Tutti gli articoli di Davide Cinquanta

C’era una Volta, nello stesso Tempo

Tutte le ragazze di qualsiasi tempo sognano di sposare il Principe. Avevo questo sogno anch’io, ne parlavo per interminabili notti con il mio diario, l’amico più intimo che abbia mai avuto. Ahimé, chissà che fine avrà fatto. Sarà rimasto nella vecchia casa, dove nessuno l’ha mai più cercato, nemmeno quei due fratelli che avevano battuto ogni contrada della regione a caccia di storie.

Di uomini ce ne sono tanti, ma di Principe ce n’è uno solo. Sposarsi, è tutta qui la chiave del successo. Conquista un uomo onesto e sarai rispettabile, sposa un uomo incostante e sarai una disgraziata, vivendo nel riflesso dei suoi vizi. Puoi sperare in un colpo di fortuna oppure prendere parte alla corsa per colpirli, interessarli, convincerli ad investire.

Da sola non arrivi da nessuna parte, e se ci arrivi ti ritrovi a pezzi, irriconoscibile, sfigurata dai compromessi e con l’anima martoriata dai ricatti.

Nostra madre restò vedova quando ancora eravamo fanciulle. Fu in quei duri mesi che ci forzò a studiare canto e pianoforte, per quanto non fossimo particolarmente portate per la musica. Mentre affinavamo i nostri talenti, il volto di nostra madre si riempì di rughe d’apprensione e, consumandosi lentamente d’angoscia per il futuro di tutte noi, diventò inflessibile, severa, e spietata.

Grazie alla Provvidenza, di lì a poco si risposò con un uomo per bene, agiato e frequentemente lontano per affari. Era chiaro, a me e a mia sorella, che nostra madre aveva giocato bene le sue carte, anche quelle che non aveva. Ci trasferimmo a vivere nella grande casa del nostro patrigno, un palazzo vecchio ma decoroso, con una bella tenuta.

Un semplice sguardo di nostra madre spazzò via la nostra timidezza e varcammo quella soglia col mento alto, forse sentendoci già un poco regine ma, disgraziatamente, non eravamo sole.

Il nostro patrigno aveva una figlia, una ninfa dei boschi dagli occhi sognanti, terribilmente innocenti. Il suo sorriso, un incantesimo potente, ogni suo boccolo dorato era un’opportunità in più rispetto a quelle che la sorte aveva riservato a me. Da lì a pochi anni il salotto sarebbe stato frequentato da file di pretendenti, tutti interessati alla bella e ricca figlia del mercante. Ad asta terminata saremmo rimaste noi fondi di magazzino.

Allora ci detergemmo la coscienza con la perfidia di nostra madre e demmo inizio a quel gioco strano, che ci divertiva e ci teneva occupate durante le lunghe giornate in casa. Le imbrattavamo il viso, i capelli e i vestiti con la cenere, la obbligavamo poi ad umiliarsi, facendole mangiare la terra impastata con le sue stesse lacrime. Ci consolavamo così, giocando alle padrone.

Una mattina sentimmo bussare alla porta. Ricevendo poche visite ci vestimmo in fretta e ci precipitammo ad accogliere le notizie in arrivo. Un messaggero reale lasciò nelle mani di mia madre un invito rivolto alla nostra famiglia, a prendere parte al gran ballo di Palazzo. Con l’occasione il Principe avrebbe scelto la sua sposa.

Non vedevo il Principe da tempo, da quando eravamo stati ufficialmente presentati al mio primo ballo, chissà se si ricordava di me. Lui era giovane e prestante, dai modi inappuntabili. Non so se fossero gli occhi celesti o la corona, portata con uno stile quasi personale, ma per quei pochi attimi passati insieme mi era piaciuto.

Giorni interi di preparativi, mia madre, mia sorella e io ci presentammo al gran ballo nella nostra forma migliore. Gioielli lucidati fino a far sanguinare le dita, stoffe di prima scelta, capelli intrecciati con la minuzia di una ricamatrice. Mi sentivo come se tutti gli occhi del regno mi guardassero, conducendomi lungo il tappeto rosso più importante della mia vita.

Sporgevo lo sguardo oltre la folla e lo vedevo volteggiare a tempo di musica, non riuscendo mai a capire con chi avesse dato inizio alle danze. La gente si accalcava muta attorno al centro della sala, con gli occhi incantati puntati su quella coppia come se stesse assistendo a un prodigio. Quando finalmente riuscii a distinguere bene il Principe e la sua incantevole dama rimasi paralizzata, un brivido gelido si propagò per tutto il mio corpo, dai piedi alle braccia, fino alle lacrime.

Non riuscivo a spiegarmi come fosse arrivata fino a quella sala, con un vestito intessuto di fili d’argento e lievi scarpette di cristallo ai piedi, ma avrei riconosciuto quei capelli biondi in meno di un secondo fra tutte le teste presenti quella sera. Finii lo champagne che avevo nel bicchiere, ne chiesi un altro, assaporai anche quell’ultimo sorso di magia e con mia madre e mia sorella ritornai a casa.

La mattina seguente il messaggero reale bussò nuovamente alla nostra porta, con un’insistenza maggiore rispetto alla prima volta. Entrò e si accomodò, reggeva un cuscino di raso tinto di porpora, su cui mostrava una piccola e perfetta scarpetta di cristallo. Qualsiasi cosa fosse andata storta dopo che avevamo lasciato la sala, il Principe voleva ritrovare l’incantevole dama con cui aveva danzato tutta la sera, avrebbe sposato senza indugiare la fanciulla il cui piede avrebbe calzato quel minuscolo tesoro.

La nostra bionda sorella doveva aver lasciato il Palazzo con una certa fretta, peggio per lei. Andai in cucina e con un coltello affilato mi tagliai di netto le dita del piede. Indossai con facilità la scarpetta, ma fui tradita da un filo di sangue che colava silenzioso lungo il tacco.

Mi sedetti in un angolo piangendo dal dolore, in quel medesimo momento lei si faceva avanti, indossava la scarpetta con leggerezza e in uno schiocco di dita raggiungeva il Principe che la aspettava trepidante all’altare.

All’uscita della chiesa due colombe bianche si posarono sulla sua spalla. Come però il suo sguardo si incontrò con il mio, sussurrò una parola e i due uccelli si alzarono in volo. Raggiunsero me e mia sorella e ci cavarono gli occhi.

Ci ritrovammo così, al centro di una folla festante, noi punite con la cecità, e lei con la sua innocenza avvelenata dalla vendetta, costrette a guardare in faccia il futuro senza nessuna gloria, forse avrebbe potuto finire diversamente. Se fossimo state unite.

La Fiamma del Drago

Un tuono. Un fragore improvviso che squarcia l’estate, il cielo si richiude su se stesso catturando l’aria sotto al suo mantello. Cala una notte cupa e inattesa che impone le sue leggi, spegnendo il tramonto con un soffio di aria fredda.

Una fila vociante di bambini varca la porta della biblioteca, accompagnati per mano dai grandi che, chiacchierando fra loro, di tanto in tanto si distraggono e si lasciano sfuggire qualche rincorsa e spintone. Sfilano uno dopo l’altro davanti al bancone dietro al quale, rigida nella sua postazione, Malva li osserva. Cerca di rimanere seminascosta dalla pila di libri da catalogare, non può sottrarsi però al saluto cordiale di alcuni dei frequentatori più abituali. Per quanto si sforzi di risultare antipatica, col desiderio di essere lasciata in pace a rimuginare sul suo passato, c’è sempre qualcuno che si mostra lieto di incontrarla.

Ormai consumata dal disappunto a Malva risulta sempre più difficile comprenderli. Non sembra anziana, forse dimostra una certa età per via del suo modo di vestirsi così intessuto di trascuratezza e insoddisfazione. Tuttavia ogni congettura sui suoi anni si rivela inutile, più che un segreto ben tenuto la data della sua nascita ha tutte le sembianze di un autentico mistero, come se si parlasse di epoche lontane.

Dall’altro lato dei suoi occhiali i bambini corrono verso l’angolo dei giochi, cercano il loro preferito rovistando nelle ceste, ridono del loro disordine mentre le chiacchiere degli adulti formano un costante brusio. Malva ne ha vista tanta di confusione nella sua vita, non è il trambusto a disturbarla, ma spensieratezza e gioia, certa ormai che i suoi giorni lieti se ne siano andati e non ritorneranno più. Non sopporta le aperture serali della biblioteca, ma non può negare che qualche ora di straordinario le faccia comodo. Un altro rimpianto, mai nella sua esistenza ha dovuto preoccuparsi della sua sopravvivenza, come in questo tempo.

Il tormento di tali emozioni rimbomba tra le sue tempie. Mentre osserva le persone che affollano la biblioteca solleva un sopracciglio, il destro, ma non per qualche inconscio riflesso, nessuna delle azioni da lei compiute è mai stata involontaria. In quello stesso istante un tuono tremendo fa tremare i vetri della stanza, una pioggia nera comincia a battere sui muri ammutolendo il mormorio delle voci all’interno. Gli adulti si affrettano a salutare i bambini e corrono via, verso i portici al di là della strada.

Rimane soltanto un ragazzo insieme ai piccoli avventori, li richiama intorno a sé e li fa sedere su un tappeto, circondati da giocattoli di legno e libri colorati.

“Questa sera raccontiamo una storia… la volete sentire?”

“Sìììì!” Rispondono in coro i bambini.

“Questa però non è una storia come le altre, lo sapete perché? È una storia vera…”

“Le storie non sono vere!” Commenta una bambina.

“Chi lo può mai dire? È successo tanti anni fa, qualcuno ci crederà, qualcuno no.”

Lo sguardo di Malva si sporge oltre lo schermo del computer, curioso di ascoltare.

“Lo sapevate che mille anni fa, proprio dove oggi si trova il vostro paese, si estendeva un’immensa palude, la terra era ricoperta da un velo d’acqua da cui emergevano isole, umide boscaglie e canneti, formando un intricato labirinto dove si procedeva solo a bordo di lente imbarcazioni con il fondo piatto. Una volta avventuratisi in mezzo agli acquitrini era difficile orientarsi e si potevano perdere i punti di riferimento, rimanendo invischiati fra vegetazione e fanghi insidiosi. Le acque si estendevano per chilometri e chilometri, la palude diventava un lago immenso su cui la nebbia non si sollevava mai. Gli abitanti delle città, Lodi, Crema, Cassano, al sicuro dentro le loro spesse mura di pietra, lo chiamavano Lago Gerundo.

“Questa brava gente, rispettosa delle leggi e osservante dei precetti religiosi, si guardava bene dall’inoltrarsi oltre le rive del lago. Sapeva che al di là di quel muro di quel muro di nebbia si aggiravano spettri, un popolo che parlava una lingua antica, venerava déi pagani e offriva sacrifici al Drago. Il nome di questa temibile creatura era…”

“Tarantasio…” Sussurra Malva allo scoppio lontano di un nuovo tuono.

“Tutti quanti sappiamo che cosa si fa quando un paese è infestato da un drago, giusto? Bravi, si chiama un valoroso cavaliere per ucciderlo e liberare il contado dall’orrendo flagello. Volete sapere come si chiama l’eroe che sconfisse Tarantasio? Non ve lo posso dire, poiché nessun avventuriero che si fosse inoltrato nel Gerundo a caccia del mostro è mai tornato.

“Nel corso dei secoli il lago è stato bonificato, vuol dire che sono stati scavati dei canali che hanno permesso a tutta l’acqua di defluire, lasciando al suo posto una grande e fertile pianura. Forse il Gerundo si è portato via con sé il suo terribile drago, chi potrà mai saperlo? Scomparve così, senza lasciare traccia.”

Un nuovo boato fa sussultare i bambini sul tappeto, una lama di luce strazia quel buio corporeo che inghiotte il mondo oltre i vetri delle finestre. Le lunghe lampade al neon sul soffitto della biblioteca emettono un inquietante ronzio fino a spegnersi. Per un momento vi sono solo buio e silenzio, poi qualche bambino comincia a gridare ma il ragazzo li rassicura, non è successo nulla, è solo un’interruzione dell’elettricità.

Un bambino si alza e cammina verso il banco dei prestiti. Malva lo sente arrivare, piccolo e impaurito ma determinato a non lasciarsi sopraffare dall’oscurità che lo circonda. Si avvicina alla bibliotecaria, avverte soltanto il profumo erbaceo dei suoi vestiti, la sente che armeggia con alcuni oggetti finché come per incanto i suoi occhi increduli tornano a vedere.

Ciò che scorge è il volto della bibliotecaria rischiarato da una luce tremolante, le sue labbra contratte soffiano piano sullo stoppino di una candela. Non ha in mano altro che questa, il suo respiro calmo, infuocato,e la fiamma che divampa davanti alla sua bocca.

L’Uomo del Vento

If it hadn’t been for Cotton Eye Joe

I’d been married long time ago

vecchia ballata degli anni Novanta

Alla gente di qui non piace il vento, forse perché è segno del tempo che cambia. Ecco, in questo quel diavolo di Joe è diverso dagli altri, lui non si affida alle previsioni del meteo, ma segue liberamente la direzione di cicloni e anticicloni.

Qualche giorno fa è ricomparso dal niente, da quella sconfortante mancanza di risposte che se l’era portato via. Il suo passo sprezzante contro il sole estivo, si è guardato intorno pensando a quanto fosse cambiato il paese dal giorno in cui se n’era andato. Ha proseguito attraverso la piazza con una smorfia compiaciuta.

Ho riconosciuto all’istante la sua andatura invulnerabile, da autentico pistolero. Ho posato il Campari sul tavolino e ho alzato il braccio per attirare la sua attenzione. Ho sentito risorgere quella sensazione lontana nel tempo, di incontenibile bisogno di avere la sua attenzione, da cui nessuno di mia conoscenza è mai stato immune.

Mi è venuta una voglia matta di ridere. Joe mi ha notato e il suo passo si è fatto più rapido, ha attraversato tutta la piazza nella mia direzione. Avvicinandosi ha calpestato sguardi come blocchetti di porfido, la gente di qui ha la tendenza a dimenticarsi del passato, tanto più se si offre loro da bere, ma non sempre.

Ho visto Joe guardarsi intorno con quei suoi occhi marroni sempre fissi sul mondo, e il sorriso aperto di chi crede con fiducia nel minuto successivo. “Hey!” mi ha gridato “Non posso crederci, sto via trent’anni e ti ritrovo esattamente come ti ho lasciato! Cioè seduto a bere, ma qui è incredibile, è cambiato tutto…”

“Ciao Joe…” ho risposto “Hai ragione, la piazza e i palazzi sono recenti, danno al posto un’aria più rispettabile.”

Si è seduto davanti a me e ha chiamato la ragazzina in shorts per ordinare una birra.

“Dimmi di te, che combini?”

“Le solite cose, e tu? Sei scomparso, non mi sarei mai aspettato di…”

“Ridendo e scherzando, trent’anni… ero partito per quella corsa di moto, in Romagna, poi ho lavorato, sono stato molto molto impegnato, mi sono concentrato sulla carriera sai… mi sono fatto strada nella vendita di ricambi e da lì ho cominciato a viaggiare, anche all’estero, soprattutto Spagna.”

“Quindi… ti sei rifatto una vita?”

“Ma no, che dici? Non mi sono mai fermato, sempre a pensare al lavoro, oggi qui, domani là… quando lavori così poi i risultati cominciano ad arrivare, si guadagna bene nel mio settore se sei bravo.”

“E adesso che fai?”

“Ho ancora qualche aggancio in giro, clienti di lunga data, ma sto rallentando, sai? Vorrei dedicarmi di più a me stesso, ritagliarmi i miei spazi, ma… a proposito… che cosa mi racconti di Dina, sta bene?”

“Mi stai davvero chiedendo di Dina?”

“Sì… lei è ancora qui in paese? Vi vedete ogni tanto?”

“Sempre…”

“Meno male, la vorrei vedere!”

“Calmati Joe, sono trent’anni che non ti fai vedere, abbi pazienza…”

“Io questa cosa te la devo dire, e la posso dire soltanto a te, ci conosciamo da un’intera vita e sai bene come e perché. La conobbi all’inizio del tempo, poi un giorno la vidi per la prima volta, aveva avuto il permesso di rimanere fuori la sera e si era cambiata appena uscita dalla porta. Stava ridendo insieme agli altri, appoggiata al parapetto bianco e nero di un piccolo fosso che attraversava il paese, fin da quel momento e in tutti gli altri attimi della sua vita Dina sarebbe stata più grande di quello che in realtà era. E non parlo solo di un bacio di rossetto o di stivali alti, ma di quell’allegra sofferenza che le galleggiava negli occhi. Come arrivai al ponte vidi i sorrisi delle ragazze brillare, emettere scintille flebili come lucciole d’estate. Dina osservava nella stessa direzione delle altre sue amiche, quindi guardava me, dissi così la prima frottola che mi passava per la testa per distrarla dal tremore delle mie gambe. Quella però era la giovane donna più straordinaria che avessi mai incontrato, ascoltava le mie chiacchiere senza perdersi uno solo dei brividi che affioravano sulla mia pelle.”

“Va bene Joe…” l’ho interrotto “Ma non penso che Dina abbia così tanta voglia di rivederti…”

“Perché dici così? Sono ritornato perché non è mai passato giorno senza che pensassi a lei!”

“Sei partito una mattina dicendole che saresti stato via soltanto per un fine settimana, e da quel momento non ti sei più fatto né vedere né sentire. Le hai distrutto la vita e dopo qualche mese, è nato suo figlio. Che cosa hai pensato quel giorno, Joe? Che cosa ti è successo, chi hai seguito?”

Joe si è ammutolito e la sua faccia è diventata scura, di una tristezza limpida e chiara, che non può somigliare ad altro che a sé stessa.

“È difficile dirlo, forse mi sono reso conto che avevo bisogno di cambiare aria.”

“Le avevi promesso che sareste stati insieme…”

“Lo so, ho sbagliato, chissà se potrà mai perdonarmi. Hey! Mi faccio portare un’altra birra, la settimana scorsa sono andato dal medico, e non mi ha dato una buona notizia.”

“Non dirmi più niente Joe, dillo a lei… Dina sta arrivando.”

È comparsa sotto al portico con i capelli raccolti, la pelle abbronzata ed un vestito leggero, ha salutato con un sorriso i vari tavoli che piano piano si stavano riempiendo per l’aperitivo. Non è soltanto bellissima, ha anche un cuore enorme, due occhi che malgrado il tempo non mi hanno mai perso di vista. Pensando rapidamente a come cavarmela in quella situazione paradossale, cercando le parole migliori per accogliere tutti in uno sconclusionato viaggio nel tempo, ho sentito alzarsi un soffio di brezza, un sollievo quantomai agognato in una giornata così calda. Mi sono voltato, ma Joe se n’era già andato via.

Il pescatore errante dell’Asia

Me lo racconti ancora, papà? Mi racconti di quando ad Aral c’era il mare?

La testa si riempie di sogni se si vive di un sussidio statale e poco altro, il tempo scorre tumultuoso come acqua nelle fogne e la puzza sale al cervello, i pensieri muoiono e marciscono diventando incubi terribili. Levent è troppo giovane per essere vaccinato contro il vaiolo, per aver visto uomini e cani partire per lo spazio, per aver assistito alla caduta dello Stato, per aver sperato nella democrazia e per aver visto il mare. Sebbene nato dopo tutto, ignorante di un passato troppo lungo, non gli serve certo un’illuminazione per accorgersi che lì intorno è tutto uno schifo. Basta guardare i volti dei più grandi, che tengono dentro agli occhi una nostalgia schiacciante, come il sole a picco che opprime il deserto intorno alla città.

È vero papà? È vero che le ragazze si vestivano bene e passeggiavano la sera sul lungomare?

Si va via quando non se ne può più. Se il lavoro non c’è non si può mai cominciare, e se mai si inizia mai si finisce. Chi lo dice che da un’altra parte le cose vadano meglio? Lo si sente dire dai camion che grugniscono tra la polvere, operai di una mattina scaricano grandi casse che contengono frutta, verdura, carne, pesce, oggetti e vestiti che sono poi venduti nei negozi. Da qualche parte devono pur arrivare.

È vero che alla stazione di Aral arrivavano le famiglie importanti dalla capitale per trascorrere le vacanze? Che la sera i teatri erano aperti e la gente usciva per assistere ai concerti? Che la mamma andava dal parrucchiere e ne usciva pettinata alla moda?

I suoi genitori gli hanno raccontato tutto questo, di come anno dopo anno la città è morta in preda ad un’agonia lenta, e secca. Levent si è fatto l’ultimo selfie quella mattina, l’ha caricato come stato su Telegram, ha ricevuto alcune reazioni dai suoi amici, poi è calato il silenzio. Più si allontana dalle ultime case più il segnale si indebolisce, ha collegato il cellulare ad una batteria che si ricarica con la luce solare, che nel deserto non mancherà. Per la traversata ha chiesto alla sua famiglia di potersi portare un asino, che è resistente, porta in groppa sia il ragazzo sia il suo essenziale bagaglio e non si cura se ad un certo punto i suoi zoccoli cominciano a scricchiolare su una distesa di sale.

Levent ha detto ai suoi genitori di voler andare nella valle dell’Amu Darya, cercare un impiego in una piantagione di cotone e mandare qualche soldo a casa, solo così li ha convinti a cedergli l’asino. Per raggiungere la fertile valle deve attraversare il mare di Aral, a piedi, perché di tutta quella grande acqua non rimane più niente. Scende lungo un lieve pendio e si ferma un poco a riposare, all’ombra dello scafo di un grande peschereccio arrugginito, appoggiato a una duna di sale. Quello appartenuto alla sua famiglia era più piccolo, si è arenato non molto lontano. C’è passato davanti poco prima e vi ha potuto leggere alcune lettere del nome della mamma.

Lo sfortunato mare di Aral era la casa di tanti pescatori che dividevano le sue fragili onde con gli uccelli acquatici, e con la vecchia flotta militare dello Zar che presidiava l’Asia centrale. La sua grande debolezza, essere un mare interno, se l’acqua non arriva più il sole e il vento lo spazzano via.

L’asino di Levent cammina lento verso una catasta di bastoni bianchi, liquidi all’orizzonte come un miraggio. Il suo sguardo confuso da quel malsano viaggiare incrocia enormi orbite vuote e inespressive, appartenute ad un pesce smisurato. Occorrono decine di passi per arrivare fino alla fine dello scheletro di quell’antico mostro acquatico. Anche suo papà avrebbe potuto vendere pregiato caviale, se avesse però comprato un peschereccio più grande.

Fra pochi giorni Levent raggiungerà finalmente l’acqua. la troverà imbrigliata da una catena di dighe e di chiuse, che cingono l’Amu Darya e lo addomesticano, ne raddrizzano le anse serpentine per convogliarlo verso distese sterminate di batuffoli bianchi.

Ha in testa una tale confusione. Dà la colpa al sole a picco, ma si accorge che nemmeno riposando all’ombra di una grande roccia i suoi pensieri riescono a trovare un senso. La storia che si è raccontato è buona, all’inizio sollevare sacchi di cotone non sarà una passeggiata, ma gli metterà in tasca qualche soldo, abbastanza da chiedere a una ragazza di uscire. Anche nella valle dell’Amu Darya le ragazze credono in Dio, quindi non dovrebbero esserci problemi. Se si lavora e si rispettano le regole le cose andranno lisce come devono andare.

Tuttavia Levent non riesce a togliersi dalla testa quegli enormi occhi fantasma del deserto, quel muso appuntito rivolto all’insù, come se cercasse disperatamente di respirare. Si risveglia ma quel sogno rimane lì: se in quelle dighe lungo il fiume si aprisse uno spiraglio, e l’acqua libera riuscisse a fluire via… il grande storione potrebbe riprendere a nuotare.

 

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