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La ciminiera

Dall’alto dei suoi centodieci metri la ciminiera svettava possente sulla periferia degradata, all’estremità del Paese.  La sua lunga ombra mobile e cupa, sovrastando i quattro vecchi popolati caseggiati, transitava sui vetri delle finestre delle abitazioni. Una torre maledetta di forma circolare, in cemento armato e mattoni rossi, simile ad un ciclopico sigaro che eruttava incessantemente fumo velenoso. Inquinandoci, intossicandoci ed indebolendoci.  Eppure, come tutti gli abitanti del povero quartiere operaio in cui vivevamo, anch’io coltivavo l’illusoria speranza di poterla scalare un giorno, prima di chiunque altro, fino ad arrivare alla bocca del suo camino…

L’insediamento industriale, posto ai suoi piedi, imponente e prestigioso, impegnando una forza lavoro di seimila unità, produceva molte nuovissime fibre tessili grazie alle eccellenti scoperte del suo Laboratorio di Ricerche, situato all’ interno. Anche mio padre, Poliziotto di Stabilimento – assegnato a estenuanti turni di lavoro per il controllo del chilometrico perimetro esterno -, vi aveva prestato servizio per quarant’anni. Inevitabilmente, sputando sangue, sudore, imprecazioni e rimettendoci la salute.

L’Industria accanto alla quale sono nata e cresciuta, sorta a fine anni ’20, negli anni 60 raggiunse il suo massimo splendore. Dal 1970 visse un lento declino, dovuto ad una profonda crisi del settore e nel 1982 cessò  ogni produzione. La malferma ciminiera, con altre sorelle minori, ora domina su quel che resta dell’immensa Fabbrica abbandonata, ormai trasformata in affollato sito per spacciatori, discarica abusiva e rifugio provvidenziale per senzatetto. Salita purtroppo agli onori (o, meglio, “ai disonori”) della cronaca nazionale per il degrado, lo spaccio, le sparatorie e le guerre tra clan rivali, – che vi hanno stabilito le loro fortezze militari -, é stata recentemente denominata  “Gomorrakech”.

Se oggi accarezzo l’idea di scrivere, lo devo al dispiacere vissuto davanti al frantumarsi di “quel” mio sogno di bambina, quando ieri due giovani “urban climber” italiani si sono avventurati per la prima volta nell’impresa di arrampicarsi sulla monumentale torre, sino a conquistarne la sommità. Provocando una scarica di pura adrelina nei presenti e filmando ogni loro passo, gli intrepidi scalatori hanno portato a compimento la spericolata iniziativa senza protezioni, senza autorizzazioni e, perfino, senza avvisarmi …

 

17 febbraio 2017

Il Capo

“Buongiorno, posso esserle utile?” “Buongiorno signora. Vorrei parlare con il Dott. Villa, se è disponibile. Me lo può passare per favore?” La voce dell’uomo in linea non è giovanile, ma interessante e mi piace: tradisce un bell’accento partenopeo.

“Chi devo dire?” “Mi chiamo Ciro, lui non mi conosce, però dispongo di questo numero di telefono ed ho necessità di parlargli personalmente. Può riferirgli che lo sto chiamando da Napoli?” “Per una pratica di lavoro?” “No signora mia, tutt’altro! Si tratta di una sorpresa che non si aspetta.” “Rimanga in attesa.” “Grazie.”

Mi collego con l’interno del Capo e chiedo se intende rispondere alla chiamata. “Ciro chi? Non ha un cognome?”  il tono è severo.   “Non lo ha voluto dire. E’ in possesso del mio numero diretto eppure sostiene di voler parlare solo con lei. Non vi conoscete; credo si tratti davvero di una sorpresa.”  “Come le è sembrato? Non sarà uno che vuole solo farmi perdere del tempo, vero?” ancora burbero. “Non credo. E’ un signore napoletano, educato e gentile.”  “D’accordo, me lo passi, grazie. Sentiamo un po’ cosa ha da dirmi.”  

Memore di passate esilaranti esperienze, per bizzarre sorprese messe in atto da colleghi burloni di altri uffici, chiedo ai miei compagni se sanno qualcosa di questa strana chiamata. ”Davvero misterioso questo fatto – dice Paolo offrendomi un bellissimo sorriso malizioso -. Cos’ha combinato signora Elvira? Questo tipo l’ha contattata e poi pretende di parlare con il Capo. Vorrei capire.” Mimma interviene ridendo e puntandomi scherzosamente il dito indice: ”Elvi, ricordami quando è stata l’ultima volta che ti trovavi a Napoli.”

“Oh, ma allora sospettate di me! A Napoli ci sono andata un secolo fa. Non c’è il mio zampino in questa storia e poi sapete bene che con il nostro Capo non si può scherzare. Non ci resta che aspett…” interrompo la frase perché dall’Ufficio confinante giunge una sonora risata. Ci osserviamo con incredulità. Paolo, saggiamente, si rende portavoce di un pensiero che ci accomuna: “Ecco la vera sorpresa! Dopo tanti anni che lavoriamo tutti insieme, credo sia la prima volta che sentiamo il Grande Capo ridere a cuor leggero.”

Un quarto d’ora dopo il Dr. Villa esce e viene verso noi scuotendo la testa. Ho l’impressione che  sotto gli abbondanti, curatissimi, baffi bianchi stia trattenendo una risatina. Sembra che la telefonata lo abbia molto colpito. Noi tre stiamo letteralmente morendo dal desiderio di sapere qual’é la notizia. Rispettosamente – dal momento che lo sappiamo uomo serio, pieno di riserbo – ci limitiamo a lanciargli veloci sguardi interrogativi.

“Questa ve la devo proprio raccontare” dice.  “Finalmente!” penso e mi scappa un ampio sospiro di sollievo.  Paolo aggiunge: “Era ora, Capo!” intanto mi lancia uno sguardo aggressivo.

“Ricordate, vero, che in occasione del terremoto In Umbria e nelle Marche avevamo aderito ad una raccolta a favore dei sinistrati?  “Si riferisce al terremoto di due anni fa?” chiedo con stupore.  “Brava!, proprio quello avvenuto nel settembre 1997.”  “E allora?” lo sollecita Paolo “l’impaziente”.

Di comune accordo avevamo provveduto a donare nuovi capi di abbigliamento invernale” si  avvicina alla finestra che affaccia su Piazza Duomo e getta una occhiata fugace al magnifico panorama.  “In quella occasione, avevo regalato un loden verde da uomo della mia taglia. Nella tasca interna avevo pure infilato un biglietto pressappoco scritto così ’Se hai bisogno di qualcos’altro, posso aiutarti. Telefona a questo numero – e ho riportato quello di Elvira – ti risponderà la mia segretaria.’  Naturalmente ho anche aggiunto la data ed i miei dati.”  Poi, rivolto alla sottoscritta: ”Signora Elvira, mi dispiace non averla avvertita a suo tempo.”  Accetto volentieri le scuse. In cuor mio gli sono davvero grata per aver risolto il rebus.

Mentre pendiamo dalle sue labbra lui tace, quasi a volerci tenere sulle spine. Una pausa insopportabile per Paolo che, sbuffando, chiede: “Possiamo sapere cosa c’entra il tizio di Napoli?” “Il signor Ciro di Napoli é un medico pediatra in pensione. Ieri al mercato rionale di Fuorigrotta ha acquistato un loden verde, ancora nella confezione originale, pagandolo   ottantacinquemila lire. In serata, mentre se lo riprovava, nella tasca interna ha rinvenuto il mio messaggio di due anni fa. Incuriosito, ha deciso di contattarmi. Voleva capacitarsi della ragione di quella mia nota scritta: non riusciva proprio a comprenderla. Credetemi, non è stato facile per me ricordare e ancor meno scegliere di non mentirgli. Temevo che, saputa la verità, si sarebbe agitato reagendo bruscamente.”

Il Capo inserisce un’altra pausa.  Di nuovo è Paolo a sollecitarlo: “Invece?” “Invece, scoppiando a ridere mi ha detto:  “Dotto’, aggio pigliato nà putente ‘mbruglià.  A mamma d’e fesse è sempre prena..” Nonostante il mio accento milanese, spero proprio di averlo pronunciato abbastanza bene. “Non ho parole, solo qualche parolaccia” commenta Paolo battendo con forza un pugno  sul ripiano della scrivania e facendo sobbalzare il portapenne. Mimma, la sola fra noi di origini meridionali, è ammutolita. Non alza più lo sguardo e con eccessivo vigore riprende a digitare sulla tastiera del PC, quasi a volerla disintegrare.

Sono troppo annichilita per esprimere anche un solo commento, per questo chiedo: “Dottore, cosa ha in mente di fare adesso?” “Semplice, quello che ho appena fatto” risponde elargendoci un paterno sorriso amichevole: “Ho invitato il signor Ciro a venirci a trovare. Ha accettato di buon grado mettendo in chiaro, con insistenza, che rifiuterà qualsiasi rimborso per il disturbo, il viaggio o per il suo bel loden.  Un gran signore questo medico napoletano! Vi terrò informati. Buon lavoro.”

 Settembre 1999

Paolo

Ieri il nostro collega Paolo non si è fatto vedere né sentire per tutta la giornata, mancando all’appuntamento delle ore nove con un cliente di tutto riguardo. Mentre il Dirigente  andava minacciando di punirlo anche per mancanze non commesse, Mimma ed io siamo entrate in modalità “fibrillazione”.  Mai era accaduto prima che il Responsabile, persona signorile, seria e comprensiva, si indignasse al punto da snocciolare improperi accompagnati da un linguaggio gestuale così volgare.

Assente ingiustificato, ma perdonabilissimo, Paolo era rimasto coinvolto in un evento di quelli indelebili; memorabile al punto che oggi i quotidiani ne forniscono varie versioni.  Partito da Piazza della Repubblica a bordo della sua amatissima Vespa, si trovava a seguire un’autobetoniera calcestruzzo nel traffico caotico di Via Appiani. Per evitare di investire un passante distratto e frettoloso che gli si era parato davanti, l’autista del pesante automezzo è stato costretto ad una rapidissima frenata.

Ridotta bruscamente la velocità, il contraccolpo ha favorito la fuoriuscita di materiale edile dalla bocca della betoniera stessa. Il nostro giovane collega, impossibilitato a rallentare, si è ritrovato all’istante ricoperto da ghiaia, sabbia e cemento, correndo così il rischio di finire murato vivo, insieme al suo mezzo.  Non osiamo confessarlo apertamente ma ci si legge in volto che anche noi due, come tutti gli altri colleghi, – compreso il nostro Dirigente -, volentieri avremmo presenziato allo spettacolo offerto dal suo “effetto statua”.

Naturalmente ci auguriamo possa venire dimesso presto dalla clinica in cui si trova ricoverato, per una grave irritazione all’apparato respiratorio. E’ un ragazzo sano, giovane, brillante e sportivo: tornerà senz’altro in buona salute.  Insieme ad altri, domattina ci sarò anch’io a fargli visita. Per oggi, con Mimma, mi accontento di osservare divertita, commentandole,  le immagini dei giornali che lo immortalano.

 

13 Aprile 1988

Anneke

Per incrementare l’insufficiente organico del nostro ufficio, oberato di lavoro, lo scorso marzo è stata assunta Anneke, una nuova impiegata di livello: italiana, ma dall’identità e dall’accento stranieri. Una signora poco più che quarantenne, disinvolta, elegante, senza figli, che proviene da una società concorrente ed è esperta del nostro settore. Dotata di un notevole “sens of humor” e di autocritica, ci ha  confessato che, avendo un debole per lo “shopping”, ha accettato al volo la ricca retribuzione prospettatale.

Mimma ed io, sin dai primi giorni – ma soprattutto ora, in assenza di Paolo, ancora ricoverato – , abbiamo constatato con sollievo che è molto collaborativa, intraprendente e in grado di gestirsi in autonomia. Abbiamo anche notato, però, che le difetta un pochino la discrezione. Vista la distanza minima che separa le nostre scrivanie, a noi piacerebbe che  usasse un tono di voce meno impostato e più basso, almeno nel corso delle conversazioni private, senza “costringersi”, sempre, a sentire tutto.

Sappiamo, per esempio, che la sua più grande passione è la fotografia ed essendo “accreditata” presso le Case automobilistiche assiste spesso alle gare, nel corso delle   quali si  diverte a “sparare foto” a profusione anche a piloti famosi, suoi amici. Le foto le vengono pagate profumatamente se pubblicate da patinate riviste specializzate.

Purtroppo domenica, durante una gara, ha subito il furto di tutte le sue costosissime attrezzature fotografiche. Oggi, arrivata in forte ritardo e di cattivo umore, ha subito chiarito quanto fosse urgente ed indispensabile acquistarne di nuove. Contattata la Banca ha chiesto un prestito con accensione di un’ulteriore “ipoteca sulla casa”, ma il  Direttore  glielo ha negato.  All’irremovibile bancario risultava, infatti, una “seconda” ipoteca sull’immobile per 42 milioni di lire, consegnati al consorte nel gennaio scorso. Difficile per lui credere che la signora, cointestataria del conto stesso, non ne fosse a conoscenza.

A fine telefonata l’abbiamo sentita inveire, prevalentemente  in tedesco, nei confronti di sé stessa e del marito sleale.  Accortasi che la stavamo osservando ci ha rivolto un paio di smorfie tristi che non assomigliavano affatto a due sorrisi rassicuranti. Poi si è messa a sfogliare freneticamente la voluminosissima agenda personale da cui – a intermittenza – fuoriusciva una cascata di fogli, negativi di foto, biglietti da visita e molto altro.  Evitando di incontrare i nostri sguardi, ci ha subito palesato l’inopportunità di avvicinarci ad aiutarla.

“Faccio prima a contattare la sua Ditta per chiedere il numero dell’Hotel di Jaipur dove pernotta” ha detto tra sè e sè a voce alta. Da lei avevamo saputo che il marito, non facilmente rintracciabile, le telefonava solo se poteva: cioé assai sporadicamente da quando, per lavoro, si trovava in India.

Noi due, senza farci scorgere, ci limitavamo a scambiarci silenziose occhiate interrogative. Sembrava fossimo sincronizzate su un’identica, temibile, domanda: “Adesso cos’altro può succedere?” Poi, quel cos’altro è realmente accaduto.

La centralista della Ditta del consorte l’ha informata che a marzo erano state accettate le dimissioni presentate dal marito, direttamente da Jaipur e a mezzo telex: inutile dunque fornirle il numero di quell’Hotel dove l’uomo non soggiornava più. Rimasta senza parole, Anneke si è lasciata andare ad un pianto isterico. Utilizzando la cornetta del telefono ha pensato bene di martellare rabbiosamente il ripiano della scrivania, provocando un terribile assordante frastuono, a cui hanno poi fatto seguito urla e frasi incomprensibili.

Noi impotenti, sconcertate e con la salivazione azzerata, non sapevamo quali pesci pigliare. Fortunatamente il Responsabile, uscito dal suo ufficio confinante il nostro, è prontamente intervenuto invitandola, con estrema cortesia, a ricomporsi. Dopo averci chiesto di prenotare urgentemente un taxi, l’ha accompagnata nel viaggio di rientro a casa.

A causa di quell’esplosione di rabbia molti colleghi, allibiti ed incuriositi, sono venuti a informarsi di quanto avvenuto. Come noi, si sono augurati di cuore che la signora possa presto riprendersi e tornare a sorridere alla vita. Al momento non è dato sapere che ne sarà del suo futuro personale; ma per quanto attiene l’aspetto professionale, purtroppo, la Direzione non le consentirà di rientrare. La certezza ci è giunta nel pomeriggio da Giuliana, dell’Uff. del Personale. A seguito di una veloce riunione di emergenza, è stato infatti stabilito di “liquidarla” con un congruo assegno di “buona uscita”.

Mimma ed io, tristi e perplesse, non potevamo certamente sospettare che sulla vita matrimoniale della collega stesse per infuriare una battaglia di tale gravità. Stasera, ancora incredule e scosse, cercando di raccapezzarci, ci siamo tenute compagnia al telefono per oltre un’ora. Abbiamo compreso bene la portata del doloroso tsunami  che ha sconvolto Anneke e per colpa del quale sarà costretta a rivedere ed aggiornare i capitoli della propria esistenza.  Ma non abbiamo affatto trascurato di esternare qualche legittima lamentela per l’eccessivo carico di lavoro che già da domani tornerà a (s)travolgerci.

Prima di augurarmi la buonanotte, Mimma ha detto: ”Elvi, tu che sei capace di farlo, perché non provi a “buttare giù” qualche riga e racconti questa indescrivibile giornata?” Indescrivibile per chi? Non per me che, nel cuore di una notte deprivata del sonno, ci ho provato. L’ho dovuto fare per riequilibrare il mio sensibile stato d’animo, riuscendo così ad  esorcizzare l’amarezza ed il turbamento di questo difficile giorno, troppo denso di emozioni.

 

27 Aprile 1988

Parole e parolacce

“Nonna, non devi spiare!” La mia nipotina arraffato il suo quadernone “Sì-Girl”, dalla copertina tempestata di cuoricini e cuoricioni, lo richiude precipitosamente. Mi rimprovera con uno sguardo furbetto stringendolo forte al seno, quasi volesse difenderlo da un temibile nemico. “Amore, sai bene che non mi permetterei mai di spiare quello che scrivi. Ricordati sempre però di mettere la lettera “acca” nelle paroline “che, chi e perché”. Ok? Ti andrebbe almeno di dirmi se si tratta di una storia inventata, un diario o un disegno?”

Mi sorride grata, riposiziona il quaderno sul tavolo e con una smorfia biricchina annuncia: “Nonna, sono molto indubbiata. Da grande vorrei fare la giornalista, ma non proprio quella che scrive.” “Quale allora?” “Nonna quella che inquadrano in TV e che fa le interviste ai cantanti.” “Tu sei dubbiosa, non indubbiata. Se ami scrivere devi farlo e se diventerai una giornalista ne sarò felicissima.” “Nonna prima voglio raccontare la mia vita: ho già fatto l’intro” “Cioè?” “Ma nonna, non lo sai? E’ l’incipit di ogni racconto.” Per fortuna conosco quest’altra parola, ma credo “intro” voglia dire “dentro”, non “inizio.”

“Tu non sai neppure cosa vuol dire input, vero, nonna?” il tono della sua voce suona beffardo: “Patatona, non occorre tu faccia la saputella con la nonna. Ok?” Sbuffa, spalanca gli occhi e, come al solito, sapendo che è fin troppo semplice battermi su questo terreno, mi attacca impietosamente: ”Sei giurassica. Giurassicaaa. Ti spaventi davanti alle funzioni del cellulare, non conosci le parole dell’informatica e dei social. Ti devo anche aiutare con Skype e non sai cosa è lo “store” dei giochi elettronici. Nonna è vero: tu ti spaventi. Ce lo dici sempre.”

Caspita! Alzo le mani in segno di resa. Lei, imperterrita prosegue affondando il colpo: “Ieri sera tu non hai voluto vedere con noi The next level di Jumanji perché non ci avresti capito un bel niente. Un bel nienteee” Con quella sua aria astuta scoppia in una  risata canzonatoria.  “Tesoro sai bene che non comprendo il fantastico mondo dei vostri video giochi.  Non credo esista la possibilità di finire all’interno di un gioco elettronico. Perché andare incontro a spaventose avventure rischiando di venire eliminata? Si  deve lottare contro orribili mostri e affrontare mille tranelli per sopravvivere e riuscire a salvarsi. Per me è più affascinante la vita reale, e lo sai.”

Ciondola il capo, mi osserva a lungo in silenzio e sospira rassegnata. E’ una lottatrice per natura e so che non ha perduto la speranza di convertirmi, facendomi entrare “intro” il mondo immaginario che le appartiene. Anche per questo continuiamo ad adorarci: è fiera di me tanto quanto io mi dichiaro orgogliosa di lei. E’ bello constatare che crescendo, – al di là di qualche apprezzabile, delizioso, strafalcione – ha acquisito e sviluppato un’ottima capacità di apprendimento ed una sorprendente proprietà di linguaggio.

“Nonna, se tu vuoi, facciamo quel gioco delle parole che ci piace. Quello nuovo che dura tanto, dove scriviamo tutte le parole che vogliamo, anche i verbi, le città, i nomi propri, i numeri, che però devono cominciare con la stessa consonante o vocale”. Senza attendere una risposta, dando per scontato che io sia d’accordo, accantona il quadernone, si alza. Invita il fratello – impegnato a smanettare sul cellulare – a schiodarsi dal divano e a raggiungerci.

Lui accetta volentieri di partecipare, si avvicina e mi schiocca un affettuoso bacio sulla guancia.  Un bacio che profuma di tradimento perché è certo di avermi in pugno. Sa che amo cimentarmi in sfide stimolanti, che accolgo favorevolmente ogni proposta di gioco che non sia elettronico. Sa pure che per renderli felici mi piace fingere di perdere come una “schiappa”.

“Decido io con quale lettera dobbiamo cominciare. Poi tocca a lui e tu nonna per ultima. Ma tu devi anche darci un minuto in più perché noi siamo piccoli e non sappiamo tutte le tue parole”. Simpatica la nipotina, da vera leonessa – nata in agosto mostra gli artigli e sa farsi valere – è la sola in grado di comandare mettendomi a tacere.  Con i bicchieri colmi di the freddo, biscotti a volontà al centro del tavolo, ci scegliamo le penne biro preferite, fogli grandi a righe di cui sono sempre ben fornita, e lei dà il via: “Scelgo la lettera ESSE come sapone. Fai partire il tempo nonna che noi incominciamo prima.”

Li so entrambi capaci di applicarsi con buoni risultati, forse anche migliori dei miei. Lascio scorrere un minuto esatto prima di iniziare, poi  scaduti i tre pattuiti, al suono del timer alziamo contemporaneamente le penne dal foglio.   Mio nipote orgogliosamente dice: “Nonna io ne scritte trentasei, davvero tante, no?”  Mi complimento con lui mentre lei, un po’ abbacchiata, vuole controllare da vicino. “Come hai fatto a scrivere così velocemente? Così non si capisce niente.” Lui,  che frequenta le scuole medie, le  mostra la linguaccia, poi mi guarda quasi a chiedermi di lasciarlo allontanare presto. “Non c’è gioco nonna, vinco sempre io”.  Si alza e saltella per la stanza emettendo gli assordanti suoni propiziatori della danza della pioggia.

“Nonna, tu quante parole hai scritto?” domanda lei esitando. “Ah, poche, poche amore. Forse venti, anzi no, solo diciannove”. “Meno maleee. Io ventiquattro perché scrivo piano e si capisce quello che scrivo.”  A turno leggiamo i lemmi attribuendo il punteggio “dieci” soltanto a quelli che altri non hanno considerato. “Ma nonnaaa! Nonna non è giusto non è giusto. Io non ho scritto le parolacce e lui e te sì però” protesta con veemenza la nipotina. “Quali parolacce?” domandiamo entrambi sorpresi. “Quelle che non si devono dire! Sesso, sedere e quell’altra che non mi ricordo”.   

 6 settembre 2020

Elisabeth – Patty

Verso la metà degli anni ‘ 90, quando ancora lavoravo, conobbi Elisabeth: una collega neo assunta, trentaquattrenne.  Il giorno in cui mi venne presentata istintivamente indietreggiai. Alta un metro e 85 cm., fisico assai robusto, colorito bianco in contrasto con occhi e capelli nerissimi, esibendo un perenne sorriso malizioso faceva ombra all’intera scrivania.

Possedeva una vena artistica che sviluppava al meglio, durante la pausa pranzo, davanti a generose portate di cibo: con una mimica facciale portentosa metteva in scena emozioni, sentimenti, situazioni che ci deliziavano, strappando l’applauso.

Elisabeth non amava il proprio nome: chiese ed ottenne di essere chiamata Patty. Laureata giovanissima in lingue estere, aveva lavorato viaggiando per il mondo intero. Destinata all’Ufficio per gli affari con l’Estero si dimostrò talmente valida ed efficiente che le  “alte sfere” decisero di affidarle l’incarico, alquanto ambizioso, di aprire una sede a Londra, nella City.   Lei si gettò a capofitto nell’impresa ottenendo risultati eccellenti ed un meritatissimo successo personale.

Si rivelò essere una collega simpatica, valida e intelligente; diventammo buone amiche. Andavamo d’accordissimo: era molto estrosa e, come me, non le erano mai piaciuti i ruoli precostituiti, quelli che tolgono il fiato, spazio e autonomia. Per diverse pratiche, di competenza di entrambe, ci sentivamo via phone, fax o telefax, ma per le chiacchieratine confidenziali, destinavamo qualche ora la sera, da casa. Oppure ci scrivevamo lettere.

Un giorno mi chiamò a notte inoltrata per rendermi partecipe della sua gioia. Si era innamorata e da subito aveva iniziato la convivenza con un famoso giocatore di rugby, di colore.  Dieci settimane dopo, davanti alla bandiera inglese e sotto gli occhi della foto dell’immortale regina, i due contrassero matrimonio civile.  Trascorsi pochi mesi, Patty, avuta conferma dell’arrivo di un bebè, ce lo annunciò con estrema esultanza.

Quel gran rugbista di nome Antony pensò bene di organizzarsi per la fuga accettando un lucroso ingaggio negli States, divenendo “uccel di bosco”.  Elisabeth non potendo ricostruire il rapporto non ne fece una tragedia: con animo rassegnato ma sereno, contando solo sulle proprie forze, affrontò un parto podalico tutt’altro che semplice e diede alla luce una splendida cretura, Sarah.

“Non voglio tenerti all’oscuro di tutto” mi scrisse – tra l’altro – in una lunga lettera spedita via “air mail” e corredata di due fotografie.  La prima, in bianco e nero, quella del matrimonio lampo, recava scritto sul retro “Shipwrecked” (Naufragato); l’altra a colori, che ritraeva la sua  dolcissima bimba, “Saved from the waters” (Salvata dalle acque).

A distanza di un paio di anni avvenne un fatto veramente increscioso che procurò un grande disagio ai colleghi e a me tanta amarezza e imbarazzo.  Dall’oggi al domani, senza lasciare traccia, Patty scomparve.   Su lei  – e Sarah – calò un silenzio assoluto, omertoso, che da parte degli “alti livelli” – a lungo interpellati – MAI venne violato.   Una gentile collega di Roma mi confidò che il loro responsabile si trovava a Londra, per sostituirla.  A fatica mi rassegnai che quell’improvviso oscuro enigma rimasse irrisolto.

Dopo circa tre anni Patty mi telefonò e, in prima battuta, mi  supplicò di offrirle solidarietà e  complicità nel NON dirlo ad alcuno!  Non accennò alla sua misteriosa sparizione, né all’aver voluto (dovuto?) tagliare i ponti con tutti, famigliari più stretti compresi.  Presa in contropiede dalla sorpresa, rimasi silenziosa e non indagai in proposito.

Mi disse che, nel frattempo, si era trasferita in Nord Africa dove aveva accettato un’occasione professionale interessante offertale da una nota Multinazionale americana, decantandone a dismisura i benefici.  Non riuscendo ad inserirmi nel discorso decisi di farle uno sgambetto passando repentinamente ai saluti.

Rise di cuore e parve rilassarsi. Dopo avermi ascoltata per un po’, con molta calma continuò: ” Elvì,“You don’t know, non immagini quanto mi siete mancati tutti!  Quanto ho sofferto non poterti più sentire.  Tu non sai quanto ho tribolato in questi anni!  Mi sono rimessa in gioco anche in amore, forse per trovare un punto fermo.  Ed ho molto sofferto durante e dopo la gravidanza di Nico, il mio secondo figlio. Lui é frutto di una bellissima, adrenalinica e squinternata relazione con un collega di colore.  Come Sarah è nato con un parto podalico ed io ho dovuto affrontare tutto “alone” (da sola), un’altra volta. La storia con il mio collega si era guastata in fretta; non mi ha abbandonata furtivamente come aveva fatto Antony, ma, vuoi ridere?  E’ tornato a vivere con la mogliettina, nonostante la separazione.”

Sospirando proseguì: “Mi dichiaro colpevole per non aver più nutrito la nostra bella amicizia, ma sono convinta che tu, conoscendomi a fondo, possa capire ogni mio comportamento senza giudicarmi.  Mostrando mancanza di disciplina, come sempre mi accade, mi sono dedicata alla vita ed ho pure creato un mix stellare di sperimentazioni amorose. Sarò sembrata troppo indifferente verso le persone che mi volevano  bene e immagino mi siano piovuti in testa mille commenti, e chissà cos’altro. I’m sorry”. (Mi spiace.)

Posò la cornetta del telefono senza preavviso ed io compresi del tutto che il nostro legame era terminato, per sempre e che non l’avrei mai più rivista. E ho continuato a crederlo in questi ultimi venti anni, durante i quali, talvolta, mi sono chiesta come avrei potuto impedire la “scucitura”.

Oggi, ultimo giorno del mese di luglio dell’anno del Covid, la buona Sorte ha “fatto saltare” la serratura della cassaforte dei ricordi, che conteneva anche questo fascicolo obsoleto.  Da una ex collega stamane ho ricevuto un WA dal tono misterioso con l’invito a “dare un’occhiata” ad un video che mi stavo inviando. Manuela precisava che, sebbene il contenuto risalisse al 2019, lei era riuscita a scaricarlo in quanto l’intero programma viene ripetutamente mandato in onda – da un Canale Satellitare straniero -, anche nel corso di questo anno.

Sullo schermo del cellulare ecco apparire in forma smagliante Elisabeth/Patty mentre partecipa ad un concorso di “Miss Mamma nel Mondo”, riservato a signore over 55 in sovrappeso.  Il presentatore, in lingua inglese, scandisce ad alta voce il nome “Patricia Mc Farland” invitandola a salire sulla passerella, quale “ottava classificata”.  Si tratta davvero di lei ed é riconoscibilissima. Colpisce la gioia autentica, abbagliante, che sprizza dalla sua persona. Perfino il passo leggero ed il suo perenne sorriso malizioso sono rimasti identici. Rimango a bocca aperta, pressochè basita.

Ma le sorprese non sono finite. Al termine della premiazione la telecamera inquadra in un primissimo piano lei mamma abbracciata festosamente dai due figli, ormai adulti. Entrambi sorridono divertiti esibendo la loro T-short bianca su cui spicca la scritta “Black lives matter”- “Le vite nere contano”.

I miei pensieri volano sparsi tra ricordi affollati e vivi e il mio cuore è gonfio di gioia. Quanto ingegno, imprevedibilità, coraggio e audacia ha saputo dimostrare Patty durante le prove obbligatorie sul palcoscenico della vita. Le sue doti mi hanno sempre stupita ed entusiasmata, soprattutto la sua assoluta capacità di non stare ad aspettare che la vita “accada”.  Sicuramente senza scendere a compromessi, anche in questa occasione è salita in sella ai sentimenti ed è stata in grado di “far accadere i fatti”, senza vacillare. Ha dato il meglio di sé e si merita, oltre ai miei, tutti gli applausi che le riserva l’immensa platea di spettatori.

31 Luglio 2020

Salva nel “SALVANEL”

Mi trovo in vacanza in un armonioso, silenzioso, paesino attorniato da monti, boschi, colline. Questo borgo di antichissime origini sta alle soglie delle Dolomiti ed è posto su un esteso terrazzamento di origine alluvionale.  Alloggio in mezzo alla natura in un B&B di proprietà di persone amiche: Marisa e Stefano i nonni, Lucia e Marco i genitori delle piccole sorridenti, vivaci e biondissime, Serena e Susanna.  All’ingresso del prato che conduce al caseggiato spicca una originale insegna in legno, – ideata e dipinta da Lucia -, che reca il nome del folletto “Salvanel”.

Sembra che questo  personaggio, piccolo, vestito di rosso e dispettoso, leggendaria creatura della tradizione popolare contadina,  abitasse – ma tutti sono convinti che abiti tuttora – nelle tane di boschi e nei granai.   Pare si muova, costantemente, solo nel cuore della notte e sia in grado di apparire, scomparire e volare.  Una volta entrato nelle case si diverte a scompigliare i capelli delle donne che dormono, mettendo fuori posto gli utensili della cucina. Questa “antica credenza”, che i vecchi di una volta raccontavano ai piccoli per spaventarli, viene ancora tramandata in famiglia.

I terrazzi in legno del B&B, avvolti da nuvole di fiori multicolori, risultano in perfetta sintonia con gli elementi circostanti: orti, alberi, prati rigogliosi, campi coltivati a legumi e perfino un piccolo maneggio ed una stalla  dove trovano ospitalità due  mansueti pony. Di loro, che già li cavalcano, si prendono amorevolmente cura anche le bambine di Lucia.

Dietro al B&B si distingue una Casa Vacanza abbandonata, ma non silenziosa: nel prato verdeggiante che la circonda, infatti, pascolano beatamente alcune pecore autoctone.   Allo spuntare dell’alba devo il mio insolito risveglio al loro monotono, insistente, belare.

Con la voglia di riavere indietro i miei occhi di  bambina, ogni mattina esco all’aperto e mi avvicino loro annusando l’aria.  So che vado cercando il disgustoso olezzo, per me inebriante ed indimenticabile, che permeava la stalla dell’amato nonno materno Bepi.

L’ambiente rappresenta una meta tranquilla, soddisfacente e rilassante. La natura veste colori meravigliosi e il suo contatto è rigenerante; il cielo sereno si estende all’infinito, l’aria limpida é ossigenante. Il territorio offre l’opportunità di escursioni naturalistiche che regalano panorami autentici ed emozionanti.  Alcuni sentieri nascosti tra il folto dei boschi portano sulle tracce del passato e alla riscoperta di borghi ormai disabitati.

Le creature che sbocciano alla vita qui vengono accolte con un tripudio di fiocchi colorati esposti lungo parapetti, finestre, terrazzi, vasi di fiori e il cancello di casa. Immancabile la presenza di una bellissima sagoma della cigogna, rigorosamente in legno, alta almeno un metro. Questo spettacolo mi incanta; riempie gli occhi di gioia,  scalda il cuore di dolcezza e dona  fiducia nel domani.

Questo paese, e la sua piccola comunità che amo profondamente, mi accolgono e mi proteggono donandomi un senso di vita vero: quello che risana.  La Natura è il mio Spirito Tutelare e mi “salva nel” suo prezioso grembo, ricaricandomi di energie essenziali.

 

8 Agosto 2020

Spiriti

Due spiriti

Due modi di ridere

Due occhi per vivere

Due mani si cercano

Si confrontano

nel giardino bellissimo

del mondo

 

Coi colori pastello

disegnano

tutte le sfumature

dei paesaggi interiori

dell’anima

E’ un rapporto complesso

Dolce al tempo stesso

 

Due spiriti

ignari della realtà

che dalla felicità separa

sono grati

al mistero dell’Amore

che offre riparo

e li rende

l’uno all’altro caro

 

Per amore dell’Amore

 

Chissà se domani
ancora sarai capace
per amore dell’Amore
di ricominciare da capo
con amore e senza porre
un limite all’Amore

Chissà se domani
sarai capace un’altra volta
per amore dell’Amore
di provare la sensazione
di soffrire perché ami
e… rimetterci ancora!

 

 

 

 

Creatura “Affa ssi nan te”

Se mi fosse stato consentito, la creatura che avrei voluto “scegliere” sarebbe stato Ilya e fu proprio lui, un bambino di dieci anni, quello che poi ci venne “assegnato”.   Fu l’ultimo a scendere dal pullman, il solo a presentarsi cadendo a terra, inciampato nelle proprie scarpe e la mia anima, amante dei deboli, dei distratti e degli stravolti, ne rimase catturata. Lui se ne stava rintanato in un magrezza eccessiva, accentuata dall’altezza e da un pallore malsano; nascosto dietro ad un paio di occhiali da vista grigi, enormi, usurati ed improponibili, con lenti a “fondo di bottiglia” e ad una timidezza amica del suo lieve, costante, tremore alle mani.  Era arrivato in pullman in compagnia di altri 31 bambini, belli e biondissimi, provenienti da Novozybkov, città della Bielorussia: altrettante famiglie, pronte ad ospitarli con cuore e calore, se li sarebbero  portati a casa per cinque intense settimane emotive.

Per raccontare del suo “soggiorno di risanamento” mi occorrerebbe almeno un quaderno; due, invece, per esprimere la sensazione di aver ricevuto molto di più di quello che ho dato.  La sua “vacanza terapeutica” serviva a dargli una speranza di vita in più, accrescendo le difese del suo organismo con cibi sani, ricchi di proteine e vitamine (alto 1,40mt pesava soltanto 23 kg!), a fornirgli anche un paio di occhiali da vista, che avrebbe scelto dalla montatura color rosso fuoco.

Ci eravamo preparati all’impegno che ci attendeva affinché l’impatto con la sua realtà, – i suoi limiti fisici, la probabile nostalgia, le crisi di “apnea notturna”-, non ci destabilizzasse: la mia famiglia aveva frequentato per quattro mesi un corso di lingua russa; prenotato una cara amica ucraina (fortuna volle abitasse vicinissima) per supportarci nel caso di un’emergenza; contattato il nostro medico di base per eventuali problematiche di salute, a noi sconosciute. Per facilitarci reciprocamente la conversazione, in casa, avevo appiccicato ovunque! un’infinità di post-it gialli, con domande e risposte scritte nei due idiomi: appeso all’uscio, tra palloncini colorati, spiccava lo striscione “Benvenuto”.

La domanda del primo foglietto, in alto sul vetro della porta del bagno, recitava: “Preferisci la vasca o la doccia?”   Peccato che Ilya non conoscesse la risposta: ci fece capire a gesti che preferiva “nuotare”.  Incuriosito, chiese timidamente a cosa servissero il bidet e la carta igienica e, ascoltando la spiegazione del loro uso, divenne particolarmente inquieto. Entrato nella vasca gli porsi la spugna e mentre versavo nell’acqua alcune dosi del  bagnoschiuma, in un lampo mi strappò di mano la confezione, svuotando l’intero contenuto sul proprio petto.  Poi, mulinando velocissimo l’acqua con le braccia lanciava a piene mani la schiuma in aria, soffiando sulle bolle: queste, raggiunto il soffitto, esplodendo mi inzupparono allegramente da capo a piedi.

Sghignazzammo come pazzi e, quando iniziò a cantare a squarciagola, battere le mani per applaudirsi, ridendo di gioia quasi fino a soffocarsi, fui colta da una commozione indescrivibile, la stessa che provo ancora adesso.   Farlo uscire da quella bolla di felicità fu un’impresa davvero molto, molto ardua.  Seppi poi da Juljia, l’amica ucraina che mi aiutò, che in una lettera indirizzata alla madre Ilya descrisse l’entusiastica avventura del suo “bagno schiumato”, vantandosi di averlo fatto “come in Italia”.

Creatura facile da amare, era un bambino gentile, educato, intelligente, curioso e affettuoso, ma la sua estrema fragilità si rivelò spiazzante.   Non riusciva a salire gli scalini di casa, a turno ce lo caricavamo sulle spalle; non era in grado di afferrare o lanciare una palla, nè di “giocare a calcio”. Il giorno in cui vide la bicicletta che gli avevamo procurato, scoppiò in un pianto inconsolabile: conscio dei propri limiti fisici e del poco equilibrio di cui godeva, stava malissimo. Lo tenni stretto al cuore, cullandolo tra le braccia, confortandolo a lungo con tenere carezze e, per un po’, piansi anch’io sommessamente.

Come detto, di questo meraviglioso bambino avrei molto da scrivere, mi limiterò a considerare altri momenti vissuti insieme, iniziando con il ricordare che ignorava completamente l’uso del denaro –  con le monetine giocava “alle biglie” -; non era mai entrato in un negozio, dal barbiere, in un supermercato né in un’auto.  Ci teneva tantissimo ad essere fotografato, seduto orgogliosamente al posto di guida, le mani strette al volante, la portiera spalancata ed il sorriso abbagliante: si sentiva “like a great hero” (parole sue). Farlo scendere dal mezzo si rivelò, tutte le volte, un’impresa per niente facile.

I bambini nati nella sua stessa regione, che nell’ aprile del 1986 era stata investita dalla nube tossica della centrale nucleare di Cernobyl, provenivano da famiglie numerose, vivevano in fattorie fatiscenti in mezzo alla campagna più povera, soffrivano – in varie forme – per una salute minata da quel terribile evento.   Per recarsi a scuola, lontana  chilometri, erano costretti ad attendere a lungo l’arrivo di un bidello (che non sempre arrivava) che li avrebbe “raccolti” a bordo di un carretto trainato da cavalli: il problema era che, essendo creature debolissime, quasi sempre venivano sopraffatte dal sonno e si addormentavano sul ciglio delle strade.

Talvolta Ilya chiedeva di poter vedere i cartoni animati alla Tv: davanti allo schermo si assopiva nella frazione di un secondo netto, rischiando di cadere dal divano: imparammo così a proteggere il suo delicato corpo con molti cuscini.  Scoprimmo che tutti i “nostri” bambini Bielorussi conoscevano quattro parole “internazionali”: mamma, coca cola, ciupaciups e kinder; diversamente dagli altri però, Ilya era colto e, fu una piacevolissima sorpresa scoprire che si esprimeva in un buon inglese. Prima della ripartenza, aveva anche imparato a parlare in italiano.

A proposito del suo ritorno a Novozybkov, ricordo che l’entusiasmo per la possibilità di volare lo aveva eccitato moltissimo, quasi fino a togliergli l’appetito ed il sonno.   Ilya aveva molto sofferto, anche la sete e la fame, durante il viaggio di andata, durato oltre le 36 ore, poiché avvenuto con svariati mezzi di fortuna.    Venti anni orsono,  – oggi non so se è ancora così –  a quei bambini era consentito lasciare la Patria in aereo solo  accompagnati dai loro genitori.    Tutte noi, famiglie ospitanti, concordammo valesse la pena offrire ai bambini il viaggio di rientro in volo – fattibile dall’Italia in presenza di due adulti ed un medico, della limitata durata di 8 ore! – coprendo volentieri il costo per l’enorme bagaglio che li accompagnava. Questo, grazie anche alla generosità di parenti, amici, vicini di casa e di  alcuni sponsor, conteva ogni ben di Dio: dispositivi sanitari, prodotti per l’igiene – tra cui, con certezza, confezioni di schiuma da bagno – vestiti, giocattoli, regali anche per le loro numerose famiglie, senza trascurare, allora si usava farlo, il voluminoso album delle foto-ricordo.

Il giorno della partenza, arrivati in aereoporto con largo anticipo,  nonostante l’acuto dispiacere per il “distacco”, saggiamente evitammo tutti di mostrarci tristi. Io, mi appartai con Ilya e molto affettuosamente mi complimentai per la sua bravura, la simpatia, la nuova vitalità, la sua preziosa presenza.  Ne elogiai l’eleganza ed il suo aspetto sano e bellissimo: con sollievo si notava che le sue mani non tremavano, raramente inciampava e, miracolosamente, il suo peso era aumentato. Si commosse molto e con lo sguardo stampato nel mio, quasi a volermi sondare l’anima, mi abbracciò più volte forte, forte.

Poi, del tutto inaspettatamente, venne colto da un’inspiegabile agitazione e, saltellandomi accanto, mi indicava la borsetta pretendendo gli consegnassi “subito, subito” il vocabolario tascabile bilingue, che custodivo all’interno. Non mi capacitavo della sua frenesia, ma un suo scaltro amabilissimo sorriso, che ben conoscevo, gli illuminò il volto quando, trovata la traduzione del vocabolo desiderato, me la indicò ridendo divertito.

Un’istante dopo, sorprendendo i numerosi presenti, a voce altissima, scuotendo le braccia verso l’alto, iniziò a cantilenare: “Non sono un bambino bravissimo, non sono un bambino bravissimo. Io sono “affa ssi nan te”. Affa ssi na nte! Affa ssi nan te!  Non sono un bambino…”.     In modo del tutto teatrale, travolto da una irrefrenabile risata, girandosi per osservare la mia reazione finse di inciampare e finì col ruzzolare.

 

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