Milano 1863
Ettore Albinò scese dal landò che ripartì scomparendo nella nebbia grigia e densa d’autunno. Nella via, i contorni delle case parevano dissolversi. Altro non restava che lo scalpitio degli zoccoli sul selciato.
Ettore era un giovane matematico catanese molto istruito e avrebbe presto ottenuto un incarico nella neonata università di Milano. In realtà, ambiva a trovare fondi per le sue ricerche sulla fisica sperimentale, studi che condivideva con un gruppo di scienziati provenienti da tutta Italia.
Nel frattempo, si guadagnava da vivere come precettore, stimatissimo dalla ricca nobiltà milanese. Per questo, si apprestava a entrare nel palazzo dei Conti Dè Pozzi
Ettore si spazzolò la cappa con le mani, calcò il cappello sulla testa e picchiò il battente contro il portone massiccio. Gli fu aperto da un lacchè.
«Buongiorno, sono il Professor Ettore Albinò», disse al valletto.
«Buongiorno Professore, prego, vogliate seguirmi, », disse l’uomo con una voce nasale.
Percorsero il cortile, poi attraverso un giardino interno, colmo di crisantemi che parevano quasi fluttuare nella foschia, giunsero allo studio dove Ettore era atteso dal Conte Giorgio Dè Pozzi. Quando entrò, fu raggiunto da un uomo elegante, austero e che aveva l’aria delle persone granitiche, saldamente aggrappate ai principi dei propri padri e dei padri dei propri padri. Un uomo d’altri tempi, pensò.
«Caro dottore Albinò, vorrei offrirvi dell’ottimo Marsala, appena giuntomi dalla Sicilia. Colore a calore a riscaldare il freddo di queste giornate», disse il Conte dopo le presentazioni. A Ettore parve di cogliere una sfumatura di tensione, come di cordialità forzata. Ne fu stupito ma accettò di buon grado, anelando ai profumi della propria terra.
Il Conte gli indicò una poltrona davanti al camino e si diresse verso la scrivania per poi tornare con due calici pieni di liquore scuro e ambrato al tempo stesso. Brindarono, ma il Conte non si sedette, piuttosto si affrancò con un braccio teso alla mensola di pietra.
Di nuovo, Ettore notò nell’uomo un certo nervosismo.
Il Conte si schiarì la voce. Questo fu l’impulso iniziale di un discorso che pareva strozzarlo: «Dottor Albinò, sono qui a ringraziarvi per aver accettato l’incarico di maestro per mio figlio Gianrico», poi, senza attendere risposta, continuò: «Ho la fortuna di avere due figli, Gianrico e Tilda. Il primo compirà otto anni, la seconda sette».
Ettore ascoltava sorseggiando il marsala, il Conte, invece, non aveva ancora assaggiato il suo.
«Gianrico è, come dire, più svogliato nelle questioni d’intelletto che non nel fioretto. Ama l’arte della spada, tanto quanto odia lo studio. Avrete un osso duro da modellare». Il Conte fece una piccola pausa e finalmente assaporò il liquore.
«Spero di essere all’altezza ma sarete voi stesso a giudicare non appena concluso il primo semestre», rispose Ettore.
Il Conte scosse la testa per annuire, poi disse: «Non è su questo che voglio mettervi in guardia, bensì …». L’uomo s’interruppe come spossato, poi riprese: «Tilda, al contrario, è… posseduta da un demone, da una sete di conoscenza. Ho ceduto alle sue insistenze, permettendole di assistere alle vostre lezioni. Ora me ne dispiaccio. In ogni caso, Tilda ha l’ordine di rimanere in silenzio. Per lei, abbiamo previsto un percorso di devozione. Ha mostrato molto interesse per la Bibbia, sapete?».
Il tono del Conte diventò imperativo: «Vi chiedo, quindi, di non considerare Tilda. Intendo dire che voi sarete il precettore solo di mio figlio maschio. Questo è tutto».
Benché lo ritenesse ingiusto, Ettore era abituato a vedere le sorelline dei suoi alunni nascoste tra le tende a spiare le lezioni. Assentì chinando il capo.
Non sapeva, Ettore, quanto gli sarebbe stato difficile mantenere la promessa.
Già alle prime lezioni, colse negli occhi di Tilda una luce che si accendeva e si spegneva come un faro: era l’interesse seguito dalla delusione.
Quando Ettore domandava a Gianrico di risolvere una semplice operazione, Tilda, seduta in fondo alla stanza, lasciava cadere le mani lungo i fianchi, annoiata. Le dita, però, indicavano sempre il risultato esatto.
Presto egli comprese che la piccola aveva una dote quasi soprannaturale. Fu così che iniziò a dare lezioni silenziose alla bambina: a Gianrico spiegava le tabelline mentre su una parte della lavagna scriveva formule per Tilda.
Un giorno, Ettore disegnò la sequenza di Fibonacci. Gianrico l’osservò, poi disse: «È una chiocciola!». Tilda gonfiò le guance, quasi sbuffando, poi tracciò nell’aria il numero successivo.
I quesiti, le formule proposte da Ettore diventarono sempre più difficili. Gianrico, ancora incagliato sulle tabelline, agitava le gambe guardando ora la lavagna,ora la finestra, senza fare caso alla sorellina che, in piedi dietro di lui, rispondeva con le mani febbricitanti: Tilda aveva in sé un genio, non un demone. Ella avrebbe portato il mondo verso nuove scoperte.
Al termine del semestre, Ettore ebbe un colloquio con il Conte.
Si era preparato un lungo discorso sull’ineluttabilità di mettere il dono di Tilda al servizio dell’umanità.
«Voi non avete rispettato i patti, signor Albinò, pertanto vi prego di subito », disse il Conte con il collo che si arrossava dalla rabbia e con un tono che non ammetteva repliche.
Ettore non poté fare di più se non sperare che quella bambina trovasse il modo per affermare le sue capacità: se non era ancora tempo, lo sarebbe stato di lì a poco.
Prima di lasciare la casa, posò sulla cattedra il trattato di fisica che aveva appena pubblicato: Teoria del tempo, s’intitolava.
Uscendo, con la coda dell’occhio vide Tilda fiondarsi sul volume.
Le sembrò un topolino che aveva trovato il formaggio.
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