È notte. Dalla finestra aperta annuso l’odore buono della terra bagnata. A tratti penetra una brezza leggera, come a ricordarmi che fuori l’Universo respira. La luce fioca dell’abatjour illumina a mala pena le lenzuola, i gatti acciambellati accanto alle mie gambe e la pagina ancora bianca del mio diario.
Poco alla volta, fra cancellazioni e ripensamenti, il mio elenco di buoni propositi si forma nero su bianco, come note dolenti e delicate dalle mani di un pianista che improvvisa struggenti melodie.
Andare a Londra e parlare allo Speakers’ Corner. Sono abbastanza consapevole di non avere nessun messaggio da donare al mondo ma, anche, abbastanza consapevole della necessità di sposare l’effimero destino e, fra dolori e lacrime, saperci ridere sopra. Perché il riso allunga la vita e stempera la malinconia.
Vedere l’aurora boreale. Sento già sulla pelle il freddo intenso e nel cuore l’emozione di uno spettacolo che rimette in gioco l’ipotesi di un dio.
Finire il libro che sto scrivendo da dieci anni. Chissà se il mio desiderio riuscirà mai a superare la mia pigrizia. Chissà se poi è veramente un desiderio…
Partecipare a un Thanksgiving Day in America, ospitata da una famiglia che prepari il tradizionale tacchino farcito. Per la felicità mia, un po’ meno per quella del tacchino immolato come un’ostia.
Propositi in fondo leggeri come piume, perché tutto il resto non dipende da me. Avere l’uomo che amo accanto a me fino alla fine, amare, stare bene, portare gentilezza, partecipare alla costruzione di un mondo migliore dove non esistano più ingiustizie e barriere, sono i propositi che oso pronunciare solo a bassa voce, sono coloratissime gocce di speranza e desiderio che ogni notte spargo sul cuscino.
Perché nonostante tutto, io ci spero.
Quanto dura una vita? Sempre troppo poco.
Eppure ci spero.
Quante cose vorrei realizzare, prima che la luce finale si spenga…