse sfrenate sulla neve ci divertimmo lasciandoci cadere all’indietro e, assetati e incuriositi, assaggiammo la neve. Com’era buona!
Venne il momento di pensare al nome da dare al pupazzo. Subito ci trovammo d’accordo con Gelo. Sarebbe stato di buon auspicio: così avrebbe tardato a sciogliersi.
Le ore trascorrevano velocemente e il nostro Gelo prendeva forma. Quando l’avevamo ultimato eravamo saltellanti per la gioia: era bellissimo ed elegante con i miei bottoni! Quando il sole era già calato la mamma chiamò più volte dalla finestra avvisandomi che stava per scodellare la minestra. Salutai gli amici e Gelo, stanca e contenta.
Rientrando a casa rimasi con i piedi nudi sul pavimento riscaldato dai pannelli; avevo la sensazione che truppe di formiche li solleticassero tanto erano freddi, innescando una reazione di forte prurito.
A tavola, mentre divoravo la cena, raccontavo soddisfatta ai familiari del pomeriggio trascorso. Dopo, pensando al pupazzo che mi avrebbe atteso il giorno dopo per essere abbellito ancora di più, caddi un un sonno profondo.
Sognai Gelo. Era elegantissimo: indossava un frac, un cappello a cilindro e un papillon a pois rossi e bianchi e aspettava solo di essere invitato a casa di nonna Betta (la nonna di Silvia, Rita e Luigino) che ci avrebbe preparato un tè caldo con fette di pane e marmellata di fichi fatta in casa. Per concludere il pomeriggio avremmo giocato alla tombola degli animali ma, ahimè, il povero Gelo non poteva entrare in casa a farci compagnia, altrimenti avremmo assistito al suo dis-Gelo… Con coraggio riuscimmo a convincerlo a rimanere fuori e promettemmo di salutarlo dalla finestra.
Mi svegliai la mattina seguente ristorata dopo il lungo sonno e, mentre mi preparavo per recarmi a scuola, pensavo che sarebbe stato bello se nonna Betta ci avesse invitati davvero per la merenda: avremmo potuto ammirare Gelo dalla finestra tra una fetta e l’altra di pane e marmellata… Chissà, forse il sogno si sarebbe avverato.
Oggi, ritrovandomi in questa distesa di neve in compagnia di Mel, come potrei dimenticare che quel sogno si è poi avverato?
La mucca della Valle Aurina
In una malga della Valle Aurina viveva una mucca pezzata il cui manto era coperto di bellissime chiazze. Le altre mucche si complimentavano per la sua bellezza, ma Fanny – era questo il suo nome – non riusciva a vedersi e ad ammirare i disegni del suo corpo perché non aveva mai visto uno specchio.
Il giorno del suo compleanno il signor Gino, padrone della malga, decise di regalargliene uno. Finalmente Fanny poté ammirarsi e ne fu entusiasta; ma ebbe l’impressione di essere un po’ grassa. Decise così di mangiare meno erba per dimagrire, ma ogni tanto si nutriva di more e lamponi per dare più colore alle labbra. Quando pascolava portava con sé lo specchio vicino al campanaccio e spesso si allontanava per comporre un cappellino con il fieno. Dopo qualche tempo era diventata più snella, ma il padrone della malga era preoccupato perché produceva poco latte. Le chiese:
«Che ti sta succedendo, mia cara Fanny? Da quando ti ho regalato lo specchio sembri un’altra mucca. Continui a rimirarti, hai le labbra rosse, ancheggi continuamente, ma dimagrisci ogni giorno di più. Non puoi continuare a vivere così! Non vorrei sentirmi costretto a toglierti lo specchio.»
«Lasciami pascolare ancora con il mio specchio!» lo pregò Fanny. «Prometto di mangiare più erba. Ti chiedo soltanto di comprarmi un mantello di plastica trasparente per proteggere il mio manto nei giorni di pioggia.»
Gino l’accontentò e Fanny riprese subito qualche chilo.
In un’altra malga viveva Ermenegildo, un toro che non si era mai innamorato di una mucca. Ma quando da lontano vide pascolare per la prima volta la mucca Fanny non seppe più dominarsi e ruppe la staccionata che segnava il confine del suo branco, per raggiungerla. Fanny vide in quel momento il toro Ermenegildo, e anche per lei fu un colpo di fulmine!
Il toro si avvicinò alla mucca. Le loro code si intrecciarono formando un nodo tale che nessun montanaro sarebbe stato in grado di sciogliere. Coda nella coda, decisero di fuggire mescolandosi in un altro branco per non farsi riconoscere. Ermenegildo sarebbe passato inosservato, ma non si poteva dire la stessa cosa per Fanny con lo specchio, il mantello trasparente e le labbra rosse; perciò raccolsero gli orpelli in un sacchetto del supermercato abbandonato in un sentiero da un turista irriguardoso dell’ambiente. Una volta introdotti nel nuovo branco Fanny tirò fuori ancora una volta tutti gli attrezzi dal sacchetto per abbellirsi, ma Ermenegildo cercò di farle cambiare idea.
«D’altra parte non posso tener nascosti gli ornamenti, perché fanno parte di me, e tu dovresti accettarmi per quella che sono,» disse Fanny, ma Ermenegildo replicò:
«Un giorno tornerai a mostrarti agghindata così come ti ho conosciuta, ma i nostri padroni, che ora si saranno già accorti della nostra scomparsa, ci staranno già cercando, ti scoprirebbero subito con quest’aria civettuola e le altre mucche si accorgerebbero della nostra intrusione».
Infatti i padroni delle due malghe si erano accorti della scomparsa dei loro animali. Ognuno cercava il proprio capo per le montagne, finché non si inzuccarono.
«To’, che ci fai da queste parti?» chiese il padrone di Ermenegildo.
«Sto cercando una mucca che è scomparsa dal mio branco,» rispose Gino. «E tu?»
«Io cerco il mio toro che ho visto fuggire con una mucca con uno specchio e un mantello trasparente. Ormai erano lontani e andavano in direzione di Luttago.»
«Una mucca con lo specchio e il mantello trasparente? Ma è la mia mucca Fanny! Allora sono fuggiti insieme!»
Fu così che i due padroni si misero alla ricerca di Ermenegildo e Fanny.
Nel frattempo toro Ermenegildo e la mucca Fanny, dopo tanto pascolare, si ritrovarono nella deliziosa cittadina di Campo Tures e ne rimasero subito affascinati.
Vicino al castello c’era una semplice casetta di legno con piante e fiori coloratissimi e tendine di pizzo che riproducevano lo stesso paesaggio che si estendeva sullo sfondo; ma più della casetta erano interessati all’adiacente stalla. Quando seppero che era in vendita si precipitarono all’agenzia immobiliare per stipulare il contratto di compravendita.
I risparmi dei due innamorati non erano molto cospicui, ma bastavano per accordarsi con la gentile impiegata. Lasciarono una caparra per bloccare la stalla e accettarono volentieri di lavorare per un’amica dell’impiegata che offriva loro un lavoro molto faticoso nei campi, ma ben retribuito. Fanny inoltre produceva tanto latte da sfamare tutti i bambini di Campo Tures e della Valle Aurina.
Il toro Ermenegildo e la mucca Fanny coronarono così il sogno della loro vita… e vissero insieme felici, stanchi ma contenti, circondati da tanti teneri vitellini che pascolavano vicino alla loro dimora.
Nordicando
Rose
Rose
Rose
di cui non sento la fragranza,
mi circondano come cornice.
Procedo incerta.
Luci abbaglianti di giorno
mi accecano
come fosse notte.
Dal cortile voci infantili mi trafiggono
con le loro lame.
Quando la mia anima e il mio corpo
danzeranno in armonia?
Alla mamma
In un angolo della cucina, mamma,
Ti rivedo, mentre lavi le stoviglie di una vita
E contenute lacrime scendono sulle tue dita.
Perché la tua anima dolce è
Così ferita?
Sono io la ragione dei tuoi affanni?
O ti inquieta l’avanzar degli anni?
Sempre ho gridato che son felice,
Felice d’esser nata…
Io sono così come sono
E per questa sofferenza, mi spiace,
Son qui a chiederti perdono.
Ora nel mio nido, con una creatura in grembo,
Sento più che mai lo scandir del tempo.
A me tanto caro è il ricordo del tuo amore
E dei tuoi cibi, misti e antichi,
tanto saporiti,
Che ancora inebriano i miei sensi.
Solitudine
Non c’è più una coltre che mi riscaldi,
Non c’è più la tempra che io ricordi.
L’assenza di parole costruisce il muro dell’imperturbabilità… e il mio cuore piange e piange.