Tutti gli articoli di Eleonora Rocci

Le Brave Mamme non abitano qui

Sai… Quelle settimane di quelle che ti fanno sospettare di essere stata dimenticata da Dio

Dove nulla è filato liscio, dove hai corso come un criceto nella ruota, senza neanche capire come hai fatto a lasciare indietro la maggior parte delle cose che dovevi fare

Sprofondando in quel tristemente noto senso di inadeguatezza che è spesso la colonna sonora delle tue giornate.

L’ultima energia rimasta la usi per riscuoterti.

Decidendo che ti meriti una coccola solo per te.

Quindi ti programmi una serata osé.

Chiamerai la pizzeria, mangerai nel cartone e sfrontatamente non lo leverai neanche dal tavolo, sdegnato dagli schizzi di sugo che resteranno a seccare tutta la notte.

Poi scalcerai le ciabatte, e sprofonderai nel divano con una coppa di prosecco gelato.

La morte dei giusti, dopo un numero indefinito di episodi di qualsiasi serie tv che abbia lo spessore culturale di un foglio di carta velina.

Per spegnere i pensieri, mandarli in fondo alla nuca, tanto domani torneranno a blaterare.. Ma stasera stiano in cantina.

Con un ghigno sotto i baffi, dai fondo alle ultime energie per metter via la spesa, componi contemporaneamente il numero del pizzaiolo e stai lì tutta emozionata all’idea di tanta grazia che aspetta.

Ma il figlio piccolo, con le antenne che solo i cuccioli sanno alzare, sentendo nell’aria che qualcosa di insolito sta per accadere, scende galoppando dalle scale….

“Mamma ho una fantastica idea per noi due stasera… Ci potremmo preparare un bel ciotolone di pop corn, poi andiamo insieme sul divano e ci guardiamo il film dei Transformers… Eh mamma? … Eh?… Eh?”.

Col respiro un po’ mozzo e la confezione dei broccoli ancora in mano, stai li’ a guardare quel faccino emozionato, quegli occhi che brillano.

Lo sai, lo hai letto, te l’hanno infilato nelle carni coi chiodi…

Una brava mamma, anche se stanca, trova sempre le energie per approfittare di qualsiasi occasione di condivisione con i propri figli.

Ci pensi, fai un respirone, raddrizzi le spalle.

Ti pieghi sulle ginocchia, lo abbracci, lo guardi negli occhi teneramente…

“Piccolo mio, amore bello… i Transformers mi fan schifo, e se non vuoi che la mamma si suicidi proprio stasera, prenditi i pop corn, il portatile e portatelo in camera, orari illimitati”.

Galoppa felice su per le scale, il bimbo… Il sacchetto in una mano e il portatile sotto l’ascella.

E tu plani sul divano.

Il prosecco in una mano.

Il telecomando nell’altra.

E sia.

Forse le Brave Mamme non abitano qui

Diego il Gatto

Sono una signora di mezza età con le sue abitudini.

E mi alzo all’alba per aver mezz’ora di pacioso silenzio, col caffè e la sigaretta.

Vado al lavandino della cucina, giro la testa verso la finestra e aspetto Diego il Gatto.

Che terminati i bagordi notturni, in giro per i giardini altrui, scavalca il cancelletto e salta sul davanzale.

Gli apro la finestra, ma c’è da aspettare che si contorca il suo numero di volte, prima di degnarmi del suo ingresso.

Gnaula, aspetta alla ciotola, si fa la sua bustina, si stiracchia, va sul divano e si infogna nella sua copertona rossa.

Prima di addormentarsi, mi fissa per un po’…

Sarebbe bello pensare che mi guardi con amore e gratitudine… Ma felinamente parlando, è assai più probabile che faccia considerazioni sulla vita di merda che conduco io, mentre lui sta a pastellarsi la coperta tutta mattina.

Questa è l’abitudine mia e di Diego.

Ogni mattina che Dio mette in terra.

Stamattina ero al lavandino, con le occhiaie di una mignotta a fine turno e con gli occhi talmente gonfi da far fatica a tenerli aperti.

Ho girato la testa verso la finestra, e mi sono concessa un piccolo lusso.

Ho fatto finta di vedere Diego saltare il cancelletto un’altra volta.

Ho aperto la finestra, e ho fatto finta di guardare il grassone contorcersi un’altra volta.

Ho aperto la bustina.

Ho preparato la coperta.

Per un’altra mattina.

Come tutte le mattine che Dio mette in terra.

Cosa vuoi che ti dica, Diego?

Va’ e corri nel cielo?

Va’ e vola nel cielo?

Ma va la’…dove cavolo vuoi volare e correre, gatto mio adorato?

Sei partito con uno zaino sul groppone, te lo abbiamo messo addosso noialtri quattro, la tua famiglia con le gambe.

Uno zaino che pesa un quintale, né corse e né voli, quindi..

Potrai solo camminare pian piano, con quel borsone sulla schiena.

Ma è pieno di tutto il nostro amore, e so che non ti dispiacera’ portarlo

La carezza dell’acqua

Seduta sulla barca.

Guardo il più incredibile mare che io abbia mai avuto sotto gli occhi.

Tutti si buttano… Chi si tuffa, chi si cala dalla scaletta.

Nessuno fa caso a me, tutti presi a nuotare e starnazzare.

Neanche l’acqua fa caso a me, né alle mie dita aggrappate al bordo della barca.

Mi canto le solite filastrocche.

Non importa.

Non e’ necessario.

Non è fondamentale.

Anzi, il bagnato, il sale sono sempre vagamente fastidiosi.

Ma non so che giorno è oggi, però le mie bugie hanno il suono stridulo di una campana rotta.

E il mio corpo senza permesso, si alza, mette le mani sul bordo della scaletta e inizia a scendere… L’acqua che gli accarezza il ventre e le cosce.

Ora gli urlo qualcosa.

Cosa fai, come osi.

L’acqua è pericolosa.

Non respirerai.

Soffocherai.

Annegherai.

Morirai.

Sarai inghiottito e annientato.

Ma davvero non so che giorno è oggi, questo corpo non mi ascolta.

E mi sporgo per recuperarlo, per tirarlo in salvo, sciagurato senza senno.

Ma scivolo piano anch’io, l’acqua che avvolge, e confonde, e lava la paura.

L’acqua che per la prima volta fa caso a me…

Mi sorride, mi abbraccia, mi accoglie, mi sostiene.

Apro le braccia, mi lascio andare e riprendo a respirare.

E me ne sto li’ stupefatta come fosse il primo giorno di una vita nuova.

L’acqua ci tiene.

Me e la mia paura.

E mi sfascio la bocca in un sorriso, il viso bagnato, il sale dell’acqua e delle mie lacrime.

Eri mia madre

Eri mia madre.

E non ti ringrazio della vita che mi hai dato ma della tua, di vita, che mi hai lasciato in regalo.
Le tue storie di bambina sotto le bombe della guerra.
Che, donna e madre ormai fatta, ti si vedeva ancora la paura in faccia anche per i tuoni di un temporale improvviso d’agosto.
Le storie delle tue cene di miseria, fatte di minestre d’acqua ed erbacce, mentre ci sgridavi torva per i nostri avanzi nel piatto.
Madre piena di forza e coraggio.
Che si è ribellata come una furia a tempi in cui il destino di una donna era essere solo una moglie sottomessa e un’incubatrice analfabeta.
Sei riuscita a studiare.
Sei riuscita a sederti su una poltroncina da ufficio.
Fiera del tuo vestito fine, delle tue unghie laccate di rosso che ticchettavano sulla tua macchina da scrivere.
Mentre le altre si erano arrese ancora prima di iniziare a respirare.
Eri così orgogliosa, mamma, di avercela fatta ad essere qualcosa di meglio.
Fino al giorno in cui la legge degli uomini è venuta a bussare alla tua porta, nonostante tutta la tua furia per essere chi volevi.
E ormai con la fede al dito e il ventre gonfio, sei caduta in ginocchio e ti sei dovuta arrendere.
Via lo smalto rosso, via i vestiti stretti sulla vita da vespa che avevi ormai perso.
Ti guardavo, mamma, nei tuoi grembiulacci informi, senza un filo di trucco, l’odore di candeggina e cavolfiori lessi sempre nell’aria.
Col capo sempre chino su un rammendo o su una conserva da invasare.
Nella tua rabbia dolorosa, per la vita che ti era stata negata dalle leggi degli uomini.
Nei rari momenti in cui ti vedevo con la fronte sul vetro della finestra, pensando di non essere vista, guardando tristemente oltre la strada di sotto e oltre quella vita a cui ti eri dovuta rassegnare, mamma io lo ricordo ancora.
La sera nel letto a macinare parole crociate per mantenere la mente plastica, o leggendo guide turistiche che nascondevi nel comodino, sognando di viaggi che mai avresti fatto.
E le domeniche in cui mi caricavi sul tram, per vedere palazzi e basiliche, io bimba morta di noia e tu incantata a guardare guglie e statue, con la tua guida aperta tra le mani.
Mi hai amata e odiata, mamma.
Perché vedevi in me quella stessa fame di libertà che con così tanto dolore ti eri dovuta ricacciare nello stomaco.
E mi hai inchiodato le leggi degli uomini addosso, così come avevano fatto con te.
Perché non potevi fare altrimenti, ora io lo so.
Alla fine ti ho obbedita, mamma.
Con una fede al dito anch’io, perché cosi si doveva.
Con un figlio dietro l’altro in grembo, perché altrimenti sarei stata un guscio vuoto, un ramo secco, una nullità.
Senza luce per sogni e passioni, perché ormai anche la mia strada era segnata.
Ti ho amata e odiata mamma.
Ma solo alla tua fine, ti ho compresa.
Non esistono vittime o carnefici, esiste il dare cio’ che si è ricevuto, nel bene e nel male.
E spesso sono i carnefici ad avere più ferite delle loro stesse vittime.
Tu non lo sapevi, mamma, ma ora io lo so.
Di generazione in generazione.
Di madre in figlia.
Alla fine si perdona, mamma.
Se stesse e i propri avversari.
Tu ed io.
Ho iniziato a perdonare il giorno in cui ti ho accarezzato i capelli, bianchi e fini come ragnatele, che tu già te n’eri andata.
E anno dopo anno, cadendo e rialzandomi, a volte correndo, a volte trascinandomi, sai cos’ho fatto mamma?
Ho preso quelle leggi degli uomini maledette, una per una, e le ho lanciate contro ogni muro che ho incontrato.
Si sono schiantate in mille pezzi.
Le guardo a terra.. Alcune ridotte in briciole.
Altre ancora vibrano chiedendo imperiosamente rispetto.
Mi turbano, mi spaventano, alcune hanno ancora il potere di chiedere alla mia testa di abbassarsi ancora una volta.
Ma sto imparando a girare lo sguardo lontano da loro.
Verso tutte le possibilità che non hai avuto e che potrò avere io.
Verso la vita che avresti voluto.
Che alla fine sei riuscita a far avere a me.
Perché ad ogni legge degli uomini che ho preso in mano e scagliato contro un muro, tra le mie dita, erano intrecciate le tue.
Vedi mamma, ti ho vendicata alla fine….

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