Tutti gli articoli di Gabriella Pagani

Il giardino dei ricordi

Stamattina Giuditta è più mesta del solito. Non è andata, come ogni giovedì, al bar per la colazione con le sue amiche. È triste e malinconica, guarda il giardino della sua casa avvolto da una nebbiolina umida e i ricordi arrivano cattivissimi e implacabili a marcare la differenza tra ieri e oggi.
Si rivede giovane sposa, attraversare la porta d’ingresso di casa tra le braccia del suo Guglielmo, come tradizione vuole, e suggellare il passaggio con un bacio appassionato.
Quella casa così tanto desiderata ma fonte di molti pensieri, preoccupazioni e con un mutuo trentennale da pagare.
Lei e il suo Elmo, così lo chiamava, si sentivano invincibili insieme e pronti ad affrontare qualsiasi imprevisto.
Rivede il loro giardino, oggi verde, colmo di ortensie rose e gelsomini, incolto e secco e il loro orto, allora pieno di sterpaglie, dissodati, seminati e coltivati con tanto amore per la gioia dei loro figli.
Ricorda ancora le voci dei piccoletti: «Papà, possiamo assaggiare i pisellini?»
«Posso strappare le carote?»
«Ma quando possiamo mangiare le more?»
Le stagioni si susseguono e l’orto e il giardino ne scandiscono il tempo.
È Pasqua! Lei ha preparato gli ovetti di cioccolato avvolti nella carta crespa e li ha nascosti tra le siepi delle azalee, sull’albicocco, in mezzo alle ortensie e tra i rami del gelsomino.
«Si parte per la caccia al tesoro. Siete pronti? Via!»
Otto bambini tra figli e nipoti corrono per il giardino alla ricerca degli ovetti.
«Acqua… acqua… acqua… fuochino… fuochino… fuoco!»
Ecco il primo è stato trovato e via via si continua fino a trovarli tutti.
Lei ha voluto ripristinare la caccia al tesoro degli ovetti perché era una tradizione della sua famiglia di origine.
Il nonno materno nascondeva nell’orto le uova sode e poi invitava i piccoli di casa a trovarle. Un nonno avanti, moolto più avanti della Ferrero che decenni dopo ha portato la caccia agli ovetti in televisione.
«Mamma, ci hanno copiato!» dicono i figli ormai divenuti adulti.
Adesso il giardino nasconderà gli ovetti per i nipotini.
Li vede correre coi piedini nudi sull’erba tagliata dal suo Guglielmo e pensa che é stata molto felice con lui anche se il giorno del matrimonio lei è arrivata prima di lui in chiesa.
Ebbene sì! Si è fatto aspettare: già da allora avrebbe dovuto capire come sarebbero andate le cose . Anche stavolta è arrivata prima, ma oggi non è impaziente, lo aspetterà con trepidazione e quando arriverà si abbracceranno nuovamente, vestiti di luce.

Mi manca l’aria

Ho prenotato l’esame da quindici giorni e il poco tempo che mi rimane prima di avventurarmici mi rende preoccupata e nervosa. Non so se sarò pronta ad affrontarlo.
Devo sottopormi a una risonanza magnetica e per me, così claustrofobica tanto da non prendere gli ascensori dove é possibile salire per le scale, è fonte di notevole disagio, mi manca l’aria.
Vado in farmacia.
«Dottore, devo sottopormi a una risonanza magnetica, ma questa volta non so se riuscirò a stare tranquilla e ferma per tutto il tempo necessario. Mi potrebbe dare qualcosa per calmarmi?»
Il farmacista mi guarda e poi dal suo retrobottega arriva con un flaconcino di un liquido a base di valeriana, biancospino e passiflora.
«Lo facciamo noi» mi dice «ne prenda 20 gocce un’ora prima della risonanza».
A casa leggo le indicazioni che ne consigliano trenta e decido che ne prenderò venticinque. Non si sa mai: questa volta ho proprio bisogno di un aiuto in più.
La mattina dell’esame arrivo al centro medico in anticipo, cammino nervosamente avanti e indietro nel grande atrio prima di pagare il ticket poi finalmente raggiungo la sala d’aspetto del reparto di radiologia. Zeppa. Più di otto persone stanno aspettando e la mia ansia aumenta, non ho idea se le gocce che ho preso faranno ancora effetto fra tanto tempo.
Dopo un’ora e mezza arriva il mio turno. Entro nello spogliatoio e già mi manca l’aria. Non so se questa volta ce la farò.
Mi spoglio, indosso il camice e mi presento al tecnico che mi ha appena chiamato.
«Si sdrai con la testa verso il tunnel, tenga le braccia lungo il corpo e stia ferma, questo è il campanello se dovesse avere bisogno», puntualizza.
Mi sdraio, sento il rullo che piano piano entra nel tunnel, chiudo gli occhi. Mi manca l’aria.
Mi dico che devo stare tranquilla altrimenti è tempo perso e tutto è da rifare.
Allora, come ogni volta, inizio a recitare il rosario nella mia mente, anche con le intenzioni per ogni decina e premo leggermente le dita sul lettino per contare le ave marie.
Dieci per i miei figli.
Dieci per i miei nipotini.
Dieci per mio marito perché ne ha bisogno da solo.
Mi manca l’aria. Prendo dei piccoli respiri con il naso, non profondi per non muovermi troppo.
Dieci per la mia famiglia di origine.
Dieci alla fine per me.
«Signora, abbiamo finito», dice il tecnico radiologo.
Il rullo piano piano mi riporta fuori da tunnel. Faccio un respiro profondissimo che muove tutto il mio corpo: anche stavolta ce l’ho fatta.
L’aria… invisibile e apparentemente inesistente eppure così necessaria, adesso non mi manca più.

Aries

Piccola scintilla
esplosa alla luce
di una nuova primavera
ardi di energia
il mondo
e infiammi
col tuo fuoco
i nostri cuori.
Segno caliente
tramandato
da generazioni
perpetui nel tempo
l’abbraccio infuocato
della vita.

Estate 1960

La scuola è finita da più di un mese,le giornate sono lunghe e il tempo interminabile.
Dopo un torneo di carte,giocato sotto il porticato della cascina,Beppe,Giancarlo,Piergiorgio e Fausto decidono di andare a fare il bagno.

Al mare ? Nooo
Le vacanze in riviera sono un miraggio,le loro famiglie non se le possono permettere.
I quattro ragazzi si preparano: oggi andranno all’Addetta a fare il bagno.
Niente costumi,solo un paio di mutande di riserva per ognuno di loro. In più a Beppe e Giancarlo le madri impongono di portare le sorelline.

Sparpagliati procedono verso la Cerca,strada battutissima da automobili e camion.
“Uno,due,tre… non arriva nessuno,attraversiamo!” dice Giancarlo.
La strada, al di là della Cerca, diventa un sentiero,piante di sambuco e rovi a destra e a sinistra. Le bambine raccolgono denti di leone e si divertono, soffiando ,a farli volare nell’aria.

Pochi passi ancora ed ecco,la loro spiaggia. Quattro gradoni di cemento da cui a cascatelle scende l’Addetta, fiume secondario figlio della più importante Adda.
I ragazzi di corsa raggiungono l’acqua e iniziano a spruzzarsi a vicenda.Gioia pura, pomeriggio di felicità.
Inzuppati e felici si tuffano vestiti nelle acque del fiume, non interessa se quando torneranno a casa li aspetterà una bella strigliata per essere completamente zuppi.

A loro non importa, alla fine è solo acqua.

Angelina

“Angelina,il carro è qui”.
“Arrivo pa’”.

Sono le quattro del mattino e il carro passa dalle cascine per raccogliere le donne e le ragazze che vanno alla monda del riso nei paesi vicini.
Suo padre, Pa’ per i figli, non ha voluto che lei andasse nelle risaie in Lomellina perché avrebbe dovuto stare lontano dalla famiglia e lui voleva proteggere la sua figlia più piccola, così esuberante e allegra, dalle insidie della lontananza da casa.

La ragazza esce portando con sé il sacchetto con un pezzo di pane e cinque noci, il suo pranzo del giorno, lo appendera’ al ramo di un albero, sulla riva.
Sale sul carro sedendosi al limitare di esso,con le gambe a penzoloni perché da lì vede bene il sorgere del sole e le campagne circostanti, in grembo ha un fazzoletto e il suo cappello di paglia.

Sul carro salgono un po’ alla volta tante donne:alcune sono avanti con l’età, la maggior parte giovani, solo poche giovanissime.
Lei è la più giovane del gruppo e ha voluto fare la mondina per aiutare la sua famiglia:cinque figli(due maschi e tre femmine)e il papà, la mamma non c’è più. I due figli maschi sono in Africa, per la guerra d’Etiopia, le sue sorelle maggiori si occupano della casa.

Angelina è orgogliosa di aiutare la famiglia con il suo lavoro, la fa sentire grande:alla fine della monda riceverà una paga e tanti chili di riso quante giornate di lavoro avrà fatto così in famiglia avranno un po’ di cibo in più perché di solito ce n’è poco.

Verso le cinque la ragazza arriva alla risaia e si dispone accanto alle altre donne procedendo insieme nell’acqua per estirpare le erbacce dalla coltivazione del riso.
Ore e ore sotto il sole, con i piedi a mollo e le bisce d’acqua che girano attorno, i tafani e le zanzare che pungono le gambe.

Dopo qualche ora qualcuna alza un braccio: ha sete.Ecco che allora arriva il campe’ con un secchio d’acqua e un mestolo, da lì bevono tutte.
Il padrone della risaia intanto sta sulla riva e incita le donne a camminare più in fretta e a cantare perché così non hanno tempo di chiacchierare e lavorano assiduamente.

La monda va avanti da una risaia all’altra fino a mezzogiorno quando tutte le mondine si siedono sulla riva e mangiano il loro pranzo in fretta quindi ricominciano la pulitura delle erbacce fino al pomeriggio.
Man mano che le ore passano la fatica si fa sentire, il sudore scende sempre più copioso dalla fronte e lungo la schiena, la voce diventa rauca a furia di cantare.
Verso sera il lavoro in risaia finisce e a passo lento si ritorna al carro che ripercorre al contrario il tragitto fatto all’alba, una alla volta le mondine ritornano nelle loro case.

Da bambina chiedevo spesso ad Angelina di raccontarmi le storie di quando era una mondina allora il suo viso si illuminava e i suoi occhi erano più brillanti del solito.
Nei suoi racconti non metteva l’accento sulla fatica, il dolore, la stanchezza,solo sulla gioia delle amiche trovate, dei canti e della giovinezza.
Diceva sempre che a lei era piaciuto fare la mondina perché il contatto con la terra la rendeva felice,perché aveva aiutato la sua famiglia e perché col suo cappello di paglia si sentiva bellissima.

Angelina è mia madre e io sono come sempre fiera di lei.

Mimose…perché?

La prima volta che un uomo mi ha regalato un mazzolino di mimose recise non ho reagito molto bene,anzi!
Lui era il sindaco del mio paese che si spostava nelle scuole per omaggiare le donne che ci lavoravano.

-Invece delle mimose ci regali un asilo nuovo per i nostri figli che adesso si trovano in un luogo vecchio e pericolosissimo- gli dissi.

Convengo,a distanza di anni,che l’affermazione non è stata accogliente nei suoi confronti,ma allora ero una mamma molto indignata e preoccupata per la sua piccola bambina.
Oggi che non lo sono più continuo a non amare i fiori recisi perché sono già morti e le mimose lo sono particolarmente in quanto il loro profumo e la loro bellezza appassiscono drammaticamente in fretta:il nove marzo sono ormai piccole biglie rinsecchite e puzzolenti.

Mimose. Per me metafora del valore riconosciuto alle donne nella società:un giorno di festa, allegria,turgore e poi gettate in un angolino.
Perché quindi caro marito, collega o uomo qualsiasi invece di regalarmi mimose non mi porti,magari,piantine di lavanda dagli inebrianti e prorompenti fiori lilla che durano nel tempo e profumano di più?

Perché non riconosci,anche con la scelta di un fiore,che la mia presenza nella tua vita non è effimera ma fa la differenza e che senza di me saresti in difficoltà?
Ecco adesso sai come la penso sulle mimose.

Se però proprio vuoi regalarmene una per il suo colore giallo squillante e allegro…che sia almeno viva .
Buon otto marzo a tutti.

Il caffè delle otto

Annuso

a occhi chiusi

l’avvolgente profumo

che invade la casa

e,come un pifferaio,

mi porta

verso la cucina.

Sorseggio

a occhi chiusi

il mio seducente elisir mattutino.

Per un po’

non parlo.

Mi penso in Brasile

tra piantagioni

grondanti chicchi rossastri.

Felice.

Apro gli occhi

e sono già sul posto di lavoro.

Peccato!

Caffè…consolazione quotidiana

P.S.

Stamattina,

passando la scopa per raccogliere i piumini di polvere,

ho trovato accanto al mio letto

un elastico giallo,secco, a forma di cuore,

un piccolo cuore.

Mi fa piacere pensare che sia

la tua risposta per me.

Mi sentirò meno sola.

Grazie,ti voglio bene anch’io.

Gabriella

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