Archivia 31 Marzo 2025

Hai lasciato (Luglio 2001)

Hai lasciato il tuo sorriso appeso alle pareti della stanza,

il tuo volto riflesso nel grande specchio,

la forma del tuo corpo sprofondato in poltrona,

le tue mani, tenere amanti, in movimento tra i miei capelli,

i tuoi passi, fruscio leggero, sul moquettato pavimento,

i tuoi occhi liberi di correre tra le mie braccia,

hai lasciato le tue labbra inchiodate per sempre alle mie

SONO RIUSCITA

Alla fine, me ne sono andata come volevo. Nel posto in cui sono ora, il tempo non scorre e l’aria profuma di glicine, come sul patio della nostra casa, dove usavamo mangiare tutti insieme nelle belle giornate di sole. Qui tuttavia i giorni non hanno peso.

Da qui posso vedere tutto, ma non posso toccare nulla, se non i cuori. Ho tutto quello che posso desiderare, ma mi mancano moltissimo le mie figlie.

Certo, ho provveduto ad aiutare ciascuna di loro: alla più grande ho procurato il lavoro fisso che tanto agognava. Non è cattiva, poverina, ma non ha troppa voglia di impegnarsi. Si sacrifica fino ad annullarsi, per la famiglia: per la nonna, per la sorella, per me… Ma la mattina, se deve alzarsi presto, è una battaglia. Comunque, ce l’ha fatta. Ora lavora in uno stabilimento farmaceutico, ha delle brave colleghe, si trova bene, ha uno stipendio fisso, fa una vita regolare.

Alla più piccola, invece, ho fatto incontrare l’amore della sua vita. È cubano, un bel ragazzone alto e con una bella parlantina, che l’ha fatta innamorare. È quello che ci voleva per una sanguigna come lei. Professionalmente è una donna capace, non avrà problemi.

Loro non sanno che sono stata io, anche se l’amica della mia figlia più grande, quella che scrive, l’ha capito subito che c’era il mio zampino. Del resto, con lei avevo un rapporto speciale: mi sentivo più sua amica io delle mie figlie. Quando ci trovavamo a parlare, ci intendevamo subito perché condividevamo gli stessi valori un po’ fuori moda: vestirsi in modo femminile, ma non volgare, le camicie da notte della nonna coi pizzi, le gonne a fiorellini, lo stile gitano, le stoffe provenzali, l’amore per la conoscenza, il parlare colorito ma non sguaiato, la pacatezza, la dignità, il femminismo.

Del resto, è a lei che ho chiesto aiuto quando mi sono resa conto che in quel modo non potevo più andare avanti.

Un giorno mi disse: «Sai, la parola giusta può cambiare tutto.» Ridevamo delle frasi a effetto che scriveva nei suoi racconti, di quella sua idea che il mondo si potesse risolvere con la bellezza della scrittura.

«Io non so scrivere» le risposi, «ma so leggere. E capisco quando qualcuno dice la verità.»

Lei sorrise, quasi sollevata. Ero la sua lettrice ideale, diceva. Io non lo sapevo ancora, ma era lei che avrebbe scritto la mia storia.

Quando le ho detto che non ce la facevo più, mi ha guardata con occhi intensi. Ho aspettato che dicesse qualcosa, che trovasse una soluzione, che facesse la magia delle parole che sapeva usare così bene.

Ha solo scosso la testa.

«Non posso aiutarti» ha sussurrato.

In quel momento, qualcosa dentro di me si è spezzato. Se nemmeno lei poteva salvarmi, allora non c’era davvero più niente da fare.

Forse avrei dovuto combattere di più? Pensavo che ci fosse una strada. Invece non c’era.

Quella sera, quando anche lei mi disse che non poteva aiutarmi, capii di stare urlando in un pozzo vuoto.

Mi accasciai nel mio letto sanitario, in silenzio.

Spensi l’interruttore.

Smisi di lottare.

La mia truppa se la cava, anche senza di me. Il padre delle mie figlie sta lentamente andando in declino, la vita fa il suo corso. Mia mamma tra un po’ mi raggiungerà. Ci stiamo già preparando ad accoglierla.

L’amica di mia figlia non lo sa, ma a volte le sussurro all’orecchio. L’altra sera, mentre correggeva un suo racconto, ha trovato una frase che non ricordava di aver scritto.

L’ha letta più volte, si è passata le dita sulle tempie, ha controllato i vecchi appunti.

Ma no, quella frase non era sua.

Eppure era lì, impressa in inchiostro nero.

Sono sicura che ha capito.

Sono sempre stata più brava a leggere che a scrivere, ma questa volta ho fatto un’eccezione.

Mi guardo intorno.

Qui ho tutto.

Tranne il mio cuore, che è rimasto laggiù.

Un condominio democratico

Nel condominio De Verbis, in via Paradigmi, abitavano molti tempi e modi.
Era un condominio democratico dove ognuno diceva la sua e si teneva conto delle opinioni di tutti.
Sempre in primo piano c’era il presente che, ogni tre per due, batteva i tacchi e ripeteva ad alta voce: «Presente», al secondo piano viveva l’imperfetto che, non sentendosi perfetto, stava sempre nascosto e non parlava con nessuno.
Al terzo piano si trovava il passato che, siccome guardava sempre indietro, soffriva di cervicale e ripeteva continuamente che: «Una volta si stava meglio», al quarto c’era il trapassato che, poverino, non comunicava più perché era morto.
Al quinto piano abitava il futuro che, essendo un po’ indolente, procrastinava ogni azione ripetendo: «Farò, dirò, studierò…» ma non concludeva niente.
Il sesto piano era di proprietà del congiuntivo che, con un po’ di puzza sotto il naso, si lamentava terribilmente perché molte persone non lo conoscevano o ne sbagliavano l’uso.
Al settimo piano, con la testa fra le nuvole, viveva il condizionale, modo dei sogni, che ripeteva a se stesso: «Vorrei, vivrei, andrei…» e infine all’ottavo, nell’attico, si trovava l’infinito perché, essendo infinito, dal terrazzo voleva vedere l’orizzonte.
Un giorno, i tempi e i modi decisero di indire una riunione condominiale perché qualcuno nel palazzo non pagava le spese.
L’amministratore Participio Deciso si accorse subito di chi era la colpa: era del trapassato che, non essendoci più, non poteva onorare le spese.
L’assemblea, democraticamente, votò di offrire ospitalità a un altro modo, ma non all’imperativo perché voleva comandare solo lui.
Era rimasto il gerundio il quale arrivò nel condominio cantando, ballando e rallegrando la giornata di tutti.
Il problema si presentò la sera quando, addormentatosi, passò la notte russando, russando e russando così forte che tenne tutti svegli.
L’assemblea si riunì nuovamente per risolvere il problema. Modi e tempi votarono all’unanimità per insonorizzare il quarto piano, dove si trovava il gerundio, così, sia i piani sotto che quelli sopra, non sarebbero più stati disturbati dal russamento: di notte tutti avrebbero dormito e di giorno si sarebbero divertiti.
Ma chi avrebbe pagato l’opera?
Il gerundio, naturalmente, decise l’assemblea. Il loro era o non era un condominio democratico?