Archivia 15 Aprile 2024

Il ponte delle sirene

La stradina costeggiata da rogge si snoda in una serie di curve strette, fiancheggia la campagna coltivata e lentamente unisce Mediglia a San Giuliano.
Poco trafficata è la strada che ho frequentato più di tutte perché da bambina si andava dalla nonna a bordo della Cinquecento azzurra guidata da mio padre e da adulta per raggiungere il centro commerciale in cui ho lavorato dieci anni come ottica e vetrinista.
Circa a metà del suo percorso la stradina sovrasta con un ponte il fiume che mi affascina da sempre. Specialmente in inverno quando i campi freddi biancheggiano per la neve o la brina, il Lambro sembra trascinare più cupo che mai il suo carico d’acqua e di segreti mentre avvolto da una bruma opalescente scorre imperturbabile verso il suo mare.
Occasionali gabbiani o cormorani ne sorvolano le onde, non ho mai visto pescatori lungo le sue rive solitarie. Da piccola ogni volta che passavo sul ponte in auto abbassavo il finestrino e guardavo giù per vedere meglio che potevo, ma niente traspariva dal fondo nero e denso.
Una volta vidi una spessa coltre di schiuma bianca serpeggiare sul Lambro, rimasi incantata:  «Papà guarda che bello il fiume stamattina».
«A volte le Sirene arrivano anche qui per fare il bagno e lasciano la loro scia insaponata».
«E come si fa a vedere le Sirene papà, sai quando faranno il bagno la prossima volta?» gli chiesi.
174Le Sirene si bagnano alle prime luci dell’alba per tingere le loro code nell’ acque argentate», mi rispose sorridente.
Da allora quando passo sul ponte delle Sirene penso sia un luogo magico e chissà… di incontrarne una prima o poi.

Il pescatore errante dell’Asia

Me lo racconti ancora, papà? Mi racconti di quando ad Aral c’era il mare?

La testa si riempie di sogni se si vive di un sussidio statale e poco altro, il tempo scorre tumultuoso come acqua nelle fogne e la puzza sale al cervello, i pensieri muoiono e marciscono diventando incubi terribili. Levent è troppo giovane per essere vaccinato contro il vaiolo, per aver visto uomini e cani partire per lo spazio, per aver assistito alla caduta dello Stato, per aver sperato nella democrazia e per aver visto il mare. Sebbene nato dopo tutto, ignorante di un passato troppo lungo, non gli serve certo un’illuminazione per accorgersi che lì intorno è tutto uno schifo. Basta guardare i volti dei più grandi, che tengono dentro agli occhi una nostalgia schiacciante, come il sole a picco che opprime il deserto intorno alla città.

È vero papà? È vero che le ragazze si vestivano bene e passeggiavano la sera sul lungomare?

Si va via quando non se ne può più. Se il lavoro non c’è non si può mai cominciare, e se mai si inizia mai si finisce. Chi lo dice che da un’altra parte le cose vadano meglio? Lo si sente dire dai camion che grugniscono tra la polvere, operai di una mattina scaricano grandi casse che contengono frutta, verdura, carne, pesce, oggetti e vestiti che sono poi venduti nei negozi. Da qualche parte devono pur arrivare.

È vero che alla stazione di Aral arrivavano le famiglie importanti dalla capitale per trascorrere le vacanze? Che la sera i teatri erano aperti e la gente usciva per assistere ai concerti? Che la mamma andava dal parrucchiere e ne usciva pettinata alla moda?

I suoi genitori gli hanno raccontato tutto questo, di come anno dopo anno la città è morta in preda ad un’agonia lenta, e secca. Levent si è fatto l’ultimo selfie quella mattina, l’ha caricato come stato su Telegram, ha ricevuto alcune reazioni dai suoi amici, poi è calato il silenzio. Più si allontana dalle ultime case più il segnale si indebolisce, ha collegato il cellulare ad una batteria che si ricarica con la luce solare, che nel deserto non mancherà. Per la traversata ha chiesto alla sua famiglia di potersi portare un asino, che è resistente, porta in groppa sia il ragazzo sia il suo essenziale bagaglio e non si cura se ad un certo punto i suoi zoccoli cominciano a scricchiolare su una distesa di sale.

Levent ha detto ai suoi genitori di voler andare nella valle dell’Amu Darya, cercare un impiego in una piantagione di cotone e mandare qualche soldo a casa, solo così li ha convinti a cedergli l’asino. Per raggiungere la fertile valle deve attraversare il mare di Aral, a piedi, perché di tutta quella grande acqua non rimane più niente. Scende lungo un lieve pendio e si ferma un poco a riposare, all’ombra dello scafo di un grande peschereccio arrugginito, appoggiato a una duna di sale. Quello appartenuto alla sua famiglia era più piccolo, si è arenato non molto lontano. C’è passato davanti poco prima e vi ha potuto leggere alcune lettere del nome della mamma.

Lo sfortunato mare di Aral era la casa di tanti pescatori che dividevano le sue fragili onde con gli uccelli acquatici, e con la vecchia flotta militare dello Zar che presidiava l’Asia centrale. La sua grande debolezza, essere un mare interno, se l’acqua non arriva più il sole e il vento lo spazzano via.

L’asino di Levent cammina lento verso una catasta di bastoni bianchi, liquidi all’orizzonte come un miraggio. Il suo sguardo confuso da quel malsano viaggiare incrocia enormi orbite vuote e inespressive, appartenute ad un pesce smisurato. Occorrono decine di passi per arrivare fino alla fine dello scheletro di quell’antico mostro acquatico. Anche suo papà avrebbe potuto vendere pregiato caviale, se avesse però comprato un peschereccio più grande.

Fra pochi giorni Levent raggiungerà finalmente l’acqua. la troverà imbrigliata da una catena di dighe e di chiuse, che cingono l’Amu Darya e lo addomesticano, ne raddrizzano le anse serpentine per convogliarlo verso distese sterminate di batuffoli bianchi.

Ha in testa una tale confusione. Dà la colpa al sole a picco, ma si accorge che nemmeno riposando all’ombra di una grande roccia i suoi pensieri riescono a trovare un senso. La storia che si è raccontato è buona, all’inizio sollevare sacchi di cotone non sarà una passeggiata, ma gli metterà in tasca qualche soldo, abbastanza da chiedere a una ragazza di uscire. Anche nella valle dell’Amu Darya le ragazze credono in Dio, quindi non dovrebbero esserci problemi. Se si lavora e si rispettano le regole le cose andranno lisce come devono andare.

Tuttavia Levent non riesce a togliersi dalla testa quegli enormi occhi fantasma del deserto, quel muso appuntito rivolto all’insù, come se cercasse disperatamente di respirare. Si risveglia ma quel sogno rimane lì: se in quelle dighe lungo il fiume si aprisse uno spiraglio, e l’acqua libera riuscisse a fluire via… il grande storione potrebbe riprendere a nuotare.

 

Pioggia

Mino si guardò intorno sconsolato, scacciando infastidito un moscone che si ostinava a girargli intorno. Ormai erano mesi che non pioveva, il suo campo coltivato a granturco aveva da tempo perso il colore verde delle tenere foglioline e le pannocchie stentavano a crescere, secche e protese verso l’alto come in uno strenuo tentativo di ricevere qualche goccia consolatrice.
«Per annaffiarle mi rimane solo il mio sudore», pensò disperato. Tocco le pianticelle rinsecchite con le dita callose di chi la terra l’ha lavorata per tutta la vita e la conosce bene, fin troppo bene per sperare in un capovolgimento della sorte.
«Quest’anno il raccolto rischia di essere compromesso», si disse quasi con rassegnazione. Pensò a sua moglie, a cui da tempo nulla riusciva a strappare una risata, e che contava sempre meno su di lui per il vivere quotidiano, a suo figlio che aveva perso ogni fiducia nel futuro e alla terra non voleva più pensare, ai progetti di vita che anno dopo anno andavano in fumo, bruciati dalla stessa arsura che stava prosciugando la vitalità dai suoi campi.
Eppure quella era la vita che da generazioni aveva sostenuto la sua famiglia, quelli erano i terreni che si erano tramandati di padre in figlio. Non conosceva altro, Mino. Non si era mai spostato dai confini delimitati dalle sue rogge.
Un tempo, i campi maturavano rigogliosi e gli anni sterili erano pochi, catastrofi naturali come grandinate o siccità venivano raccontate dai vecchi ai bambini a cui la sera, raccolti nel granaio per scaldarsi a vicenda, raccontavano le storie di messi perdute, disperazione e ripresa fra difficoltà superate e nuove sfide all’orizzonte.
Una vita faticosa ma a cui nessuno avrebbe mai pensato di poter rinunciare: la terra era il loro destino, la loro ragione di essere.
Ora però tutto era cambiato. Ogni anno era più caldo, meno piovoso, e i raccolti si facevano sempre più striminziti.
«Acqua, serve acqua! Dio del cielo, o comunque tu ti chiami: se ci sei, se mi ascolti, fai piovere, fai bere i miei campi e restituiscimi la mia vita!».
Uno sguardo al cielo e uno alla terra secca, rimase fermo ancora un po’, come in attesa.

L’IMPORTANZA DELL’ACQUA

Stavamo viaggiando in quel deserto di neve e ghiaccio da quattro giorni. Avevamo esaurito le scorte di cibo e acqua, il gas era agli sgoccioli e anche i cani erano affaticati.

Di quel passo, avremmo raggiunto la postazione del Centro Ricerche sul Clima a Irkutsk di lì a novantadue ore. Io non ce la facevo più: volevo sdraiarmi sulla slitta e addormentarmi senza pensare più al nostro sfortunato progetto, partito male e proseguito peggio, incagliatosi in una serie di ostacoli prima politici, poi economici e amministrativi, infine logistici e tecnici.

Delle tre ricercatrici internazionali, ero l’unica che era rimasta. Avevo dovuto subire le battute sarcastiche e sessiste dei miei compagni di squadra, ma la mia determinazione e l’abitudine a farmi scivolare di dosso le offese come acqua sulla roccia mi aveva anche guadagnato una certa considerazione.

A differenza delle altre che avevano abbandonato, non avevo una famiglia a cui rendere conto, un marito da cui tornare, dei figli a cui dover dare sicurezza, nemmeno dei gatti abituati a dormire sul mio letto la notte, non più.

Negli ultimi dieci anni la mia vita era la ricerca; il progetto sulla memoria dell’acqua iniziato da Masaru Emoto nel secolo scorso aveva guadagnato credibilità e finanziamenti, i progressi teorici della fisica quantistica avevano dimostrato l’indimostrabile, ora anche le aziende e i governi intravedevano un futuro di potenziali applicazioni commerciali e avevano cominciato a sciogliere le loro riserve.

Il paradosso è che eravamo circondati da acqua ed eravamo tutti disidratati. La sete ci accompagnava dal risveglio all’alba a quando ci fermavamo nelle basi di sosta al tramonto.

Avevamo sbagliato strada per un malfunzionamento della bussola e lo scioglimento del permafrost aveva modificato l’assetto dell’enorme lastra di ghiaccio su cui scivolavamo con le nostre tre slitte, determinando un allungamento del percorso di due giorni. Il gas che ci permetteva di sciogliere il ghiaccio per bollirlo e ricavare acqua potabile era insufficiente per tutti. Dopo due giorni, resosi conto dell’errore, il capo-spedizione aveva deciso di razionare l’acqua: a ognuno di noi spettava mezzo litro di acqua a testa al giorno. Tutti erano molto disciplinati e osservavano scrupolosamente le indicazioni, ma si percepiva un’aumentata irritabilità e una certa stanchezza negli equipaggi.

Al briefing preparatorio avevamo imparato che era sconsigliabile far sciogliere in bocca direttamente la neve cruda, per via dei potenziali patogeni, se non volevamo finire come Rosanna Benzi, che contrasse la poliomielite a tredici anni e visse il resto della sua vita in un polmone d’acciaio. Morì a quarantatré anni.

Angelina

“Angelina,il carro è qui”.
“Arrivo pa’”.

Sono le quattro del mattino e il carro passa dalle cascine per raccogliere le donne e le ragazze che vanno alla monda del riso nei paesi vicini.
Suo padre, Pa’ per i figli, non ha voluto che lei andasse nelle risaie in Lomellina perché avrebbe dovuto stare lontano dalla famiglia e lui voleva proteggere la sua figlia più piccola, così esuberante e allegra, dalle insidie della lontananza da casa.

La ragazza esce portando con sé il sacchetto con un pezzo di pane e cinque noci, il suo pranzo del giorno, lo appendera’ al ramo di un albero, sulla riva.
Sale sul carro sedendosi al limitare di esso,con le gambe a penzoloni perché da lì vede bene il sorgere del sole e le campagne circostanti, in grembo ha un fazzoletto e il suo cappello di paglia.

Sul carro salgono un po’ alla volta tante donne:alcune sono avanti con l’età, la maggior parte giovani, solo poche giovanissime.
Lei è la più giovane del gruppo e ha voluto fare la mondina per aiutare la sua famiglia:cinque figli(due maschi e tre femmine)e il papà, la mamma non c’è più. I due figli maschi sono in Africa, per la guerra d’Etiopia, le sue sorelle maggiori si occupano della casa.

Angelina è orgogliosa di aiutare la famiglia con il suo lavoro, la fa sentire grande:alla fine della monda riceverà una paga e tanti chili di riso quante giornate di lavoro avrà fatto così in famiglia avranno un po’ di cibo in più perché di solito ce n’è poco.

Verso le cinque la ragazza arriva alla risaia e si dispone accanto alle altre donne procedendo insieme nell’acqua per estirpare le erbacce dalla coltivazione del riso.
Ore e ore sotto il sole, con i piedi a mollo e le bisce d’acqua che girano attorno, i tafani e le zanzare che pungono le gambe.

Dopo qualche ora qualcuna alza un braccio: ha sete.Ecco che allora arriva il campe’ con un secchio d’acqua e un mestolo, da lì bevono tutte.
Il padrone della risaia intanto sta sulla riva e incita le donne a camminare più in fretta e a cantare perché così non hanno tempo di chiacchierare e lavorano assiduamente.

La monda va avanti da una risaia all’altra fino a mezzogiorno quando tutte le mondine si siedono sulla riva e mangiano il loro pranzo in fretta quindi ricominciano la pulitura delle erbacce fino al pomeriggio.
Man mano che le ore passano la fatica si fa sentire, il sudore scende sempre più copioso dalla fronte e lungo la schiena, la voce diventa rauca a furia di cantare.
Verso sera il lavoro in risaia finisce e a passo lento si ritorna al carro che ripercorre al contrario il tragitto fatto all’alba, una alla volta le mondine ritornano nelle loro case.

Da bambina chiedevo spesso ad Angelina di raccontarmi le storie di quando era una mondina allora il suo viso si illuminava e i suoi occhi erano più brillanti del solito.
Nei suoi racconti non metteva l’accento sulla fatica, il dolore, la stanchezza,solo sulla gioia delle amiche trovate, dei canti e della giovinezza.
Diceva sempre che a lei era piaciuto fare la mondina perché il contatto con la terra la rendeva felice,perché aveva aiutato la sua famiglia e perché col suo cappello di paglia si sentiva bellissima.

Angelina è mia madre e io sono come sempre fiera di lei.

Eri mia madre

Eri mia madre.

E non ti ringrazio della vita che mi hai dato ma della tua, di vita, che mi hai lasciato in regalo.
Le tue storie di bambina sotto le bombe della guerra.
Che, donna e madre ormai fatta, ti si vedeva ancora la paura in faccia anche per i tuoni di un temporale improvviso d’agosto.
Le storie delle tue cene di miseria, fatte di minestre d’acqua ed erbacce, mentre ci sgridavi torva per i nostri avanzi nel piatto.
Madre piena di forza e coraggio.
Che si è ribellata come una furia a tempi in cui il destino di una donna era essere solo una moglie sottomessa e un’incubatrice analfabeta.
Sei riuscita a studiare.
Sei riuscita a sederti su una poltroncina da ufficio.
Fiera del tuo vestito fine, delle tue unghie laccate di rosso che ticchettavano sulla tua macchina da scrivere.
Mentre le altre si erano arrese ancora prima di iniziare a respirare.
Eri così orgogliosa, mamma, di avercela fatta ad essere qualcosa di meglio.
Fino al giorno in cui la legge degli uomini è venuta a bussare alla tua porta, nonostante tutta la tua furia per essere chi volevi.
E ormai con la fede al dito e il ventre gonfio, sei caduta in ginocchio e ti sei dovuta arrendere.
Via lo smalto rosso, via i vestiti stretti sulla vita da vespa che avevi ormai perso.
Ti guardavo, mamma, nei tuoi grembiulacci informi, senza un filo di trucco, l’odore di candeggina e cavolfiori lessi sempre nell’aria.
Col capo sempre chino su un rammendo o su una conserva da invasare.
Nella tua rabbia dolorosa, per la vita che ti era stata negata dalle leggi degli uomini.
Nei rari momenti in cui ti vedevo con la fronte sul vetro della finestra, pensando di non essere vista, guardando tristemente oltre la strada di sotto e oltre quella vita a cui ti eri dovuta rassegnare, mamma io lo ricordo ancora.
La sera nel letto a macinare parole crociate per mantenere la mente plastica, o leggendo guide turistiche che nascondevi nel comodino, sognando di viaggi che mai avresti fatto.
E le domeniche in cui mi caricavi sul tram, per vedere palazzi e basiliche, io bimba morta di noia e tu incantata a guardare guglie e statue, con la tua guida aperta tra le mani.
Mi hai amata e odiata, mamma.
Perché vedevi in me quella stessa fame di libertà che con così tanto dolore ti eri dovuta ricacciare nello stomaco.
E mi hai inchiodato le leggi degli uomini addosso, così come avevano fatto con te.
Perché non potevi fare altrimenti, ora io lo so.
Alla fine ti ho obbedita, mamma.
Con una fede al dito anch’io, perché cosi si doveva.
Con un figlio dietro l’altro in grembo, perché altrimenti sarei stata un guscio vuoto, un ramo secco, una nullità.
Senza luce per sogni e passioni, perché ormai anche la mia strada era segnata.
Ti ho amata e odiata mamma.
Ma solo alla tua fine, ti ho compresa.
Non esistono vittime o carnefici, esiste il dare cio’ che si è ricevuto, nel bene e nel male.
E spesso sono i carnefici ad avere più ferite delle loro stesse vittime.
Tu non lo sapevi, mamma, ma ora io lo so.
Di generazione in generazione.
Di madre in figlia.
Alla fine si perdona, mamma.
Se stesse e i propri avversari.
Tu ed io.
Ho iniziato a perdonare il giorno in cui ti ho accarezzato i capelli, bianchi e fini come ragnatele, che tu già te n’eri andata.
E anno dopo anno, cadendo e rialzandomi, a volte correndo, a volte trascinandomi, sai cos’ho fatto mamma?
Ho preso quelle leggi degli uomini maledette, una per una, e le ho lanciate contro ogni muro che ho incontrato.
Si sono schiantate in mille pezzi.
Le guardo a terra.. Alcune ridotte in briciole.
Altre ancora vibrano chiedendo imperiosamente rispetto.
Mi turbano, mi spaventano, alcune hanno ancora il potere di chiedere alla mia testa di abbassarsi ancora una volta.
Ma sto imparando a girare lo sguardo lontano da loro.
Verso tutte le possibilità che non hai avuto e che potrò avere io.
Verso la vita che avresti voluto.
Che alla fine sei riuscita a far avere a me.
Perché ad ogni legge degli uomini che ho preso in mano e scagliato contro un muro, tra le mie dita, erano intrecciate le tue.
Vedi mamma, ti ho vendicata alla fine….

Mimose…perché?

La prima volta che un uomo mi ha regalato un mazzolino di mimose recise non ho reagito molto bene,anzi!
Lui era il sindaco del mio paese che si spostava nelle scuole per omaggiare le donne che ci lavoravano.

-Invece delle mimose ci regali un asilo nuovo per i nostri figli che adesso si trovano in un luogo vecchio e pericolosissimo- gli dissi.

Convengo,a distanza di anni,che l’affermazione non è stata accogliente nei suoi confronti,ma allora ero una mamma molto indignata e preoccupata per la sua piccola bambina.
Oggi che non lo sono più continuo a non amare i fiori recisi perché sono già morti e le mimose lo sono particolarmente in quanto il loro profumo e la loro bellezza appassiscono drammaticamente in fretta:il nove marzo sono ormai piccole biglie rinsecchite e puzzolenti.

Mimose. Per me metafora del valore riconosciuto alle donne nella società:un giorno di festa, allegria,turgore e poi gettate in un angolino.
Perché quindi caro marito, collega o uomo qualsiasi invece di regalarmi mimose non mi porti,magari,piantine di lavanda dagli inebrianti e prorompenti fiori lilla che durano nel tempo e profumano di più?

Perché non riconosci,anche con la scelta di un fiore,che la mia presenza nella tua vita non è effimera ma fa la differenza e che senza di me saresti in difficoltà?
Ecco adesso sai come la penso sulle mimose.

Se però proprio vuoi regalarmene una per il suo colore giallo squillante e allegro…che sia almeno viva .
Buon otto marzo a tutti.

Poesia di strada

Salti giù da una Citroen verde
sbatti lo sportello quasi
fari, sibilo si gomme
sbuffo di smog sull’asfalto rovente
con te ha finito.

Sistemi la gonna sui fianchi
il piercing è sole sul ventre liscio,
sei una bambola dal cuore in ceppi.
Le sneakers bianche si fanno spazio
tra lattine, clinex, qualche straccio.
C’è una sedia rotta più in là
per farti regina sei un nuovo acquisto:
soldi contanti.

Siedi, incroci le gambe da gazzella
la bocca è un cuoricino.
Tra cipria e polvere
vorresti raschiare via da dosso gli sguardi
che ti frugano sotto la maglietta
dentro le mutandine.

Intanto passi una mano nel caschetto
castano dei tuoi capelli è imbarazzante tanto sei bella.
Mi lanci un’occhiata dall’altra parte della strada.
Distolgo gli occhi ti lascio sola
ho una figlia della tua età a casa io!

Un’auto rallenta
lui abbassa il finestrino
tu metti il broncio
fai come una bimba che dice NO!

Lui ti annusa hai odore di bestiola
È così che ti vuole
ancora tiepida e dischiusa.

LAURA al mercato

Laura vendeva frutta e verdura a poco prezzo con un traballante banco al mercato di piazza Vittoria, tutte le mattine se il tempo era bello. Ma a Roma il tempo è quasi sempre bello e lei arrivava prestissimo infagottata in un giaccone.

Era un donna piuttosto alta,  grassa , con le gambe corte e gonfie nelle solite ciabatte e indossava sempre un grembiulone scuro che le girava intorno alla pancia sporgente. Nella tasca metteva i soldi incassati. Ai capelli teneva molto, erano sempre in ordine, corti con bei riccioli morbidi, sempre tinti di un biondo color banana che rovinava tutto.

Era una vera popolana, nata a Roma in borgata e aveva ereditato quel semplice banco dal padre ; poi negli anni suo marito Roberto  si occupò degli acquisti della merce. Fortuna che almeno quello lo faceva, perchè di altro faceva poco Un lavoro non lo trovò mai;  passò dal pugilato alle corse in bicicletta, dal cantare allo scrivere testi di canzoni, per finire come pittore , artista  incompreso sempre!

Laura non aveva mai frequentato la scuola, era analfabeta ma sapeva far di conto meglio di tutti, sul lavoro non sbagliava mai anche se doveva far pagare 850 grammi o un chilo e 150 grammi di merce.

Stavo seduta al banco di fiori di una mia zia : la vedevo mangiare la sua frutta e verdura per tutta la mattina e,  più tardi cominciava a mangiucchiare pezzi della carta dove avvolgeva la merce, oppure pezzi di quotidiano. Inorridivo, ma lei non ti guardava mai diritta in faccia,  ti squadrava con la testa chinata in basso e gli occhi piccoli che si sollevavano.

Mi sono ricordata di lei leggendo il libro ” L’analfabeta che sapeva contare” di J.Jonasson

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