Prima del consueto scambio di baci e abbracci per augurarci la buonanotte, anche stasera racconto ai miei due amati nipotini “storie” della mia infanzia. Soddisfo la loro curiosità rendendo i ricordi a misura di bambino/bambina. Sotto il piumino del lettone, ancor prima che inizi, si preoccupano di strapparmi la promessa che domani faremo la stessa cosa. In cambio mi donano ampi sorrisi d’intesa, applausi sinceri e molti grazieee. Devo a questa forma di trasmissione culturale, a me cara, il sentirmi aperta alla sincerità. Avvolta da un’intima sensazione di pura gioia, godo dell’affetto che regala essere nonna.
“”” Alla fine di ogni anno scolastico delle scuole elementari, i miei genitori decidevano di portarmi insieme alle mie due sorelle maggiori in un piccolo paese collinare, dai parenti materni. Qui avremmo trascorso l’intero periodo delle vacanze estive.
“Portare”, però, non è la parola esatta. A quei tempi, infatti, l’unico mezzo di cui disponevamo era una bicicletta da donna, un po’ arrugginita, forse di colore marrone. In quegli anni, dopo la guerra, circolavano davvero pochissime automobili. Quindi, occorreva prendere i mezzi di trasporto. Per percorrere una distanza di duecentottanta chilometri impiegavamo quasi l’intera giornata. Oggi in macchina basterebbero tre orette.
Partivamo sempre con mamma. Vivevamo in periferia e, per salire sul primo tram del mattino, uscivamo di casa all’alba. Il tram era vecchio e ci dava tremendi scossoni soprattutto quando il conducente frenava. Dopo cinquanta minuti traballanti finalmente si arrivava al capolinea, alle porte di Milano. Qui prendevamo un mezzo chiamato filobus diretto alla Stazione Ferroviaria. Il “nostro” treno era antiquato, tutto di ferro e legno. Oltre a puzzare un po’, era scomodo, rumoroso, lentissimo e si fermava in tutte le stazioni. Sferragliando sui binari produceva un acuto stridore che ci faceva fischiare le orecchie, ma ci portava solo a metà del nostro viaggio.
Per proseguire dovevamo scendere ed attendere l’arrivo di un secondo treno chiamato “Littorina”. Questo nome derivava dalla città di Littoria che oggi è chiamata Latina e si trova nella regione del Lazio. Durante quella sosta, mamma apriva il cestino del pranzo, toglieva i nostri panini e ci sollecitava ad andare a bere dalle fontanelle pubbliche. Non so se le conoscete. Erano a spruzzo e fornivano acqua pulita lungo tutti i marciapiedi delle stazioni. Ricordo benissimo che, dovendo chinare la testa per bere dallo zampillo che saliva dal basso verso l’alto, tagliente come una lama l’acqua mi entrava nelle narici. Dal secondo treno scendevamo nel pomeriggio. Prima di intravedere il casolare dei nonni ci attendeva una camminata di diversi chilometri.
Fuori dalla stazione, paziente e puntuale, ecco il fratello di mamma che, al termine dei festosi saluti, posizionava sul telaio diagonale della bicicletta della zia, la nostra unica valigia. Per mantenerla in equilibrio camminava adagio chiacchierando accanto a noi. Era compito di mamma scrivergli una lettera un mese prima, per confermargli l’orario del nostro arrivo. Con un’altra figlia piccola da accudire a casa, lei sarebbe ripartita quanto prima, o addirittura il giorno dopo.
Noi sorelle, felicissime di essere finalmente in vacanza, non accusavamo alcuna stanchezza. Ogni istante di quel viaggio era pura magia, un’avvincente avventura da gustare. Dai nonni ci saremmo riempite gli occhi e il cuore di nuovi colori e odori e, grazie a Dio, lo stomaco di nuovi sapori. Io, curiosissima non riuscivo quasi mai a stare ferma, come fossi caricata a molla, e fremevo, e correvo, saltellando dalla gioia.
Le vacanze non erano “a gratis” come direste voi. Dovevamo guadagnarcele aiutando gli adulti. Tutti i giorni – compresa la domenica – ci venivano assegnati alcuni lavoretti: faccende domestiche, pulizia del cortile o del pollaio, accudire le chiocce e le loro covate, innaffiare l’orto dello zio e, perfino, armarci di forche e rastrelli per collaborare alla raccolta del fieno. Naturalmente, essendo tutte noi otto cuginette piuttosto piccole d’età, e anche di statura, pur dimostrandoci instancabili, non sempre eravamo in grado di fare le cose per bene. Però imparavamo in fretta, andavamo d’accordo, condividevamo tutto e ci divertivano tanto, soprattutto la sera.
Adoravo, adoro tutt’ora, l’odore dell’erba appena tagliata che profumava di terra, di fiori, – principalmente ciclamini – e insetti. Spesso mi tuffavo sopra un cumulo di fieno, mi rotolavo, fingevo di nuotare e non smettevo di annusarlo. Era inebriante e irresistibile, ma voi non avete idea della difficoltà per togliere i fili d’erba dai capelli prima di ripresentarmi a casa!
Spesso alcuni contadini del paese raggiungevano gli adulti della famiglia sui prati, portando i loro attrezzi a spalla. Ci aiutavano spontaneamente nel lavoro dei campi. Sotto un sole estivo sempre infuocato, accompagnavano il sudore della fronte con canti, racconti e mille risate contagiose. Ad allietare quelle giornate di fatica avevamo il cibo della “banca alimentare del nonno”: fette di polenta dorate e croccanti, salumi e formaggi, pomodori e tutta la frutta che volevamo. I grandi svuotavano velocemente i fiaschi di vino per bere “un bicchiere di quello buono”. Noi correvamo a dissetarci direttamente ad una fonte di acqua limpida e piuttosto gelida, che scaturiva abbastanza vicino.
Ricordo che una volta durante la raccolta dell’uva, la “vendemmia”, a furia di mangiare un piccolo graspo qui e uno là, una delle mie sorelle si ubriacò. Barcollava pericolosamente e non smetteva di ridere a crepapelle tenendosi l’addome con le braccia incrociate. Le risate ci contagiarono mentre lei supplicava: “Qualcuno mi aiuti mi scoppia la pancia!!!”
Il meritato premio per aver raccolto i grappoli dell’uva a bacca nera, consisteva poi nell’affidarci il compito di provvedere alla loro “pigiatura”: So che sapete, avendolo sperimentato a scuola, che veniva fatta con i piedi. Dentro ad un enorme mastello di ferro, disobbedendo ai consigli dei grandi, senza calzare gli stivali, schiacciavamo migliaia di acini da cui far uscire il succo e la polpa. A me piaceva inzupparmi fino a sembrare uno spaventoso zombie. Infatti, come tutte, ero di colore blu, rosso e viola. Riuscite ad immaginare il divertimento? Tra spinte, risate, parolacce, scivoloni, urla di protesta ci gettavamo addosso a piene mani quel miscuglio dall’odore sgradevole. Anch’io, incapace di reggermi in equilibrio, scivolavo andando a sbattere da ogni parte. Ignoravamo volutamente il dolore del corpo. Il giorno successivo le vesciche alla pianta dei piedi ci costringevano a camminare lentamente, rinunciando a correre o saltare.
In quel delizioso paesino, che contava meno di cento abitanti, in compagnia di parenti generosi, persone sane di buon carattere, e fruendo di cibo ottimo e abbondante, so di aver trascorso le più scanzonate, le più felici e le più istruttive vacanze della mia giovane vita.”””
Si è fatto tardi. Osservo i volti angelici dei miei silenziosi nipotini. Si stanno assopendo. Sorrido e rifletto su quanto ho raccontato. Repentinamente davanti agli occhi mi balena l’immagine di nonna Lisetta, la mamma di mia madre. Per colpa del suo adorato gatto Toni, poco si era fatta benvolere da me. Oggi che sono nonna e che, almeno per ora, i ricordi non sbiadiscono in un grigio tramonto, amerei poterle stare accanto su quella “sua” panchina. Felino permettendo, con tenerezza la vorrei stringere al cuore in un lungo silenzioso affettuosissimo abbraccio.
N.B.13 aprile 2025 A distanza di sei anni oggi rileggo questo racconto. I miei nipoti, studenti liceali, ormai sono entrambi assai più alti di me. E la ragnatela delle mie rughe nel frattempo si è infittita.
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