Mia madre mi sveglia, dobbiamo prepararci per andare al lavoro.
La luna si nasconde dietro la coltre di nubi e oltre la finestra il vento umido soffia forte sull’afa dell’estate. Fa caldo, molto caldo, tanto che tutte fatichiamo a prendere sonno, c’è chi cerca di darsi sollievo con un ventaglio e chi, ormai arresa all’amara sorte, rinuncia definitivamente a dormire e passa le ore con lo sguardo rivolto verso il soffitto.
I rumori dei campi riecheggiano fuori dal capannone e scandiscono il tempo ogni notte come un vecchio che conta i minuti sull’orologio logoro: lavoro, sonno, lavoro e ancora sonno.
Da un mese ho iniziato a lavorare come mondina. Ho sedici anni e sia io che mia sorella passiamo i mesi estivi nella risaia per circa dodici ore al giorno.
Mi infilo le calze di cotone fino ai fianchi e indosso la gonna lunga, lego un fazzoletto per coprire la testa, il viso, tutto. Spesso di giorno, piegata sotto il sole, mi capita di sentire gli insetti infilarsi sotto il tessuto, fino quasi a penetrarmi la pelle. Il caldo e il sudore a volte sono insopportabili e le gocce d’acqua colano tra le gambe, nei gomiti e sulla fronte.
Indosso il cappello, è ora di andare.
Lavoro dalle 4 del primo mattino fino al tardo pomeriggio, arrivando alla risaia dopo un percorso a piedi; utilizzare un mezzo di trasporto sarebbe impensabile e ci verrebbe trattenuto dalla paga.
Oggi il mattino è particolarmente umido, questa è la parte del giorno che più mi piace perché il sole è ancora nascosto e l’alba tarda ad arrivare. Sento i grilli e le cicale cantare, il vento che mi passa tra i capelli li rende appiccicosi ma in questo momento non c’è ancora il sole a bruciarmi la testa. Inizio a lavorare con i piedi immersi nel fango e guardo la mia vicina, mi sorride e si gira verso l’amica per spettegolare del paese. Una donna della mia squadra racconta storie e aneddoti sul marito facendoci ridere a crepapelle, ogni tanto cantiamo qualche canzone per scandire la giornata.
Nel nostro lavoro stiamo chine tutto il tempo ad afferrare le erbacce, io le strappo con tutta la forza come ad estrarre qualcosa di marcio, qualcosa di sporco.
Da diversi giorni non vedo più Agnese che mi fa sempre compagnia durante il turno, “non può più venire” dicono, pare si sia presa la malaria a causa delle condizioni di lavoro.
Cantiamo più forte e ogni tanto ci facciamo delle grosse risate, una di noi, la più vecchia, ci tratta come se fossimo sue figlie, è premurosa e ci porta sempre qualcosa di dolce da mangiare dopo il lavoro.
Il sole è ormai alto sopra le nostre teste e alcune donne iniziano a parlare sottovoce di scontri e scioperi in centro paese. A quanto pare le proteste, aiutate da contadini e commercianti, hanno raggiunto un livello drammatico e gli agrari sono preoccupati. Diverse mondine dell’altra squadra sono state arrestate e alcune sono rimaste ferite durante le sommosse.
Anche il nostro principale è più teso ultimamente, controlla tutte durante la giornata lavorativa e ci intima di stare zitte.
Maggio è quasi finito, ci avviciniamo a giugno e ultimamente i canti nella risaia sono cambiati: le donne alzano la voce e urlano per la loro libertà come a sperare che il vento umido intrappoli le loro parole e le porti dritte a chi possa ascoltarle, anche a Dio se esiste.
Cantano di cambiamenti, della possibilità di lavorare meno e in modo più dignitoso. Ho sentito che la richiesta è di diminuire le ore di lavoro da dodici a otto, a me sembra qualcosa di assurdo, chissà cosa ci farei con qualche ora in più a disposizione, probabilmente dormirei. Ogni tanto ci penso e mi chiedo se davvero possiamo sperare in qualcosa di meglio, se esiste un altro modo per vivere questa vita. Se ci fosse anche solo una possibilità, allora urlerei anche io fino a svegliare Dio.
Oggi, con le altre ragazze, abbiamo deciso di non andare al lavoro, vogliamo scioperare e scendiamo di corsa in paese. Le vie che conosco bene mi sembrano un teatro di battaglia e mi sento come un soldato che decide di andare in guerra, ma questa guerra è tutta per me, combatto per avere ciò che mi spetta di diritto. Siamo tantissimi: mondine, commercianti, agricoltori. L’agitazione e la rabbia si fanno sentire, risuonano sul pavimento e si espandono tra i vicoli in cui siamo cresciute. Camminiamo a passo spedito, speranzose, sento i canti delle risaie riecheggiare con forza attorno a me “Se otto ore vi sembra poche, provate voi a lavorare e sentirete la differenza di lavorar e di comandar”, dopo mesi di proteste ora siamo sotto il Municipio, in attesa di una risposta.
D’un tratto il tempo si ferma, il silenzio cala sulla folla.
Due uomini si fanno avanti e iniziano a dire che a Vercelli è stato sancito l’accordo per la diminuzione dell’orario di lavoro a otto ore, solo le squadre che vorranno potranno estendere l’orario fino a nove ore al giorno. Due donne vicino a me dicono che gli uomini sono uno un operaio di nome Somaglino e l’altro l’Avv. Cugnolio che rappresenta l’associazione contadina.
Il vento umido ora accarezza le lacrime di gioia che scendono sulle guance arrossate, a Vercelli le cose stanno cambiando e mentre le persone accanto a me urlano di felicità c’è già chi dice che anche nelle altre province le cose cambieranno.
È il primo giugno 1906 e da domani non lavorerò più 12 ore al giorno.
È il primo giugno 1906 e per la prima volta sento che c’è speranza e mi tengo stretta questa voglia di lottare.