Tutti gli articoli di Eleonora Rocci

C’è vento

Ogni giorno ho la mia ora quieta, incastonata con cura tra una corsa e l’altra.
La passo con un guinzaglio in mano e un cane che mi trotterella a fianco.
Ce ne andiamo sempre lungo gli stessi sentieri, che sono alla fine due o tre.
Li abbiamo percorsi centinaia di volte, in qualsiasi stagione, ma mi sembrano sempre un incanto.
Oggi mentre cammino c’è vento, mi passa addosso e mi riempie le orecchie col fruscio delle foglie
Quando arriva il vento, arrivi sempre anche tu.
Penso che sei da qualche parte a sbirciarmi sorridendo, giocando a farmi una carezza senza essere vista.
Cammino, c’è vento.
Ti prendo tra le braccia la prima volta che sei un fagotto che pesa come un pollo, e io una ragazzina che pensa che essere diventata zia è una botta d’orgoglio da sfanfarare ovunque.
Le pappe rovesciate, i pannolini di cotone, il profumo di latte e caramelle di gomma, i carillon da far partire per guardarti incantata.
I tappetoni imbottiti dove rotolarti, la maniglie a cui aggrapparti per imparare a stare in piedi.
Ti racconto storie, ti invento giochi, faccio la pagliaccia mille volte per strapparti una risata.
Sei una bimba quieta e silenziosa, sempre in un angolo per non essere vista, col tuo faccino smorto, gli occhi enormi e le dita lunghe come ali.
Mi guardi come se io fossi una maga spara incantesimi, taci, sorridi.
Senza averlo imparato, ci amiamo forte con gli sguardi e nessuna parola è mai necessaria.
Cammino, c’è vento.
Sei una ragazza ora, e sono arrivate le feste, le discoteche.
Le guerre con i tuoi, le dichiarazioni di indipendenza, il voler essere te stessa con i tuoi sogni e i tuoi ideali, nonostante tutto e tutti.
Arrivano i primi amori, poi quello grande.
Il lavoro nei centri sociali, tra gli umili e i disperati, che tu a lavorare in banca come gli altri volevano, ci saresti soffocata.
Cammino, c’è vento, prendo un respiro grosso.
Mi telefoni un pomeriggio qualunque con la voce un po’ strana… “Zia stavo facendo la doccia e nel seno ho sentito qualcosa di strano”.
In un giorno qualsiasi, arriva una clava di piombo, che ti si abbatte sul petto senza neanche avvertire.
Non sai ammettere né concepire che possa essere accaduto.
Non a chi ami con ogni respiro.
Infili la paura e la disperazione in un pentolone, lo sigilli con un coperchio e ti ci siedi sopra.
Perché devi trasformarti in colonna, essere forte per chi ami, dare coraggio, infondere speranza, e in cuor tuo non sai neanche dove trovarli.
Cammino, c’è vento.
Arrivano i giorni della paura e del dolore.
Dell’attesa e della speranza.
Arrivano i giorni della gioia per essere sbucati fuori da un tunnel.
E quelli dello sgomento, scoprendo che un altro tunnel ci aspettava dietro la curva.
Cammino, c’è vento.
Ecco oggi sei una sposa, diafana e bellissima, noi ben vestiti a battere le mani, tutti che credono al lieto fine.
Siamo verso la fine di una giornata perfetta di gioia e speranza, e mentre vago di stanza in stanza, ti trovo nella sala dei confetti.
Ti guardo senza parlare, stai lì in piedi, sola e con lo sguardo perso.
Mi accorgo solo ora di quanto sei magra, di quanto sei stanca.
Ci guardiamo negli occhi, ci sorridiamo con tristezza e amore, ci facciamo coraggio in silenzio, perché forse il lieto fine non è di questa storia, e lo sappiamo entrambe.
Cammino, c’è vento.
Arrivano i giorni in cui la speranza scivola piano tra le dita, e c’è solo da amarti più di ogni cosa.
Ti passo le matite ad una ad una, stai cercando di disegnare il progetto della cucina nuova, che sdraiati in quei letti d’ospedale non è facile per niente.
Pezzetti piccoli di pane e marmellata, te li metto in bocca e ci facciamo segno che zitti zitti, è un segreto tra noi, perché i medici han detto che lo zucchero è vietato, ma noi delle regole ce ne sbattiamo.
Ti imbocco, metto il dito sulle labbra “sscchhh bambina, non ci devono scoprire”.
Tu mastichi piano, alzi gli occhi, sorridi lenta “sscchhh zia, non lo scoprirà nessuno”.
Cammino, c’è vento.
Dormi tutto il giorno ora.
Dormi di giorno, dormi di notte, mi chiedo se sai che sono li’ seduta tutti i giorni.
Ti accarezzo le dita lunghe come ali, ti racconto delle piccole cose banali.
Poi pian piano mi faccio coraggio e ti racconto del viaggio che stai per fare, che sicuramente sarà bello e pieno di cose buone.
Chissà cosa andrai a scoprire, dove andrai a volare, o dove e quando atterrerai da qualche parte.
Chissà se troverai il modo di venirmi a trovare.
Che non dobbiamo avere paura, neanche un po’.
Perché i cuori buoni e le anime belle, possono partire solo per viaggi meravigliosi.
Cammino, c’è vento.
Dei tuoi ultimi fiori, bambina, ne ho fatto un mazzetto.
L’ho preparato per farlo seccare e tenerlo come una sacra reliquia.
Ma ho appena adottato un micino neonato, che fa più guai di Attila.
E tornata stanca dal lavoro, ho trovato i tuoi fiori sparsi ovunque.
Petali bianchi, foglie, rametti dappertutto.
Il micio mi guarda come un pupo, ha un rametto incastrato tra le orecchie
Mi sei venuta a trovare dunque, hai usato le zampe del micino per dirmi che è questo che avresti voluto fare dei tuoi fiori.
Non una composizione morta, fissa in un vaso elegante.
Ma una festa smargiassa, con tutto sparso ovunque senza regole, per festeggiare la vita.
Cammino, c’è vento.
Mi piace arrivare alle curve del sentiero.
Mi immagino che sbuchi da lì, i capelli sparsi, uno dei tuoi sciarponi svolazzanti, le dita lunghe come ali.
Ci sorridiamo e basta.
Ed è già tutto.
Cammino, c’è vento.
Mi fermo, accarezzo la testa al cane.. “Tata dai, torniamo a casa adesso”.
Giro la schiena alla curva, probabilmente l’hai girata anche tu e te ne vai per i tuoi sentieri.
Giro un poco la testa e mi concedo di fare la matta e parlarti ad alta voce.
“Ora la zia va a casa, bambina.
Ci vediamo la prossima volta che c’è vento”.

La notte in cui il fuoco sciolse la neve

Ciao topolino, guarda un po’ dove siamo stasera.
Un’ora fa stavamo mangiando uno yogurth e dipingendo un cassettino, guardando fuori dalla finestra la neve che cadeva.
E ora siamo qui. Sai che sto facendo ora? Sono qui a piedi nudi, e sto guardando le piastrelle di un pavimento.
Le solite lastre di linoleum degli ospedali, queste sono verdine sai? un po’ strisciate qui e là.
Guardo i miei piedi, il verdino sporco, una pozzetta di sangue li’ a terra che, a quanto dicono, pare sia il mio, o il tuo, non ho ancora capito ma non importa molto.
Urlano un po’ tutti, ci sballottano. Infilano flebo e cateteri. Mi stanno letteralmente strappando vestiti, collane e orecchini. Qualcuno telefona “codice rosso, arriviamo”.
Sai topolino, si dice che esista una qualche forza nascosta e misteriosa. Lei arriva quando la tragedia sembra si stia per abbattere sulla nostra testa, ci abbraccia e per qualche attimo ci trascina via da lì.
In un luogo quieto dove ciò che ci sta accadendo è un problema altrui.
E mentre lo tsunami si gonfia e si prepara a travolgerci, noi pensiamo alla serie tv preferita, a quella ricetta di biscotti che ancora non abbiamo provato, alle tende etniche arancioni che vorremmo ma che non troviamo in nessun negozio.
Non so se è per questo…
Ma io ora, in mezzo a tutto questo fracasso, sto solo pensando con un sorriso che dovevi nascere sotto il segno dei Pesci, ma a quanto pare sarai un Acquario, e a noi Bilance gli Acquari piacciono un sacco.
Ora c’è questo medico grande e grosso che ci si pianta davanti.
Forse è irritato dal fatto che il suo smonto turno, evidentemente per colpa nostra, finirà ben più tardi del previsto.
Forse è basito dal fatto che in quella stanza, dove tutti corrono e strillano, io sembro una drogata che si guarda i piedi, tenendo una mano su quel pancione che è  più piccolo di quello che dovrebbe essere. Forse ha solo paura, perché ora è tutto nelle sue mani, e se finisce male, sono grane grosse anche per lui. Mi prende le spalle, mi scuote leggermente: «Signora, non credo che il bambino ce la faccia. Signora ha capito? Ha capito che il bambino difficilmente glielo tiro fuori vivo?»
Alzo il viso dal pavimento verdastro e dai miei piedi, lo guardo negli occhi.
Che dice questo dottore? Ma che ne sa lui, topolino, di me e di te? Che ne sa che sei il mio ennesimo figlio, che i figli si amano tutti, ma ce ne sono alcuni che cascano nella vita, quando tutto sembra piatto e immutabile, per scrollarti e farti ripartire.
Che ne sa che sei piombato in un matrimonio ormai finito, in un grembo stanco che ormai pensava che di ‘ste cose non doveva più occuparsi. Dentro una donna che non sapeva più né chi era né dove andare.
Il dottore non lo sa, topolino, che da che sei qui dentro di me, mi hai fatto scoprire una forza che non pensavo di avere. E un amore che mi scalda come un fuoco quieto e scoppiettante, che sa di buono e di frasi piene di speranza e coraggio.
Questo dottore non può venirci a dire che tu forse muori topolino. Mica lo sa quanta forza ci siamo dati e quanti progetti abbiamo per noi.
E mentre ci addormentano con un ago, noi siamo sereni, vero?
Perché il dottore non sa niente di questo amore rosso e caldo, dell’abbraccio in cui ci teniamo da che sei apparso nella mia vita, come avvolti in una coperta di pelliccia a guardare le fiamme di un camino grande e allegro.
È passata, alla fine, questa incredibile notte di neve. E ora, nella mattina bianca e gelida che l’ha seguita, arrancando appesa alla flebo, busso alla porta della nursery.
Mi apre un’infermiera gentile, le sorrido: «Posso vedere il mio bambino per favore?»
Sei pieno di tubicini e piccolo come un coniglietto, e non mi stupisco affatto di vederti gia’ con gli occhi spalancati a cercare di capire da che parte iniziare a gustarti la vita.
Appoggio la mani sul vetro della tua incubatrice, c’e’ li’ attaccato un biglietto con su scritto il nome che ho scelto per te, quello che sarebbe stato il mio, se fossi stata un maschio.
«Ciao topolino, vedi che il dottore si sbagliava? Noi lo sapevamo vero?»
Giri un poco la testa verso la mia voce, spalanchi un po’ di più gli occhi.
Mi hai sentita e mi hai capita.
Io lo so e tu lo sai.
Benvenuto a te, amore mio.

La terra di Ines

Ines è vecchia. Ha ancora il 6 davanti… Ma lei sa di essere vecchia.
Non sa che peso ha nell’anima e nel corpo per farla muovere così lenta, per farla rintanare sempre di più nel suo salotto, l’eterno centrino da finire tra le dita gonfie. A volte ci pensa, alzando lo sguardo dall’uncinetto che dondola, sul perchè è così vecchia.
Forse è stato tutto il lavoro nei campi di quando ero ragazzina, le gravidanze, i sacrifici. I figli sotto le braccia nei rifugi, coi bombardamenti sulla testa, che sa mai quando sarebbe toccato a loro. Le pentole vuote, i ragazzini affamati, le dita spaccate dal gelo, che a lavar panni di ricchi lungo il Naviglio, qualche soldo in più entrava in casa.
Forse ecco… è stata un poco giovane quando, ormai in pensione, coi soldi risparmiati e i figli sistemati, lei e suo marito Primo hanno deciso di realizzare l’unico sogno che si erano permessi.. lì custodito da così tanti anni. Lasciare Milano e tornare alla loro Emilia, così impressa nelle carni dell’anima da farli sentire forestieri ovunque, e costruire la loro casa.
Aveva, l’orto, il frutteto, il pollaio e la conigliera… lo scantinato per le sementi e gli attrezzi. È stato il Primo a costruire tutto, mattone per mattone, ripiano per ripiano.
Il Primo, che in un giorno qualsiasi, lui che mai si era ammalato, ha perso la luce negli occhi, si è messo a letto e mai più si è alzato. Ecco, quel giorno che è rimasta in piedi di fianco a quella fossa al camposanto, Ines è tornata vecchia.
Ha messo nei bauli tutti i vestiti del Primo, ha preso due ragazzoni che si occupano di tutto, e lei fa centrini tutto il giorno, nel salotto buono degli ospiti, dove ormai non ci entra più nessuno.
Si alza con fatica solo per metter su una pastina, un uovo sodo, e poi rimette l’uncinetto tra le dita, tanto prima o poi il Primo la viene a prendere. Ma un giorno è accaduto che una delle sue figlie, in eta’ in cui di gravidanze non se ne dovrebbero far più, ha messo al mondo questa nuova bambina.
E questa cosa proprio l’ha messa in subbuglio, turbando quella lentezza immutabile che lei ha deciso essere l’unico spazio in cui sopravvivere. Vengono tutti i fine settimana, la figlia, il genero e questa piccina che, Dio la perdoni, proprio la Ines non sopporta. Le vuole bene, certo, si deve voler bene ai nipoti, per forza è così.
E lei ci prova, ci prova veramente, ma appena la vede dalla finestra, che inizia a saltare dall’orto al granaio, e poi nel frutteto, e mette quelle manine dappertutto, il respiro le si fa corto, piena di fastidio nel petto per tutta quest’aria bizzarra che questa bimba sparge in giro.
Arriva poi un giorno in cui gliela lascian lì una domenica mattina: «Mamma andiamo ad una sagra di paese lontana, la bimba si annoia, la lasciamo con te va bene»?
Vorrebbe urlare Ines… che no, non va bene e proprio non vuole… Ma come sempre nella vita, sorride e annuisce. E inizia questa domenica terribile. Ines la chiama dalla finestra: «Bimba non andar lì, bimba lascia stare le galline che le spaventi, bimba esci dal granaio, che se se si rovescia un sacco ti schiaccia».
Ferma alla finestra, con il respiro veloce che appanna il vetro, Ines pensa che se poi la bimba si fa male, la figlia e il genero avranno da ridire.. Sospira esausta, posa il centrino e inizia a scendere le scale che portano all’orto.
«Bimba, bimba dove sei?»
Esce da dietro un muro, sudata, con la magliettina sporca di terra e questi occhietti da furetto che scoppiettano.
«Nonna nonna… Ho scoperto dei tesori bellissimi, te li faccio vedere, vieni vieni vieni..»
La tira per un dito, e lei vorrebbe scrollar via quelle manine sporche, e dirle che lo sa bene cosa c’è nella sua terra, che il suo Primo ha costruito pezzo per pezzo. Ma sorride di sforzo, e si fa trascinare nel granaio.
«Nonna prova, se infili la mano nei sacchi, i chicchi le si mettono tutti attorno e la accarezzano.. E poi nonna, se metti dentro la faccia e respiri, senti che profumo di pane e biscotti».
Sospira Ines: “Va bene lo faccio, magari poi la bimba si mette tranquilla”.
Non si ricordava cosa fosse infilare una mano nei sacchi… Il miglio, il mais, il grano, la crusca… Quel profumo di forno e di pastone. Segue la bimba ad ogni sacco, finché questa le prende ancora il dito e lo tira: «Ora nonna vieni a conoscere le galline, sono diventata amica di tutte».
E lentamente Ines arranca al pollaio, il dito stretto non da’ più così fastidio.
Ed ecco la Nerina, la Parlante, la Fosca, la Lulù… Perchè Primo dava a ciascuna un nome, anche se poi finivano tutte nella pentola. E le vengono attorno chiocciando, e riesce ad abbassarsi quel tanto che basta per sfiorare le loro piume.
Che non ricordava fossero così morbide.
La bimba ride e le tira il dito, perché a quella piccola età, c’è troppo da scoprire per soffermarsi su qualcosa… «Nonna l’orto, l’orto, vieni a vedere cosa ho trovato».
Cammina piano Ines, con le gambe gonfie… ed ecco i pomodori, le carote, le insalate. Gli alberi di susine, di pesche, di ciliegie.
La bimba davanti che saltella, e che poi le si pianta davanti con aria seria: «Ora nonna, la cosa più meravigliosa… Non si vede ma si sente… Inginocchiati di fianco a me». Mai avrebbe pensato la Ines di riuscirci, anche solo di provarci. Ma scricchiolando e gemendo, si ritrova accucciata di fianco alla bimba.
«Nonna, fai come me, infila le mani nella terra… È calda nonna, vuol dire che è viva». Infila le sue dita nella terra smossa e sì: è calda, è viva. La terra, la sua terra.
Che in una qualsiasi domenica d’estate, le ha ricordato di riprendere a vivere.
Scricchiolando e gemendo, Ines si tira in piedi.
«Bimba, andiamo, ti faccio la cioccolata». Non le tira più il dito, sorride e infila la manina nella sua.
E, pian piano, rientrano in casa.

Le Brave Mamme non abitano qui

Sai… Quelle settimane di quelle che ti fanno sospettare di essere stata dimenticata da Dio

Dove nulla è filato liscio, dove hai corso come un criceto nella ruota, senza neanche capire come hai fatto a lasciare indietro la maggior parte delle cose che dovevi fare

Sprofondando in quel tristemente noto senso di inadeguatezza che è spesso la colonna sonora delle tue giornate.

L’ultima energia rimasta la usi per riscuoterti.

Decidendo che ti meriti una coccola solo per te.

Quindi ti programmi una serata osé.

Chiamerai la pizzeria, mangerai nel cartone e sfrontatamente non lo leverai neanche dal tavolo, sdegnato dagli schizzi di sugo che resteranno a seccare tutta la notte.

Poi scalcerai le ciabatte, e sprofonderai nel divano con una coppa di prosecco gelato.

La morte dei giusti, dopo un numero indefinito di episodi di qualsiasi serie tv che abbia lo spessore culturale di un foglio di carta velina.

Per spegnere i pensieri, mandarli in fondo alla nuca, tanto domani torneranno a blaterare.. Ma stasera stiano in cantina.

Con un ghigno sotto i baffi, dai fondo alle ultime energie per metter via la spesa, componi contemporaneamente il numero del pizzaiolo e stai lì tutta emozionata all’idea di tanta grazia che aspetta.

Ma il figlio piccolo, con le antenne che solo i cuccioli sanno alzare, sentendo nell’aria che qualcosa di insolito sta per accadere, scende galoppando dalle scale….

“Mamma ho una fantastica idea per noi due stasera… Ci potremmo preparare un bel ciotolone di pop corn, poi andiamo insieme sul divano e ci guardiamo il film dei Transformers… Eh mamma? … Eh?… Eh?”.

Col respiro un po’ mozzo e la confezione dei broccoli ancora in mano, stai li’ a guardare quel faccino emozionato, quegli occhi che brillano.

Lo sai, lo hai letto, te l’hanno infilato nelle carni coi chiodi…

Una brava mamma, anche se stanca, trova sempre le energie per approfittare di qualsiasi occasione di condivisione con i propri figli.

Ci pensi, fai un respirone, raddrizzi le spalle.

Ti pieghi sulle ginocchia, lo abbracci, lo guardi negli occhi teneramente…

“Piccolo mio, amore bello… i Transformers mi fan schifo, e se non vuoi che la mamma si suicidi proprio stasera, prenditi i pop corn, il portatile e portatelo in camera, orari illimitati”.

Galoppa felice su per le scale, il bimbo… Il sacchetto in una mano e il portatile sotto l’ascella.

E tu plani sul divano.

Il prosecco in una mano.

Il telecomando nell’altra.

E sia.

Forse le Brave Mamme non abitano qui

Diego il Gatto

Sono una signora di mezza età con le sue abitudini.

E mi alzo all’alba per aver mezz’ora di pacioso silenzio, col caffè e la sigaretta.

Vado al lavandino della cucina, giro la testa verso la finestra e aspetto Diego il Gatto.

Che terminati i bagordi notturni, in giro per i giardini altrui, scavalca il cancelletto e salta sul davanzale.

Gli apro la finestra, ma c’è da aspettare che si contorca il suo numero di volte, prima di degnarmi del suo ingresso.

Gnaula, aspetta alla ciotola, si fa la sua bustina, si stiracchia, va sul divano e si infogna nella sua copertona rossa.

Prima di addormentarsi, mi fissa per un po’…

Sarebbe bello pensare che mi guardi con amore e gratitudine… Ma felinamente parlando, è assai più probabile che faccia considerazioni sulla vita di merda che conduco io, mentre lui sta a pastellarsi la coperta tutta mattina.

Questa è l’abitudine mia e di Diego.

Ogni mattina che Dio mette in terra.

Stamattina ero al lavandino, con le occhiaie di una mignotta a fine turno e con gli occhi talmente gonfi da far fatica a tenerli aperti.

Ho girato la testa verso la finestra, e mi sono concessa un piccolo lusso.

Ho fatto finta di vedere Diego saltare il cancelletto un’altra volta.

Ho aperto la finestra, e ho fatto finta di guardare il grassone contorcersi un’altra volta.

Ho aperto la bustina.

Ho preparato la coperta.

Per un’altra mattina.

Come tutte le mattine che Dio mette in terra.

Cosa vuoi che ti dica, Diego?

Va’ e corri nel cielo?

Va’ e vola nel cielo?

Ma va la’…dove cavolo vuoi volare e correre, gatto mio adorato?

Sei partito con uno zaino sul groppone, te lo abbiamo messo addosso noialtri quattro, la tua famiglia con le gambe.

Uno zaino che pesa un quintale, né corse e né voli, quindi..

Potrai solo camminare pian piano, con quel borsone sulla schiena.

Ma è pieno di tutto il nostro amore, e so che non ti dispiacera’ portarlo

La carezza dell’acqua

Seduta sulla barca.

Guardo il più incredibile mare che io abbia mai avuto sotto gli occhi.

Tutti si buttano… Chi si tuffa, chi si cala dalla scaletta.

Nessuno fa caso a me, tutti presi a nuotare e starnazzare.

Neanche l’acqua fa caso a me, né alle mie dita aggrappate al bordo della barca.

Mi canto le solite filastrocche.

Non importa.

Non e’ necessario.

Non è fondamentale.

Anzi, il bagnato, il sale sono sempre vagamente fastidiosi.

Ma non so che giorno è oggi, però le mie bugie hanno il suono stridulo di una campana rotta.

E il mio corpo senza permesso, si alza, mette le mani sul bordo della scaletta e inizia a scendere… L’acqua che gli accarezza il ventre e le cosce.

Ora gli urlo qualcosa.

Cosa fai, come osi.

L’acqua è pericolosa.

Non respirerai.

Soffocherai.

Annegherai.

Morirai.

Sarai inghiottito e annientato.

Ma davvero non so che giorno è oggi, questo corpo non mi ascolta.

E mi sporgo per recuperarlo, per tirarlo in salvo, sciagurato senza senno.

Ma scivolo piano anch’io, l’acqua che avvolge, e confonde, e lava la paura.

L’acqua che per la prima volta fa caso a me…

Mi sorride, mi abbraccia, mi accoglie, mi sostiene.

Apro le braccia, mi lascio andare e riprendo a respirare.

E me ne sto li’ stupefatta come fosse il primo giorno di una vita nuova.

L’acqua ci tiene.

Me e la mia paura.

E mi sfascio la bocca in un sorriso, il viso bagnato, il sale dell’acqua e delle mie lacrime.

Eri mia madre

Eri mia madre.

E non ti ringrazio della vita che mi hai dato ma della tua, di vita, che mi hai lasciato in regalo.
Le tue storie di bambina sotto le bombe della guerra.
Che, donna e madre ormai fatta, ti si vedeva ancora la paura in faccia anche per i tuoni di un temporale improvviso d’agosto.
Le storie delle tue cene di miseria, fatte di minestre d’acqua ed erbacce, mentre ci sgridavi torva per i nostri avanzi nel piatto.
Madre piena di forza e coraggio.
Che si è ribellata come una furia a tempi in cui il destino di una donna era essere solo una moglie sottomessa e un’incubatrice analfabeta.
Sei riuscita a studiare.
Sei riuscita a sederti su una poltroncina da ufficio.
Fiera del tuo vestito fine, delle tue unghie laccate di rosso che ticchettavano sulla tua macchina da scrivere.
Mentre le altre si erano arrese ancora prima di iniziare a respirare.
Eri così orgogliosa, mamma, di avercela fatta ad essere qualcosa di meglio.
Fino al giorno in cui la legge degli uomini è venuta a bussare alla tua porta, nonostante tutta la tua furia per essere chi volevi.
E ormai con la fede al dito e il ventre gonfio, sei caduta in ginocchio e ti sei dovuta arrendere.
Via lo smalto rosso, via i vestiti stretti sulla vita da vespa che avevi ormai perso.
Ti guardavo, mamma, nei tuoi grembiulacci informi, senza un filo di trucco, l’odore di candeggina e cavolfiori lessi sempre nell’aria.
Col capo sempre chino su un rammendo o su una conserva da invasare.
Nella tua rabbia dolorosa, per la vita che ti era stata negata dalle leggi degli uomini.
Nei rari momenti in cui ti vedevo con la fronte sul vetro della finestra, pensando di non essere vista, guardando tristemente oltre la strada di sotto e oltre quella vita a cui ti eri dovuta rassegnare, mamma io lo ricordo ancora.
La sera nel letto a macinare parole crociate per mantenere la mente plastica, o leggendo guide turistiche che nascondevi nel comodino, sognando di viaggi che mai avresti fatto.
E le domeniche in cui mi caricavi sul tram, per vedere palazzi e basiliche, io bimba morta di noia e tu incantata a guardare guglie e statue, con la tua guida aperta tra le mani.
Mi hai amata e odiata, mamma.
Perché vedevi in me quella stessa fame di libertà che con così tanto dolore ti eri dovuta ricacciare nello stomaco.
E mi hai inchiodato le leggi degli uomini addosso, così come avevano fatto con te.
Perché non potevi fare altrimenti, ora io lo so.
Alla fine ti ho obbedita, mamma.
Con una fede al dito anch’io, perché cosi si doveva.
Con un figlio dietro l’altro in grembo, perché altrimenti sarei stata un guscio vuoto, un ramo secco, una nullità.
Senza luce per sogni e passioni, perché ormai anche la mia strada era segnata.
Ti ho amata e odiata mamma.
Ma solo alla tua fine, ti ho compresa.
Non esistono vittime o carnefici, esiste il dare cio’ che si è ricevuto, nel bene e nel male.
E spesso sono i carnefici ad avere più ferite delle loro stesse vittime.
Tu non lo sapevi, mamma, ma ora io lo so.
Di generazione in generazione.
Di madre in figlia.
Alla fine si perdona, mamma.
Se stesse e i propri avversari.
Tu ed io.
Ho iniziato a perdonare il giorno in cui ti ho accarezzato i capelli, bianchi e fini come ragnatele, che tu già te n’eri andata.
E anno dopo anno, cadendo e rialzandomi, a volte correndo, a volte trascinandomi, sai cos’ho fatto mamma?
Ho preso quelle leggi degli uomini maledette, una per una, e le ho lanciate contro ogni muro che ho incontrato.
Si sono schiantate in mille pezzi.
Le guardo a terra.. Alcune ridotte in briciole.
Altre ancora vibrano chiedendo imperiosamente rispetto.
Mi turbano, mi spaventano, alcune hanno ancora il potere di chiedere alla mia testa di abbassarsi ancora una volta.
Ma sto imparando a girare lo sguardo lontano da loro.
Verso tutte le possibilità che non hai avuto e che potrò avere io.
Verso la vita che avresti voluto.
Che alla fine sei riuscita a far avere a me.
Perché ad ogni legge degli uomini che ho preso in mano e scagliato contro un muro, tra le mie dita, erano intrecciate le tue.
Vedi mamma, ti ho vendicata alla fine….

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