Archivia 10 Gennaio 2024

Allitterazione, assonanza, onomatopea

ALLITTERAZIONE

  • Forte il fabbro forgia ciò che ai soldati darà in sorte. Fucili armi e cannoni tra i campi di marte cosparsi di morte.
  • Prima di primavera esiste una stagione mera, un attimo magico, che non è più l’inverno con le sue spoglie membra, ma uno spasmo di doglie che in un alito di vento si coglie.
  • Immagino un mago con occhi da drago, lunghe le unghie per i suoi artifizi, cattura l’attenzione, crea tensione, dal palco un denso fumo appare, come una bianca palude, un effimero lago dove improvvisamente scompare il mago.

ASSONANZA

  • Di notte, i rumori arrivano come da lontane fosse.
  • Stupido che sei, stupido a rigare il tuo viso di lacrime soffocate.
  • Madame de Pompadour, la conoscevi tu?

 

ONOMATOPEA (invento)

  • Scia scia scia sciack, scia scia scia sciack. Nasce un paessaggio dalle mie pennellate.
  • Vrrrr, l’aeroplano arriva… vvvrrr apri la boccuccia.
  • Planf! A me il divano.

Ritorni

Mi piace quando mi guardi con gli occhi spalancati di chi non si capacita. Sei ancora incredulo che io abbia accettato di rivederti. Sono passati sette anni. Ti ho buttato fuori casa il sette settembre del duemiladiciassette, tutti quei sette avrei dovuto giocarli al lotto, invece ho giocato la mia vita. Sapevo solo di non voler passare un minuto di più con te, con un uomo che non mi rispetta, che non conosce l’abc della comunicazione, che si considera un illuminato, che si crede l’unico in grado di guidare mentre tutto il resto del mondo è composto da deficienti. Non un minuto di più o mi sarebbe venuta l’orticaria, mi sarei ammalata, o ti avrei piantato un coltello nella pancia. Vedi, è stato meglio lasciarci, soprattutto per te. Un maschicidio era in agguato, meglio non farlo accadere, io sono contraria alla violenza. E così ti ho rimosso dalla mia vita, faticosamente, pezzo per pezzo, ricordo dopo ricordo, oggetto dopo oggetto. Tu mi hai restituito fisicamente le cose che ti avevo regalato, il cuscino ricamato per te con tanto amore, moderna Penelope tra computer, lavatrici e lezioni di tedesco. Io ho steso pesanti coltri sul male che mi hai fatto, sull’entusiasmo che mi hai rubato, sulle speranze che hai soppresso, sull’ottimismo che hai annullato, ma per fortuna ne è rimasto ancora.

Ora ti ripresenti a me in candide vesti, le guance e il capo rasato, un moderno Buddha simile a colui che mi aveva rapito quando ti conobbi. Ora però so che la tua lingua è biforcuta, la tua mente scaltra, il tuo cuore vendicativo. Non c’è posto nella mia nuova vita per te. Vado avanti per la mia strada, quale che sia.
Ti allontani a testa china, non ti vedrò mai più. E così sia.

Allitterazione, assonanza, onomatopea

ALLITTERAZIONE

Anche avendo avuto avviso anticipato, ambivo ad anteporre alcune amene attività all’assemblea amicale (ammaestramento).

 

ASSONANZA

A   A volte, la sera, la fame mi prende,

B   “Non voglio ingrassare,

A   Il mare mi attende!”

 

C   Biscotti, jogurti, cioccolatini

C   Sussurran soavi gli inviti più fini.

 

B   La voce è decisa, la sento parlare,

A   Con alto tono saccente

B   Non sente ragioni, non vuole mollare.

 

D   Mi salva una mela, succosa e croccante,

D   rossa malia sana e invitante.

 

ONOMATOPEA

Gracida nel pozzo la rana,

Lenta sale per il ramo l’iguana.

Lesta agguanta un insetto,

“Gra gra” dice dirimpetto.

“Blub blub” risponde soddisfatta

l’iguana ora distratta.

Camminare nei boschi quando cade la neve.

Camminare nei boschi quando cade la neve. C’è della magia in tutto questo.

Alzare gli occhi al cielo e aprire la bocca per assaggiare il sapore dei fiocchi, grandi e piccoli, come i giorni della vita.

Il silenzio è interrotto solo dai nostri fiati e dai nostri passi che scricchiolano affondando nel sentiero bianco.

Noi non siamo gente di montagna, e i boschi, la neve, il silenzio ci fanno fare pensieri belli e brutti, come i giorni della vita.

Mi fermo un istante, di nuovo apro la bocca per dissetarmi con la neve che scende da un cielo bianco, un cielo che sembra abbia smesso di esistere.

Mi giro a guardarti, ti chiedo: «E se ci perdessimo?».

Per un attimo hai soppesato la domanda, forse pensavi fosse un desiderio, poi hai visto il timore nei miei occhi.

Non hai risposto, hai lasciato che la domanda cadesse con la neve. Perdersi, ritrovarsi, come nei giorni della vita.

I nostri passi lasciano impronte. Vediamo altre tracce, di animali. Ho pensato fossero di volpe.

Ora sei tu a chiedere: «E se ci fossero i lupi o gli orsi?».

Forse scherzi, o forse no. Ho cercato di capirlo dal tono, di trovarvi fili di paura. Difficile scandagliare la voce di un uomo e riconoscere i suoi timori. Ti ho guardato, la tua bocca sorrideva, i tuoi occhi no. Potevano esserci lupi e orsi, forse sì, forse no, come nei giorni della vita.

Ti ho risposto: «Gli orsi sono in letargo, e i lupi se ne stanno distanti da noi umani. Puzziamo troppo».

«I grizzly non vanno in letargo», hai commentato.

«I grizzly vivono ad almeno cinquemila chilometri da qui», ti ho risposto dall’interno del cappuccio che faceva rimbombare la mia voce.

Non mi ero accorta del silenzio. Silenzio nel vero senso della parola. Ho smesso di respirare un attimo e di ascoltare il mio cuore che pulsa per la salita. Mi sono voltata perché quel silenzio era assenza. Come in alcuni giorni della vita.

Tu non ci sei. Eri dietro di me un attimo prima e non ci sei più. Mi sono fermata per aspettarti. Le braccia conserte, la posa di chi accetta di malavoglia certe situazioni.

Ti ho visto spuntare dal fianco del bosco, mi hai chiamato: «Vieni», più a gesti che non con la voce.

Ho ridisceso il tratto di sentiero per raggiungerti. Mi hai condotto per un viottolo che non avevo notato. La neve era rivoltata dalle tracce, anche dalle tue orme.

Pochi passi e si è aperta una radura. Aveva qualcosa di magico. Un piccolo stagno ghiacciato in alcuni punti, l’erba gialla che contornava la riva, i pini che sembrava emanassero calore perché sotto di loro non c’era neve ma cuscini d’aghi marroni.

«Prima c’erano tre caprioli», mi hai detto, «ma ci hanno sentito e sono scappati».

«Già», ti ho risposto, «loro sì che devono aver paura, di noi, degli esseri umani».

«Essere Umano, non trovi sia un ossimoro, talvolta?», mi hai chiesto sedendoti sotto un pino.

Ho pensato alle guerre ancora accese nell’anno appena iniziato.

Mi sono seduta accanto a te, ho appoggiato la testa sulla tua spalla. Non ho risposto subito perché ho intravisto la sagoma di un capriolo, correva saltellando verso una discesa sul fianco della montagna. Era come se fuggisse senza togliermi gli occhi di dosso.

«Dipende dal significato che diamo alla parola umano. Forse siamo cattivi dentro, noi esseri Umani. Però sì, in ogni caso siamo un ossimoro».

L’uomo più importante

Papà, radice e luce,
portami ancora per mano
nell’ottobre dorato
del primo giorno di scuola.
Le rondini partivano,
strillavano:
“fra cinquant’anni
ci ricorderai”.

Maria Luisa Spaziani, Papà, radice e luce

Una passata di rossetto leggero sulle labbra, due gocce di profumo ai polsi, mi do un’ultima occhiata allo specchio. Sono pronta.All’uscita di casa vengo salutata dalla bellissima giornata di sole, una carezza di calore sulla pelle ad annunciare che la primavera è alle porte e la vita si risveglia. Mi sento carina e leggera nel mio vestitino a fiori mentre mi reco all’appuntamento con l’uomo più speciale di tutto il mio mondo. Eccolo lì, già seduto al tavolino del bar, che mi sta aspettando.
Mi vede arrivare e mi saluta con un grande sorriso e gli occhi luccicanti di gioia.
«Ciao papà, che bello rivederti!» esclamo mentre mi faccio avvolgere dal suo abbraccio, morbido e rassicurante.
«Mi sei mancato, papi. Non farmi più questi scherzi di non farti vedere così a lungo. Sei che ho sempre bisogno di sapere tutto, come stai, se va tutto bene, se sei sereno».
Lui mi rivolge uno di quei suoi sorrisi dolci, quasi malinconici, che hanno sempre avuto il potere di smuovermi un mondo dentro al cuore.
«Eh, come vuoi che vada. Tutto il giorno nel mio laboratorio a ricavare porta penne con i ferri di cavallo. Che fra l’altro ho quasi esaurito. Quando me ne porti altri?»
Ora, mio padre chiama laboratorio un cantinotto buio e polveroso che, secondo me, non gli fa neanche troppo bene alla salute ma, finché si tiene occupato, tutto sommato è il male minore e quindi lo assecondo.
«Presto ti porto altri ferri, non è che posso sferrare i cavalli apposta con quello che costa il maniscalco, non ti pare?».
Dalla sua smorfia poco convinta capisco che sì, a lui invece parrebbe. Ma preferisce cambiare discorso.
«Ordiniamo?».
Faccio un cenno al cameriere: «Due cappuccini con molta schiuma e una spruzzata di cacao».
Quando arrivano, mio papà si tuffa goloso nella sua tazza. Ne riemerge con i baffi bianchi e marroni. Prendo un tovagliolino, ridendo: «Fai proprio come i bambini! Aspetta che ti pulisco la faccia, non ti si può guardare!».
Torniamo seri, come se avessimo esaurito gli argomenti della classica conversazione di chi non si vuole impegnare in qualcosa di più coinvolgente, forse per pudore di mostrare i propri sentimenti. Quante cose vorrei dirti, papà mio! Sono stata una brava figlia? Ho mai saputo farti capire quanto io ti ami e quanto bisogno ho sempre avuto di te? Ti ho reso felice?
Chissà se anche il tuo silenzio è, come il mio, riempito da mille domande inespresse. Vorrei non lasciarti andare più, ti afferro le mani, come se bastasse per trattenerti ancora. Ma il tempo stringe inesorabilmente. C’era il sole, ora il cielo è già buio. Come è possibile?
«Sai che devo andare ora», mi sgrida con gentilezza staccandosi dalla mia presa.
«Lo so, papi. Ma è troppo triste questo pensiero. Quando ci rivedremo?»
«È compito tuo più che mio. Io faccio tutto il possibile ma sei tu che mi devi chiamare, è così che funziona».
«Va bene, papà. Allora ti lascio andare, per il momento. Arrivederci al prossimo sogno!».

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