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Libro aperto

Sei scomparso
mi ostino a cercarti
nel libro della mia vita
ancora aperto

Sono viva qui
non voglio sapere
quanto ancora
il domani il dopo

Lego il tempo
con catene di parole
che barcollano prima
di librarsi leggere

 

19,12,2022/Lab 3

 

 

Mani

Mani

Le mie mani vorrei stasera
sorelle tra le tue in abbandono
in questo piovoso novembre
che a stento mi rimanda
un altro autunno rosso infuocato

Le tue mani vorrei stasera
per infilarmi in un silenzio
dolce, felice, innamorato
e ritrovare un senso compiuto
di benessere e quiete del cuore

 

Something in the water

Avvolta nel profumo Dolce (&G) e nel suo trench verde oliva a pois bianchi, Anastasia sosta davanti all’ingresso del locale “Bar Ber” in cui l’attende un tale sfrontato di nome Otto. Allontana dalla fronte un ciuffo di capelli neri, ricci e ribelli. Osserva la propria immagine specchiata, fiera dei suoi quarant’anni e orgogliosa della snellezza delle proprie forme. Pone la mano sulla maniglia della porta, esita un istante, scuote il capo e sorride divertita. Ha appena letto la scritta BARBER – Salone per uomini – sulle insegne poste ai lati della luminosa vetrina contigua. La denominazione è la stessa del bar in cui sta per entrare. Che ci sia lo zampino del destino? Anche così non fosse, lei rimane dell’idea di fare “barba e capelli” all’uomo che sta per rincontrare.

Lo ricorda abbastanza bene: sulla trentina, alto, biondo, occhi scuri, pieno di charme; un perfetto sconosciuto che si era rivelato un individuo spregevole. Sere prima, in un altro locale pubblico, lui le aveva gentilmente consegnato la borsetta, – dimenticata per un istante su una poltroncina -, dopo averla alleggerita di un porta-banconote colmo di denaro. Lei aveva temuto un infarto, anche se quel che maggiormente l’aveva fatta infuriare era stata la propria sbadataggine. Stizza e disappunto le avevano provocato un battito accelerato del cuore costringendola a trascorrere l’intera notte tra le braccia dell’inquietudine.

Del tutto ignara che quell’uomo l’avesse furtivamente seguita sino all’ingresso del palazzo.

Il mattino successivo, con grande sorpresa, Anastasia preleva dalla cassetta della posta un biglietto con il quale il borseggiatore, di nome Otto, la invita ad incontralo al Bar Ber. Oltre a restituirle il malloppo intende offrirle un caffè. Come credergli? Teme voglia farsi beffe di lei, magari autoassolvendosi, o trarne un sicuro profitto. Dopo aver riflettuto a lungo, decide che vale la pena accertarsi delle reali intenzioni dell’uomo. Intende affrontarlo a testa alta.

Sara questa mattina ha marinato la scuola. Salterà pure le lezioni pomeridiane di musica, nonostante Canto sia la disciplina che più ama al mondo. E’ il dono di natura che possiede; la fa stare bene al punto di aver rivelato alla nonna il sogno di diventare una vera rock star. Oggi però è determinata a scoprire quel che combina sua madre durante l’arco della giornata. In cuor suo è certa di conoscere la sola, semplice, verità. Uscita di casa alla solita ora, trascorre la mattinata bighellonando per le vie della città. Confida nella sorte propizia mentre cerca di individuare Anastasia in qualche negozio elegante, da Mc Donald oppure in biblioteca. In Chiesa no.

Da quando mamma ha perduto l’impiego, e non si è più attivata per cercarne un altro, Sara è parecchio impensierita, quasi in ansia. Va lambiccandosi il cervello a caccia di risposte. Perché non si confida con me? Viviamo sotto lo stesso tetto. La supero in altezza, avrò il diritto di sapere! …se almeno papà fosse ancora con noi! L’ho perduto troppo presto. Mi mancano i suoi sorrisi, le coccole e la complicità! A distanza di anni la sua tangibile assenza mi soffoca il cuore e spesso piango. Succede quando mamma, alcune sere la settimana, si allontana da casa e sparisce per l’intera notte. Questa sua misteriosa vita notturna non mi consente di avere un rapporto sereno e sincero con Fabio, il mio attuale boy friend della terza E, a cui tengo una cifra. Mi piacerebbe presentargli mia madre, ma è proprio una faccenda difficile. Non posso, non me la sento ancora di condividere i sospetti che nutro.  Così mi accontento della rassicurante presenza del mio cane peloso, Pluto, a cui voglio un bene dell’anima. La notte dorme ai piedi del mio letto, mi tiene compagnia proteggendomi.

Seduto a un tavolo del Bar Ber, Otto cerca di liberare la mente con un mantra: sono uno scippatore improvvisato, non un essere disonesto. Desideravo conoscere di persona la signora Anastasia, che mai ha accettato di incontrarmi. Ora, però, è diventato urgente conversare circa il talento naturale di cui è dotata sua figlia Sara, i progressi fatti e il futuro che le attende. Dall’inizio di quest’anno, su richiesta di Fiorella l’insegnante di Canto, sto offrendo gratuitamente lezioni di Pianoforte alla ragazzina ed ho imparato a conoscerla.

Messo alle strette da un promoter che mi ha contattato per conto di un produttore discografico, ho convinto Silvana – un’amica di lunga data di Anastasia, la cui figlia Ginevra frequenta lo stesso corso di musica -, a darmi una mano. Lei ha escogitato un piano per “costringere” l’amica ad un incontro. Da tempo ero stato messo bene al corrente che tipo di donna mi sarei trovato davanti: affascinante, determinata, piena di fiducia in sé stessa e in grado di reinventarsi. Ho saputo infatti che, dopo aver perso il lavoro da impiegata, si era trasformata in un’avventurosa, alquanto fortunata, giocatrice di poker.   Silvana aveva abbandonato sulla poltroncina accanto a me la borsetta di Anastasia. Vi avevo nascostamente introdotto la mano afferrando quel portafoglio rigonfio, consapevole di commettere un reato. Soltanto restituendolo potrò comunicarle la meravigliosa novità che ho in serbo, ottenendo così la sua assoluzione.

“Mammaaa!” Sara dall’esterno ha individuato la sagoma della madre seduta di fronte al maestro di pianoforte. Entrata nel bar come un proiettile, le dita strette a pugno, il viso stravolto dal livore, le si catapulta addosso con aggressività.

“Mi fai schifo – urla – è così che passi le tue giornate! Non ti basta venderti la notte?” ha alzato le braccia intenzionata a colpire. Otto spalanca gli occhi, deglutisce e indietreggia con la sedia. Anastasia, calma e imperturbabile, para il colpo e blocca con fermezza le braccia della figlia. Si alza in piedi, le sfila lo zaino dalle spalle costringendola ad abbracciarla. Sara si abbandona al pianto e al calore del corpo della madre che la stringe forte a sé, soffocandola di baci.

“Dai Sara, sali in macchina, veloce. Non vorrai arrivare in ritardo proprio oggi!”

“Non sono mica matta. Vai mamma, sgomma!”.

“A me sembra troppo bello per essere vero! Il signor Otto è un maestro davvero in gamba ed ha un bel carattere. E’ sicuro di sé quando parla del tuo innato talento. Chissà con quanta convinzione ha presentato un tuo demo alla casa discografica! Ti hanno immediatamente invitata ad incidere la cover di “Something in the water”, la canzone che ami di più. Sono troppo felice.”

“Mamma, io sono elettrizzata. Il mio sogno sta per avverarsi. Sono contenta che tu sia orgogliosa e, visto che sono più alta di te, considerami pure un’adulta.”

“Certo che sì!”

“Se avrò successo diventerò famosa come Lady Gaga. Forse guadagnerò quanto te con il gioco ai tavoli del poker, vedrai. Ho già telefonato alla nonna per dirle di tenersi pronta che presto apparirò in tivù. Morirà dalla gioia.”

Entrambe ridono a pieni polmoni. Sara si applaude con convinzione.

 “Mamma, ti farebbe piacere se adesso cantassi?”

Anastasia posa teneramente una mano sul capo della figlia e le invia un sonoro bacio: “Moltissimo, Lady Sara.”

La quindicenne modula la sua gradevolissima limpida voce per cantare le parole della canzone che rispecchiano fedelmente il suo stato d’animo: “I’ve got halo’s made of summer, rhythms made of spring. …give me long days in the sun, prelude to the nights to come…”*

 

*Ho un’aura fatta d’estate ed il ritmo fatto di primavera…dammi lunghe giornate al sole, che portano alle notti che vengono…

N.B.

“Bar Ber” e “BARBER “esistono davvero; li ho scovati in una ridente cittadina della bassa Valtellina.

P.S.

Ad Annalisa, Adele, Graziella, Vittoria e Panty devo un GRAZIE speciale per avermi supportato, e sopportato pazientemente, in questo lungo periodo buio in cui rigettavo l’idea di tornare a scrivere almeno ad un livello discreto, come una “scrittrice per caso”, quale sono.

 

 

 

28 Ottobre 2022/Lab 2

 

Julija

Otto di sera, sola in casa e qualcuno sta suonando il campanello alla porta. Sfilo i guanti di plastica gocciolanti e ancor prima di guardare dallo spioncino domando: “Chi è?” Una breve esitazione, poi una voce che conosco “Priviét signora Elvira. Sono io, Julija.” Invito la giovane donna ad entrare, la osservo e noto sul suo volto un’espressione nuova, indecifrabile.

Purtroppo mi sorge il sospetto che sia venuta a trovarmi, come spesso accade, perché ha necessità di “telefonare a casa”, in Ukraina, da un telefono fisso. L’avaro uomo anziano a cui presta assistenza non glielo consente mai, se non a pagamento. Così, mentre ancora ci troviamo in anticamera mi sento dire: “Sai dov’è il telefono Julija, chiama tranquillamente.” Scuote più volte il capo offrendomi un risolino spensierato.

“Kak dielà, signora Elvira?” “Sto bene, grazie. Vieni un attimo in cucina che ho ancora piatti da lavare.”

“Spasiba.” Si dirige verso una  sedia posta all’angolo, accanto alla finestra. Quello è il posto prediletto anche da Helena, la signora venuta dall’Est. Julija lo sa, l’ha conosciuta e sono diventate molto amiche. Mi sorride sorniona, rimanendo in silenzio. E’ alta di statura, esile di corporatura, la pelle ambrata, occhi di un azzurro incredibile con cui mi osserva mentre titilla con le dita della mano un ricciolo ribelle dei sui lunghi vaporosi capelli, dal colore fiammeggiante da sembrare una torcia accesa.

Julija è una persona calma, affabile e affidabile, a cui non viene mai meno il sorriso; quando arriva sembra portare con sè una folata d’estate.  Possiede una laurea in Ingegneria Meccanica: titolo che qui non le viene ancora riconosciuto e pur di rimanere in Italia svolge un lavoro impegnativo. E’ una delle tante  brave badanti precarie, sfruttate e sottopagate. Quando lo scorso anno a luglio, avendo ospite Ilya, il bambino Bielorusso, mi ero rivolta a lei per “un aiutino” come traduttrice, ci incontravamo già da due anni, abitualmente nei locali della Caritas.

“Quale novità mi porti?” domando mentre ci trasferiamo in soggiorno.

Risponde: “TasKà”,  ma se ne pente istantaneamente. Mordicchiandosi il labbro inferiore si corregge: ”Niet, niet. Non è questo oggi il mio grosso problema, signora Elvira. Stasera ho bisogno di te: puoi farmi fotocopie colorate dei documenti arrivati dal Consolato?”

Sono a conoscenza del significato profondo della parola ”Toska”. Si pronuncia “taskà” proprio come si trattasse di una conchiglia. Infatti lo è: racchiude in sé uno stato emotivo pieno di sfumature di tristezza, inquietudine, afflizione e  malinconia. Tutte emozioni che spesso Julija patisce. Difficile per noi europeri tradurre e comprendere appieno la  rilevanza di questo vocabolo. Non ha alcuna attinenza con la nostalgia, di cui lei afferma di non soffrire.

“Potevi già portarmeli quei documenti.”  Mi sorride grata. Sospira a lungo. Si rilassa, quasi a voler far scivolare via una forte tensione interna. Si alza in piedi e da sotto il maglioncino rosso, con un fulmineo gesto di magia, sfila una busta color arancione formato A4. Non riesco a trattenere una risata.

“Io nascondo, signora Elvira, documenti importanti questi miei.  Università, cert cer …come dire miei personalmente?”  “Sono certificati, come quello di nascita, quello di identità?”

“Si, anche di divorzio.” L’informazione mi coglie alla sprovvista. Lei osserva la mia espressione sbigottita e arrossisce lievemente. “Niet, non ti ho detto che giovanissima sono stata sposata a Kiev, scusa.” “Scusami tu Julija se sono rimasta così sorpresa. Ma, hai divorziato a vent’anni?” Sono al corrente, infatti, che ne compirà venticinque il prossimo mese di giugno; data la giovane età potrei esserle madre.

 “No, diciannove anni. Matrimonio kaput dopo quattro mesi, lui ragazzo violento e molto ubriaco di alcol. Studiavamo insieme. In mia Nazione non prevedere periodo di separazione: divorzio arriva presto, anche entro tre mesi.”  Incapace di spiccicare parola, ancora incredula, rimango muta. Lei mi tranquillizza: “E’ la verità vera, signora Elvira. Tu puoi leggere tutti i miei documenti che ho portato. Sono stati tradotti in italiano e hanno validezza.” “Non occorre Julija, ti credo. Andiamo a fare le fotocopie a colori. A cosa ti serviranno?”

Si illumina, spalanca le braccia, mi abbraccia teneramente ma con grande entusiasmo. Caspita! Ecco scoperchiata la pentola che ribolliva: è innamorata e sprigiona la sua frizzante, contagiosa felicità. “Porto tutti i fogli al mio fidanzato che è buono, bravo e mi aiuta. E’ un uomo serio, grande di trentasei anni e vuole vedere tutta la mia storia.” “E’ qualcuno che conosco?”  la curiosità è femmina…

“No è di un altro paese, qui vicino; lavora in una Banca e si è innamorato di me.” “E tu di lui, si vede anche al buio. Sono davvero contenta, Julija.” “Kojak, per favore, non dire al vecchio signore che tu sai tutte le cose di me.” “Tranquilla, lo conosco a malapena, e poi esce pochissimo di casa, vero?”

“Da, da. Troppo vecchio e malato e non gentile con me. Lui non sa ancora che presto vado via. Vado a vivere dal mio fidanzato che si chiama Fabio.” “E’ una notizia bellissima che mi rende molto felice. Ti meriti il meglio dalla vita.”  “Signora Elvira, mi dispiace tanto per noi; tu sei buona e hai aiutato me.” “Possiamo comunque tenerci in contatto telefonico. Io ci tengo.” “Da,da, ma io avrò tanto da fare per preparare tutto bene per bebè che arriva.” “Aspetti un bambino? Ma dove lo nascondi che sei così magra?” “No, no nascondere. Lui piccolo semino appena arrivato” e, con un sorriso che riempie la stanza, conferma la gravidanza sventolando due dita della mano.

E’ arrivato il mio momento di abbracciarla con affetto materno. “Abbi cura di te, mi raccomando. E soprattutto sii felice più che puoi, cara Julija. Ma non sparire, d’accordo?” “Niet, signora Elvira. Noi ci sposeremo presto, vedrai. Poi, quando è nato, ti porto il piccolo bebè di Julija e Fabio così diventi nonna.”

Celebriamo i fortunati eventi brindando con una tazza di the e con soffocate risatine contagiose. Io corro rischio di rimanere stritolata dai suoi calorosi abbracci.

“Ciao Julija. Arrivederci.” “Ciao signora Elvira. Do svidania. Arrivederci!” è talmente raggiante che scende le scale a volo d’angelo.  Sorrido divertita mentre richiudo la porta alle sue spalle. Sfilo le chiavi dalla toppa dal momento che i “maschi” di casa, – che si trovano allo stadio Meazza ad assistere ad una partita di calcio di “vitale importanza” -, rientreranno tardissimo.

Le ombre della notte sono scese sulla giornata e sulle case.  Ancora emozionata ed intenerita dalle improvvise sorprese della vita, mi dirigo verso la finestra della cucina per abbassarne la tapparella. Lo sguardo mi cade sulla “sedia preferita” dalle mie amiche straniere e noto la presenza di un foglietto a quadretti, ripiegato alla bell’e meglio. E’ del tutto inaspettato e sono più che certa non si tratti di un uno dei miei mille appunti, scritti in tutta fretta, che distrattamente semino per le stanze di casa.

Attratta ed intrigata lo raccolgo, lo apro lentamente, quasi timidamente. Incontro subito la spigolosa calligrafia di Julija e, alla vista dell’immancabile “Signora Elvira”, provo un’intensa amorevole commozione:  “Ho voluto essere, imparare, fare, avere mille cose che  – tu sai  – mi sono mancate. Adesso vorrei anche assomigliare un poco a te. Julija”

 Marzo 2004

P. S. 11 aprile 2021

Oggi, dopo aver sentito la notizia flash: ”Venti di guerra tra Russia ed Ucraina, con escaletion di minacce e movimenti di truppe”, ho deciso di pubblicare il racconto.

 

Le domande che vorrei porvi

Nel pomeriggio mi sono recata alla Biblioteca di Pantigliate per dare un’occhiata alle nuove proposte editoriali. In attesa che venga pubblicato – e, senza dubbio lo sarà prima della fine dell’anno -, il Fantasy di Valeria, ho scelto “Come un respiro” di Ferzan Ozpetek. L’ho già posizionato sul ripiano del mio comodino, sopra a “Becaming” di Michelle Obama.

Come sempre mi accade, più osservo le copertine dei libri più avverto un urgente desiderio: poter incontrare i rispettivi scrittori – meglio se tutti! – e porre loro domande mi stanno a cuore. E questa sera scelgo di metterle per iscritto, riservandomi di rivolgerle alle due scrittrici a noi più vicine: Benedetta e Valeria.  Spero che le nostre benvolute amiche in un futuro non troppo lontano vorranno qui appagare questo mio desiderio. Grazie.

A che età sei stata catturata dalla passione per la scrittura?”

Riesci a scrivere in questi mesi di sgomento, timori e silenzio risucchiante?”

Quando scrivi segui un particolare rituale? Per esempio: un  tipo di penna/matita/stilografica, certe luci nella stanza, orari preferiti, cibo da sgranocchiare a portata di bocca, musica di sottofondo, ecc.?”

Nelle ore dedicate alla scrittura tieni silenziato il cellulare?”

Quando riversi un testo nel PC è perché lo hai già scritto prima sul foglio mentale?”

Riscrivi spesso un concetto o un’intera pagina?”

Cestinare uno scritto ti cambia lo stato d’animo?”

Trovi sempre e con facilità il vocabolo più adeguato con il quale affinare le espressioni, per essere meglio compresa?”

 “Tu sei i tuoi personaggi o loro ti assomigliano molto?” “A quale di essi sei più legata?”

Oltre alla scrittura riesci a dedicarti ad altre passioni?”

Leggi molto? Se sì di quali argomenti o a quali letture non sai rinunciare?”

Puoi disporre di tempi e spazi che appartengano esclusivamente a te?”

Stiamo vivendo con affanno questo inspiegabile caos della pandemia che ci accomuna, facendoci oscillare tra speranza e disillusione. E’ una dimensione indecifrabile, del tutto simile ad un limbo sospeso nella nebbia, ma ho grande fiducia di poter postare questo scritto nel nostro sito. Lo farò, prometto, a seguito della conferma dell’avvenuta pubblicazione del libro di Valeria.

Porgo l’augurio di vederci tutte, presto, insieme alle nostre due scrittrici per nuovi amichevoli, stimolanti, incontri di cui sento (q.b.) la mancanza.

28.10.2020

Dolce gioco

L’amore gioca

si diverte

capovolgendo la realtà

ti viene incontro

con passi di velluto

si arrampica veloce

alle pareti del tuo cuore

improvvisa

l’innamoramento

infrange divieti

spariglia calendari

ride incontrollato

danza nei tuoi occhi

accendendo la fantasia

si diverte

Gioca l’amore

 

19/12/2020

 

 

Inopia

Il piccolo immobile, al cui interno sono sbucata alla vita negli anni ’50, apparteneva all’imponente e prestigiosa Industria per la quale lavorava mio padre. Stava incastonato tra molti altri, al terzo piano di uno di quattro affollati caseggiati, allineati come fiammiferi. Gli scrostati rivestimenti esterni mostravano un colore indefinibile, post bellico: un miscuglio di nero, grigio e giallognolo.

Le scale interne, con i loro parapetti e corrimano in legno, usurati e cedevoli, rappresentavano una costante insidia. Al piano terra, una buia e strettissima rampa conduceva ad uno scantinato, al cui centro  giganteggiava l’oscura presenza di una porta tagliafuoco. Era stata posta a protezione di un misterioso “Rifugio di Guerra N° 47” e nessuno di noi bambini ebbe mai l’ardire di avvicinarsi troppo.

Per rispettare le condizioni imposte dall’Industria, (il Diktat!), ogni famiglia condivideva l’appartamento con un secondo nucleo. Con spazi vitali insufficienti e l’unica risorsa economica rappresentata dalla paga mensile dei papà, si era talmente poveri da disporre a malapena dello “stretto necessario”. Obbligati a “resistere per esistere”, rinunciando, fatalmente, a buona parte – anzi! alla parte buona – della vita.

Quando, negli anni ’60 la Fabbrica raggiunse il suo massimo splendore, in molti  appartamenti si era già dovuto fare spazio ad altre famiglie operaie salite dal sud, i cui    figli ci chiamavano “polentoni” per sentirsi apostrofare “terroni”. Purtroppo i comportamenti  peggiorarono e le violenze fisiche e verbali si moltiplicarono.

I “grandi” stremati dal lavoro, usciti dalla Fabbrica al suono assordante della sirena, una volta giunti a casa si abbruttivano con l’alcool ed ogni minimo pretesto provocava scintille. Noi bambini assistevamo troppo spesso alle loro liti furibonde. Per questo, ma soprattutto  per comportamenti ben peggiori!, i nostri sguardi infantili andavano perdendo presto la freschezza ed il candore dell’innocenza.

Quando urgeva fottere la fame, la tristezza o il senso di soffocamento che pativamo, una volta terminati i compiti, proprio tutti! si scappava fuori casa a giocare all’aria aperta, nei cortili o nei prati. Qui ci sentivamo amici fraterni, autentici compagni di sventura.

La nostra vera ancora di salvezza – il nostro bene supremo – era rappresentato esclusivamente dall’obbligo di frequentare la scuola, nonostante le non poche difficoltà di apprendimento. Lo studio ci consentiva così di starcene lontano dagli adulti, dai loro  cattivi esempi, dai rimproveri incessanti e dai loro fuorvianti consigli. L’istruzione era in grado di supportarci nella crescita: apriva i nostri orizzonti, accendeva i nostri cuori e, per qualche spensierata ora, bruciava dispiaceri e paure.

7 Marzo 2017

I tempi cambiano

La parola sbagliata minaccia

colpisce

ferisce

perseguita

rovescia veleno

senza pietà

non trova pace

e ti priva di vita

 

La parola giusta senza esitare

strappa

il velo

dell’indifferenza

dell’egoismo

della malafede

dell’ipocrisia

e della diffidenza

 

La parola affettuosa regala

benessere

sorrisi e bontà

vive

appassiona

sorprende

e ti schizza via

dalla banalità

 

17.11.2020

Per amore, amore mio

Giorni perduti

implodendo

lentamente

nel purgatorio

delle sale d’attesa

 

Costruire un muro

attorno a me

mantenermi salda

Fingere

di non soffrire

 

Riversare il mio cuore

sulla carta

prepotentemente

Evitare

le vertigini

 

Giorni perduti

implorando

devotamente

nel labirinto

dei mille pensieri

 

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