Archivia 9 Ottobre 2024

Mi manca l’aria

Ho prenotato l’esame da quindici giorni e il poco tempo che mi rimane prima di avventurarmici mi rende preoccupata e nervosa. Non so se sarò pronta ad affrontarlo.
Devo sottopormi a una risonanza magnetica e per me, così claustrofobica tanto da non prendere gli ascensori dove é possibile salire per le scale, è fonte di notevole disagio, mi manca l’aria.
Vado in farmacia.
«Dottore, devo sottopormi a una risonanza magnetica, ma questa volta non so se riuscirò a stare tranquilla e ferma per tutto il tempo necessario. Mi potrebbe dare qualcosa per calmarmi?»
Il farmacista mi guarda e poi dal suo retrobottega arriva con un flaconcino di un liquido a base di valeriana, biancospino e passiflora.
«Lo facciamo noi» mi dice «ne prenda 20 gocce un’ora prima della risonanza».
A casa leggo le indicazioni che ne consigliano trenta e decido che ne prenderò venticinque. Non si sa mai: questa volta ho proprio bisogno di un aiuto in più.
La mattina dell’esame arrivo al centro medico in anticipo, cammino nervosamente avanti e indietro nel grande atrio prima di pagare il ticket poi finalmente raggiungo la sala d’aspetto del reparto di radiologia. Zeppa. Più di otto persone stanno aspettando e la mia ansia aumenta, non ho idea se le gocce che ho preso faranno ancora effetto fra tanto tempo.
Dopo un’ora e mezza arriva il mio turno. Entro nello spogliatoio e già mi manca l’aria. Non so se questa volta ce la farò.
Mi spoglio, indosso il camice e mi presento al tecnico che mi ha appena chiamato.
«Si sdrai con la testa verso il tunnel, tenga le braccia lungo il corpo e stia ferma, questo è il campanello se dovesse avere bisogno», puntualizza.
Mi sdraio, sento il rullo che piano piano entra nel tunnel, chiudo gli occhi. Mi manca l’aria.
Mi dico che devo stare tranquilla altrimenti è tempo perso e tutto è da rifare.
Allora, come ogni volta, inizio a recitare il rosario nella mia mente, anche con le intenzioni per ogni decina e premo leggermente le dita sul lettino per contare le ave marie.
Dieci per i miei figli.
Dieci per i miei nipotini.
Dieci per mio marito perché ne ha bisogno da solo.
Mi manca l’aria. Prendo dei piccoli respiri con il naso, non profondi per non muovermi troppo.
Dieci per la mia famiglia di origine.
Dieci alla fine per me.
«Signora, abbiamo finito», dice il tecnico radiologo.
Il rullo piano piano mi riporta fuori da tunnel. Faccio un respiro profondissimo che muove tutto il mio corpo: anche stavolta ce l’ho fatta.
L’aria… invisibile e apparentemente inesistente eppure così necessaria, adesso non mi manca più.

Aries

Piccola scintilla
esplosa alla luce
di una nuova primavera
ardi di energia
il mondo
e infiammi
col tuo fuoco
i nostri cuori.
Segno caliente
tramandato
da generazioni
perpetui nel tempo
l’abbraccio infuocato
della vita.

Sveglia naturale

Ecco, sono tornati. Un po’ presto rispetto agli ultimi anni.
La mia sveglia naturale, la mia poesia mattutina.
Gli uccellini sugli alberi!
Nel passato mi svegliavo con il loro canto, e rimanevo nel letto per ascoltarli.
Mi alzavo e mi preparavo il caffe, la Moka. Poi assaporavo quel liquido scuro e bollente, fuori nel balcone. L’aria frizzante sul mio viso.
Sentivo l’energia diffondersi nel mio corpo e mi caricavo per tutta la giornata. Un leone pronto ad affrontare qualsiasi cosa.
Ora, mi svegliano troppo presto, dopo una nottata piena di sogni dove devo difendermi sparando e non riesco a caricare le munizioni. Forse gioco troppo agli spara zombie. Il mio sonno è spesso interrotto.
E poi mi mettono ansia. Si ansia. Purtroppo il loro cinquettio mi ricorda quei giorni in cui eravamo obbligati a restare chiusi in casa.
Sapevo che quel suono pre annunciava un’altra giornata uguale a quella di prima. Colazione e apertura del PC per lavorare in smart working. Pranzo in compagnia di mio figlio e poi ancora lavoro. Cena con mio figlio e letto. Giornate tutte uguali. Senza sapere quando saremmo usciti da questa crisi.
In effetti però ne siamo usciti.
E allora magari questa mattina mi farò un caffè e lo berrò fuori nel balcone.

Elogio

Ci conoscevamo da più di vent’ anni.
Sorrido al tuo pensiero. Di sicuro io conosco lati della tua vita che neanche la tua famiglia conosce.
Appena assunta ti chiamavo “Dottore”, lo pretendevi da tutti i tuoi dipendenti.
Ma da lì a poco, complice la mia sfrontatezza, ho ottenuto il permesso di usare il tuo nome in privato, e poi, più avanti, davanti a tutti.
Ti conoscevo bene. Sapevo cosa ti faceva arrabbiare e cosa ti compiaceva.
Un punto fermo della tua vita, la tua famiglia. Tua moglie e i tuoi figli.
Ci sono stati periodi che l’hai messa a rischio per un capriccio. Per lo stesso capriccio hai messo fine ad un’amicizia che aveva creato il tuo gioiello: la tua azienda.
Lei, la tua creatura. L’hai fatta nascere, modellata, nutrita. E quando è diventata grande e sicura ne hai fatto la tua sala giochi.
Tutto girava intorno ad un unico obiettivo. Chiudere l’ultima grande trattativa del momento. Non importava se si trattasse di acquisto e vendita di merci o di servizi. L’importante per te era sedersi al tavolo da gioco con gli altri giocatori. È come il poker, giocare con le tue carte, a volte bleffando. Alzarsi da quel tavolo sapendo di aver chiuso un affare.
Certo i soldi non li disdegnavi, anzi. Chi ti conosceva superficialmente ha sempre pensato che tu ammirassi il dio denaro, ma la verità era che ti sentivi vivo solo quando potevi giocare. I soldi erano solo una conseguenza di quanto eri bravo.
Nonostante gli ultimi tempi non lavorassi più in azienda, continuavi nel tuo privato a divertirti. Era più forte di te.
Era una giornata di sole, io stavo parlando di te con un cliente a pranzo, mentre i medici cercavano di salvarti la vita. Da li a poche ore, ricevevo la notizia che tu non c’eri più.
Ora sei nella tua ultima dimora. La terra ti accoglie. Tutto ciò che di terreno hai lasciato non lo puoi portare con te. Molti vedranno solo questo. Io con me porto l’esperienza che ti ho rubato per tutti questi anni.
Sorrido guardando il tuo ufficio vuoto. So che non tornerai, ma spero,  che in qualche modo,  mi guardi mentre chiudo la mia ultima trattativa e sorridi anche tu pensando che questo è anche un po’ merito tuo.

Brezza

Sfilo lo giacca la butto sulla sedia, appoggio la borsa e resto qualche minuto nell’angolo scuro del soggiorno: ti guardo rimestare una pietanza che sobbolle nella pentola.
Cosa ci faccio qui come una ladra, non voglio altro che scappar via!
Spegni il fornello, metti il coperchio, vieni a salutarmi “Ciao Mara, non ti aspettavo tanto presto, niente straordinari questa sera?”. Adesso dico il suo nome che non mi da pace gli dico che non mi sono mai sentita così viva prima di lui che con lui ho incontrato la donna meravigliosa che sono che è uno strazio separarci quando stiamo insieme.
Adesso glielo dico che sono qui pesche’ lui mi ha dato buca “Un imprevisto“ . SMS sul cellulare. “Non cercarmi chiamerò”.
Intanto stappi un prosecco, versi il vino mi offri il calice prendi il tuo, ti seguo in terrazza. “ Sei bella, sai, come non ti vedevo da tempo”. Distolgo lo guardo, cerco le luci che calmano il buio al cielo.
Voci di ragazzi allegri accompagnano una leggera brezza avvolgente: porta con se il tepore della primavera e carezza l’inverno per allontanarlo.
La stessa brezza che ho visto oggi sconvolgere le giovani foglie di un Prunus, stuzzicarmi con il suo profumo intenso e sospingermi da te.
Un brivido mi corre lungo la schiena un senso di eccitazione, terrore, forse tenerezza. Sei bello così affaccendato in cucina con la t shirt attillata e i capelli lunghi, li noto solo ora, ti vengo vicino ti tolgo la frutta dalle mani ti abbraccio.
Adesso te lo dico che ho bisogno di te che non devi lasciare sola che ti voglio bene che… non c’è niente di male se mi sono innamorata…passerà. Ti bacio, sai di ananas e per un istante del nostro sapore ritrovato, ti bacio ti stingo ti bacio. Mi restituisci uno sguardo stupito mentre mi slacci la camicetta e io ti bacio ancora e ti voglio Luca. Prima che questa brezza svanisca per sempre.

Vaghar

Sono appena uscita dall’acqua, dopo aver nuotato da una riva all’altra del lago. Inzuppata fradicia e ansimante guardo la mia città dall’altra parte che brucia. Il fuoco prende il sopravvento su ogni cosa. Vedo gente che corre all’impazzata o che si butta in acqua. Sento le loro urla di paura, di dolore.
Nessuno cerca di spegnere il fuoco, sanno perfettamente che sarebbe tutto inutile.
Lui è ancora lì. Lui sta per tornare. Lui non si fermerà fino a quando l’ultimo edificio di Faluce sarà ancora in piedi.
Sento i polmoni che fanno fatica a riempirsi. E come se il vento avesse deciso di trasportare il fumo acre tutto nella mia direzione. Questa cortina scura e densa nasconde la luce del giorno.
Fisso il cielo sopra la mia città.
Una parte di fumo sembra muoversi.
Eccolo. Da quella massa gassosa compare il suo muso spaventoso.
La sua pelle dura e piena di spuntoni fa da contorno alla sua bocca semi spalancata. Mette in mostra i suoi denti aguzzi e affilati. Sembra mostrare un ghigno diabolico. Poco più sopra i suoi occhi rossi e malvagi contornati da dure corna.
Mentre avanza scorgo il suo collo lungo e sottile. Le ali spiegate e immense
Sembra puntare dritto verso di me. Il terrore mi assale, ma sono come ipnotizzata mentre guardo questo essere possente e maestoso.
Ad un tratto sembra cambiare idea e vira, tornando indietro.
La sua coda sinuosa sposta l’aria davanti a me talmente forte che a momenti cado.
Punta ancora verso Faluce. Appena sopra alla città apre le sue fauci e incomincia a sputare ancora fuoco
Non c’è speranza per chi è rimasto.
Lui è Vhagar, l’ultimo drago rimasto.

Domeniche

“E adesso a casa” – La voce di mio padre che guida l’auto. Io, seduta nel sedile dietro, rivolgo il viso al finestrino.
Fuori è buio, ma le luci della città di Milano, colorano di arancione le gocce sul vetro.
Una domenica sera, come tante. È diventata una routine.
La domenica a pranzo fuori. I miei genitori, i miei fratelli, mia sorella con mia nipote e suo marito.
I nostri ristoranti preferiti sono il Silos a Settala, oppure il Cà del Gulascia a Spino D’Adda.
Ma ogni tanto proviamo anche ristoranti nuovi che hanno appena aperto, come il Clara, ma quest’ultimo non deve essere stato proprio eccezionale.
A tal proposito, vi va di sapere come mia madre e mia sorella scelgono se entrare o no in un nuovo ristorante?
Di questi tempi non esiste ancora internet con cui scandagliare il web alla ricerca di recensioni o foto, per capire se il locale merita.
Quindi si viene a conoscenza del nuovo locale tramite passaparola, oppure cartelloni pubblicitari sulle strade in transito.
Ma come decidere se entrare o no dentro al ristorante e sedersi?
Ecco è qui che mia madre e mia sorella entrano in gioco.
Immaginate due macchine che si fermano al parcheggio del ristorante. Da ogni macchina scende una donna e insieme entrano. Dopo una decina di minuti escono. Se entrano in macchina, allora si cambia ristorante, altrimenti si avvicinano al finestrino del guidatore e danno la loro benedizione per entrare.
Voi penserete che sono andate dentro a guardare il menu, ed invece no. Hanno chiesto di andare in bagno.
Se il bagno è pulito e in ordine, allora il ristorante ha passato l’ispezione.
Comunque, dopo l’abbuffata al ristorante ogni famiglia torna a casa. Generalmente i grandi si fanno il pisolino di un oretta.
Nel pomeriggio tardi, mio padre sfoglia il giornale e guarda la programmazione dei cinema, qui in città.
Sceglie il film e porta noi bambini al cinema.  Il Maestoso è uno dei miei preferiti.
Tutto molto bello. Ma il momento migliore è quando torniamo a casa.
Qui seduta dietro a mio padre che guida, guardo questa città attraverso il vetro dell’auto. Come dicevo, anche se fuori è notte, le luci di Milano mi scaldano il cuore. Socchiudo gli occhi, sono serena, sono felice. Vorrei che non arrivassimo mai. Vorrei sentirmi così per sempre. Appagata da una giornata in famiglia, godereccia e divertente.

Il ciclo della vita

Per tutto questo tempo sono rimasta in compagnia delle mie sorelle. Tutte insieme abbiamo viaggiato per molto tempo. Visitato un sacco di posti. Osservato tante città.
Ci troviamo a Genova, vicino al mare. Sento l’odore della sua aria salmastra. Vedo i bambini accompagnati dai genitori che entrano all’acquario. Sarebbe piaciuto anche a me vedere quello spettacolo sommerso, ma non posso.
È ora di partire dobbiamo fare molta strada. Più andiamo avanti più sento freddo. Noto quel colore bianco che ricopre la roccia. È così luminosa…. Chiedo a mia sorella dove ci troviamo e lei risponde: “Monte Bianco”
Mi avevano raccontato di questo posto, ma per me è la prima volta che lo vedo.  Sono là, immobile affascinata dallo spettacolo, quando sento uno stridio alle mie spalle e il suono di un battito di ali. Mi volto e la vedo nella sua maestosità di apertura alare, un’aquila reale. Che animale stupendo.
Ma eccoci pronti a ripartire…
Superiamo il Duomo di Milano. Andiamo oltre, nella provincia.
Il cielo si fa scuro. Vedo la luce dei lampi e sento il rumore dei tuoni. Mi spaventano
Mi hanno raccontato che quando il cielo diventa così, la nostra vita termina. Ho tanta paura, mi guardo attorno e vedo lo sguardo delle mie sorelle. Alcune hanno dipinto sul volto il mio stesso terrore, altre sembrano sogghignare.
Ad un tratto mi sento pesante, molto pesante. È questo l’inizio della fine?
Improvvisamente la sensazione che provo è come se una botola si aprisse sotto di me… E precipito. Sento l’aria sferzare il mio viso, sono terrorizzata. Sicuramente finirò schiacciata sul terreno. Ecco è la fine.
Plick!
Con mia sorpresa atterro sul morbido. Che strana superficie liscia e calda. Altre mie sorelle atterrano vicino a me. Noto che ci sono altre mie simili, ma non siamo sorelle. Loro sono diverse. Mi avvicino, sono tristi. Il loro odore mi ricorda l’aria salmastra di Genova.
Scivolo via lentamente da quella superficie morbida e calda. E poi cado sul terreno.
Guardo in alto, ed è allora che vedo dove ero prima.
Una donna
Vicino a me una delle mie sorelle. Le chiedo: “Chi erano quegli esseri simili a noi, ma dall’odore salato?”
La risposta: “Lacrime di donna”
Ci penso su.
E domando: “Da dove nascono le lacrime di donna?”
Mia sorella con un tono quasi materno mi risponde” Dal cuore”
Poi mi ricordo che adesso siamo sul terreno e allora una certa inquietudine cresce in me.
Spaventata esordisco: “E adesso che succede? Siamo destinate a morire qui?”
Lei sorridendo mi risponde: “Ma no sciocchina, adesso aspettiamo di evaporare e di tornare su un’altra volta”
Mi rassereno. Allora non è finita.

Quanti passi

Mi sembra ieri che sono partita

carica di dubbi che son già certezze

di silenzi frantumati nel fragore dei vetri.

Un fagotto sulle spalle

per non sentire il peso dei giorni

troppo uguali

e fino all’uscio le urla di mia madre

” Ti perderai.”

Ho camminato passi persi

in spazi di illusioni,

contro me stessa vigili,

attenti sull’orlo dei baratri.

Passi nudi mescolati alla terra:

germogli ancorati a tenaci radici.

Passi folli sospinti dal tumulto del cuore:

danze nuove instabili equilibri.

Ora pesa sempre più questo fagotto

fatto liso dal dolore che consuma

ognuno dentro,

mentre un passo dopo l’altro spontaneamente avanzo.

Perchè io do che al di la c’è un oltre.

Il mio oltre mi attende.

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