Archivia 27 Gennaio 2024

Angelo

Sono nata una sera di maggio in Sicilia quando le zagare profumavano l’aria.
Vivevo insieme alla mia mamma e ai miei fratelli in una scatola di cartone a bordo strada, dove passavano molte auto. Mi sono ammalata presto. Mia mamma non aveva latte a sufficienza e tempo per scaldarci tutti. Ci sono state notti fredde, ho preso il raffreddore. Tutti l’avevamo.
Un giorno mi ha raccolto una signora. Mi ha dato da mangiare una cosa umida e buona che non era latte. Mi ha curato il raffreddore, che nel frattempo era risalito dal naso e mi aveva infettato l’occhio. L’occhio non è tornato come prima, ma il naso sì.
Poi la signora ha preso dalla strada anche mia mamma, così potevamo stare insieme. Dopo qualche giorno ci ha raggiunte anche mia sorella. Oh, la gioia di giocare tutte e tre assieme, di nuovo una famiglia! Di notte ci stringevamo l’una all’altra e ci addormentavamo coi musi vicini. Beatitudine!
La signora era brava, ci dava da mangiare cose buone, ci accarezzava, aveva un bel gabinetto che puliva regolarmente. Aveva una figlia un po’ rumorosa però. La bambina giocava spesso con noi, io mi divertivo molto con la lenza.
Siamo stati con la famiglia della signora per parecchio tempo. Faceva caldo, si stava bene, i pasti erano abbondanti.
Poi, ai primi freddi, mia sorella è sparita. Io ero triste, ma per fortuna c’era mia mamma che mi leccava e mi consolava.
Un pomeriggio, la signora mi ha messo in un trasportino e mi ha portato in una strada rumorosa. Io avevo paura. Si è fermato un grosso camion e mi hanno messo lì dentro. C’erano tanti scomparti, in ogni scomparto un gatto simile a me. Hanno chiuso la porta e sono rimasta sola. Il camion è partito e faceva molto rumore. Tutti piangevano. Siamo rimasti così per molte ore, faceva freddo.
A un certo punto il camion si è fermato, si è aperta la porta e un’umana ci ha dato da mangiare e ha cambiato i tappetini assorbenti che nel frattempo avevamo sporcato, non avevamo potuto fare altrimenti, non c’era scelta. A me ripugnava sporcare nel mio letto, ma come potevo fare?
Poi la porta si è richiusa e il camion è ripartito. Ancora rumore, ancora freddo, ancora buio, però non piangeva più nessuno.
Dopo un tempo infinito così, con alcune pause per mangiare e cambiare i tappetini , siamo arrivati in un posto dove c’erano delle persone. L’umana ha tirato fuori i trasportini dagli scomparti a uno a uno e ci ha consegnati ad altri umani. Gli umani erano sorridenti, noi spaventati. Faceva freddo.
Io dalla nuova signora sono stata messa in un’auto blu e siamo ripartite. Altro rumore, però stavolta non faceva freddo.
Quando siamo arrivate, questa signora mi ha messo in una stanza piccola tutta per me e ha aperto lo sportello del mio trasportino. Io mi sono guardata bene dall’uscire. Solo quando ero ben sicura di essere sola ho esplorato il perimetro della stanza, che era come quella della mia prima casa, il pavimento era liscio e freddo. E’ arrivata una nuova tana foderata di una cosa morbida, che mi è piaciuta subito. Questa tana era molto più bella e ci stavo volentieri.
Ogni tanto la nuova signora entrava nella stanza, faceva uno strano rumore come di acqua, mi parlava. Io però stavo rintanata nel mio nascondiglio. E’ andata avanti così per parecchi giorni: io uscivo quando ero sola, esploravo, giocavo con il rotolo di carta bianca, saltavo sul davanzale, giocavo con l’asciugamano. Quando sentivo i passi della signora, mi nascondevo. Era molto tranquillo.
Dopo un po’ di tempo, la signora mi ha trasferito in un’altra stanza, molto più grande e con più rumori. Ho cominciato a uscire dalla tana perché un po’ mi annoiavo.
La signora era grande e grossa, anche se mi parlava con voce gentile. Io mi spaventavo e correvo nella tana, oppure mi nascondevo sotto il tavolo.
Col passare dei giorni mi sono abituata alla signora nuova, ma ogni giorno c’erano delle novità. Intanto, ho scoperto che potevo andare alla finestra e guardare fuori gli uccellini, la mia passione! Posso stare ore a guardarli. Poi, ho capito di non essere sola con la signora: circolavano altri gatti in quella casa. Non sembravano nemici, ma non si sa mai. Io stavo ben alla larga.
Dopo un po’ ho capito che la gatta bianca e nera con la mascherina non era pericolosa: dormiva tutto il giorno e non faceva un gran che, così ho cominciato ad accorciare le distanze. Ora qualche volta dormiamo addirittura sullo stesso divano.
L’altra, quella tigrata, invece era indecifrabile. Grossa come una tigre, agile come un leopardo, mi sfuggiva e mi ringhiava. Ancora adesso mi ringhia spesso. Non dev’essere molto sveglia, perché è evidente che io voglio solo giocare.
La signora mi ha messo un piccolo cestino foderato di lana morbida sul divano del soggiorno, proprio di fronte alla porta, così posso tenere d’occhio chi entra e decidere se costituisce una minaccia. In realtà solo adesso cominciano a venire umani diversi, qualche volta.
Io nel frattempo sono cresciuta e il cestino è diventato un po’ piccolo, ma mi ci sento bene, mi fa sentire protetta. Quando sono lì dentro, tutti mi lasciano stare.
In questo posto ora mi sono ambientata e ci sto piuttosto bene. L’unica cosa che lascia un po’ a desiderare è il vitto: il solo pasto decente della giornata (la carne umida) viene servita a colazione, dopodiché ognuno si dedica alle proprie attività e fino al giorno dopo ci sono unicamente dei cosi secchi come il cartone, però si sa, quando si ha fame, non si va troppo il sottile. Io vorrei che la signora capisse che non è cibo degno di un gatto, quello. Per il resto, la signora è gentile con me, mi fa anche dormire insieme a lei sul letto con le altre gatte.
Mi chiamo Clea e sono l’angelo custode di questa casa.

Paronomasia

Sul Mare del Nord c’era un grosso gatto che soffriva di gotta. Viveva in una grotta con sette tigrotti.
Poiché a tutti piacevano le aringhe, abbondava la lisca, ma il servizio di ritiro rifiuti era lasco.
Un giorno sparì uno dei tigrotti. Arrivò il Commissario Montalbano per indagare. Quando vide le lische, guardò negli occhi il gatto e disse: “Qui succedono cose losche!”
”No, Commissario, Le assicuro” disse il gatto con la gotta. “Per favore, mi gratti!”.
Il Commissario grattò il gatto con la gotta che viveva nella grotta con i tigrotti. Tutto d’un tratto, il grosso gatto si trasformò in un tigrotto senza gotta, che strofinò le sue gote contro quelle del Commissario. A quel contatto, il Commissario spiccò un balzo e fu fuori dalla grotta. Se ne andò a casa e mangiò tre cannoli alla ricotta.

Io ricordo

  1. Tappezzeria scozzese sui toni del marrone, ero nell’anticamera di casa nostra. Avevo sei anni e chiesi a mia madre “Mamma, che cos’è la coscienza?”. “Quella che tu non hai” fu la sua risposta. Sentivo mio fratello, più grande di me di otto anni, sghignazzare in sottofondo. Ne sapevo quanto prima.

2. Ricordo che amavo dormire sotto il letto, non sopra. La nostra casa aveva molta moquette. In quegli anni si usava, mia madre la amava perché conferiva una sensazione di calore e accoglienza, si poteva camminare a piedi nudi senza timore di prendersi un maldigola. Ovviamente ce l’avevamo in tutte le camere da letto, oltre che in soggiorno. Ce l’avevamo pure in mansarda, nel seminterrato, sulle scale. Sulle scale era costituita da dei rettangoli incollati che evitavano al piede di scivolare.
Grazie alla moquette, il pavimento non era mai freddo ed io mi ci sdraiavo volentieri. Facevo tutto sul pavimento: puzzles, Lego, biglie, giocare col cane e, appunto, dormire. Ricordo che mi piaceva la sensazione di cuccia sotto al letto: la rete a molle sopra la mia testa, lo spazio appena sufficiente per girarmi.
Ricordo che a volte sentivo i miei genitori salire al piano notte, aprire la porta accostata della mia camera da letto e ridacchiare alla vista di me che dormivo sotto invece che sopra il letto.
Mio fratello non lo faceva mai, non l’aveva mai fatto.

3. Quando ero bambina avevo un cane di nome Yuri. Come Yuri Gagarin. Aveva il mantello marrone e il pancino bianco, anche i calzini erano bianchi e avevano un buon odore d’erba. L’avevamo preso al canile, ricordo che la sua pipì appena arrivato a casa nostra aveva un odore molto forte. Ci mise parecchio per normalizzarsi, e mantenne comunque sempre un odore pungente, di cui ci lamentavamo ogni volta che sostavamo in giardino, d’estate.
Yuri era il mio compagno di giochi, il mio confidente e il mio capro espiatorio. Già intuivo vagamente la scala gerarchica familiare, di cui io ero l’ultimo gradino, ma un giorno mio fratello la rese esplicita dicendo che l’unico su cui io potevo esercitare un qualche potere era il cane.
Il gioco preferito mio e di Yuri era metterci sotto la cassapanca, in un punto in cui il biondo legno di cirmolo veniva illuminato dal sole del pomeriggio, poi io facevo sbucare la mano dallo spazio sotto le gambe della cassapanca e Yuri doveva prenderla. Digrignava sempre i denti e starnutiva a più non posso, cosa che mi divertiva assai.
Ricordo che un giorno che mi sgridarono duramente decisi che, se i miei genitori avessero fatto del male a Yuri – come a volte minacciavano quando faceva la pipì in casa – non avrei più parlato per lo shock (dovevo aver visto alla televisione qualcosa del genere).
Yuri fece una fine triste. Esasperati dalle continue manifestazioni di disagio canino (quando partivamo, pur rimanendo lui in compagnia della nonna, spesso alzava la gamba contro l’angolo del mio letto), all’età di dodici anni lo fecero “addormentare”. Mia mamma non ne poteva più. “La sua vita l’ha fatta” fu il commento di mio papà. A quel tempo non c’era la sensibilità verso gli animali che c’è oggi.
Io continuai a parlare.

Allitterazione, Assonanza, Onomatopea

Allitterazione

Il treno a Trento trovò ritardo
Se sento sospirare lo sento a stento
Si era infrattato fra le fresche frasche
La mosca si posa sulla rosa odorosa
Le farfalle dalle ali gialle

Assonanza

Io mi dirigo ma non rido se non ti vedo
In agosto la pigrizia non conosco
A Verona vengo ma c’è vento

Onomatopea

Fri fri fri… sentivo le cicale cantare
Nella vecchia fattoria iah iah oh
Criiii… la porta si aprì con un fastidioso cigolio

Tu sei dentro a una vita che ignoro

Dimmi, come stai? Senti caldo… o forse freddo? Aspetta, ti metto a posto il cuscino. Va meglio?
Ecco, finalmente sorridi. Bastava mettere meglio il cuscino… Lo sapevo che con te non è tempo perso. Non lo è mai stato, tanto meno potrebbe esserlo ora.
Ieri ho avuto l’interrogazione di Letteratura, dovevo preparare Dante. Ho portato la storia di Paolo e Francesca. Che non so neppure perché te lo sto raccontando, a te non è che Dante poi piaccia da morire… Così, per dire. Però Paolo e Francesca non puoi non amarli. L’amore perduto, l’amore maledetto… maledetto chi li uccise e maledetto chi li destinò all’inferno, seppure trasudando pietà. La pietà cortese dei benpensanti… quanti ne uccise!
E cosa mia potranno farsene della pietà degli uomini Paolo e Francesco? Loro avrebbero voluto amarsi ed essere felici, mica diventare immortali.
Meno male che la campanella ha suonato prima che potessi terminare il concetto di chi ci avrei ficcato io, all’inferno, al posto di Paolo e Francesca, uno dei primi casi di femminicidio storicamente documentati.
Vedo che sorridi… o forse l’ho solo immaginato, perché mi farebbe piacere che tu sorridessi.
Ma poi, chi voglio prendere in giro? Sono patetica. Ieri non ho avuto nessuna interrogazione, la scuola l’ho finita da quarant’anni. Mi faceva solo piacere illudermi per qualche minuto che fossimo ancora lì, insieme, in quei giorni che non sapevamo essere felici.
Vorrei la macchina del tempo. Non per tornare indietro a cambiare il destino, neanche per impartire lezioni alle più giovani noi. Vorrei solo tornare indietro per godere della tua compagnia, abbracciarti forte, farti capire quanto per me eri importante. Lo hai mai saputo? Ormai, non posso più chiedertelo.
Osservo il tuo guscio vuoto. Eppure non posso accettare che tu non ci sia più. A cosa stai pensando, persa nel tuo mondo a me negato?
Tu sei dentro a una vita che ignoro.

Allitterazione, assonanza, onomatopea

ALLITTERAZIONE

  • Forte il fabbro forgia ciò che ai soldati darà in sorte. Fucili armi e cannoni tra i campi di marte cosparsi di morte.
  • Prima di primavera esiste una stagione mera, un attimo magico, che non è più l’inverno con le sue spoglie membra, ma uno spasmo di doglie che in un alito di vento si coglie.
  • Immagino un mago con occhi da drago, lunghe le unghie per i suoi artifizi, cattura l’attenzione, crea tensione, dal palco un denso fumo appare, come una bianca palude, un effimero lago dove improvvisamente scompare il mago.

ASSONANZA

  • Di notte, i rumori arrivano come da lontane fosse.
  • Stupido che sei, stupido a rigare il tuo viso di lacrime soffocate.
  • Madame de Pompadour, la conoscevi tu?

 

ONOMATOPEA (invento)

  • Scia scia scia sciack, scia scia scia sciack. Nasce un paessaggio dalle mie pennellate.
  • Vrrrr, l’aeroplano arriva… vvvrrr apri la boccuccia.
  • Planf! A me il divano.

Ritorni

Mi piace quando mi guardi con gli occhi spalancati di chi non si capacita. Sei ancora incredulo che io abbia accettato di rivederti. Sono passati sette anni. Ti ho buttato fuori casa il sette settembre del duemiladiciassette, tutti quei sette avrei dovuto giocarli al lotto, invece ho giocato la mia vita. Sapevo solo di non voler passare un minuto di più con te, con un uomo che non mi rispetta, che non conosce l’abc della comunicazione, che si considera un illuminato, che si crede l’unico in grado di guidare mentre tutto il resto del mondo è composto da deficienti. Non un minuto di più o mi sarebbe venuta l’orticaria, mi sarei ammalata, o ti avrei piantato un coltello nella pancia. Vedi, è stato meglio lasciarci, soprattutto per te. Un maschicidio era in agguato, meglio non farlo accadere, io sono contraria alla violenza. E così ti ho rimosso dalla mia vita, faticosamente, pezzo per pezzo, ricordo dopo ricordo, oggetto dopo oggetto. Tu mi hai restituito fisicamente le cose che ti avevo regalato, il cuscino ricamato per te con tanto amore, moderna Penelope tra computer, lavatrici e lezioni di tedesco. Io ho steso pesanti coltri sul male che mi hai fatto, sull’entusiasmo che mi hai rubato, sulle speranze che hai soppresso, sull’ottimismo che hai annullato, ma per fortuna ne è rimasto ancora.

Ora ti ripresenti a me in candide vesti, le guance e il capo rasato, un moderno Buddha simile a colui che mi aveva rapito quando ti conobbi. Ora però so che la tua lingua è biforcuta, la tua mente scaltra, il tuo cuore vendicativo. Non c’è posto nella mia nuova vita per te. Vado avanti per la mia strada, quale che sia.
Ti allontani a testa china, non ti vedrò mai più. E così sia.

Allitterazione, assonanza, onomatopea

ALLITTERAZIONE

Anche avendo avuto avviso anticipato, ambivo ad anteporre alcune amene attività all’assemblea amicale (ammaestramento).

 

ASSONANZA

A   A volte, la sera, la fame mi prende,

B   “Non voglio ingrassare,

A   Il mare mi attende!”

 

C   Biscotti, jogurti, cioccolatini

C   Sussurran soavi gli inviti più fini.

 

B   La voce è decisa, la sento parlare,

A   Con alto tono saccente

B   Non sente ragioni, non vuole mollare.

 

D   Mi salva una mela, succosa e croccante,

D   rossa malia sana e invitante.

 

ONOMATOPEA

Gracida nel pozzo la rana,

Lenta sale per il ramo l’iguana.

Lesta agguanta un insetto,

“Gra gra” dice dirimpetto.

“Blub blub” risponde soddisfatta

l’iguana ora distratta.

Camminare nei boschi quando cade la neve.

Camminare nei boschi quando cade la neve. C’è della magia in tutto questo.

Alzare gli occhi al cielo e aprire la bocca per assaggiare il sapore dei fiocchi, grandi e piccoli, come i giorni della vita.

Il silenzio è interrotto solo dai nostri fiati e dai nostri passi che scricchiolano affondando nel sentiero bianco.

Noi non siamo gente di montagna, e i boschi, la neve, il silenzio ci fanno fare pensieri belli e brutti, come i giorni della vita.

Mi fermo un istante, di nuovo apro la bocca per dissetarmi con la neve che scende da un cielo bianco, un cielo che sembra abbia smesso di esistere.

Mi giro a guardarti, ti chiedo: «E se ci perdessimo?».

Per un attimo hai soppesato la domanda, forse pensavi fosse un desiderio, poi hai visto il timore nei miei occhi.

Non hai risposto, hai lasciato che la domanda cadesse con la neve. Perdersi, ritrovarsi, come nei giorni della vita.

I nostri passi lasciano impronte. Vediamo altre tracce, di animali. Ho pensato fossero di volpe.

Ora sei tu a chiedere: «E se ci fossero i lupi o gli orsi?».

Forse scherzi, o forse no. Ho cercato di capirlo dal tono, di trovarvi fili di paura. Difficile scandagliare la voce di un uomo e riconoscere i suoi timori. Ti ho guardato, la tua bocca sorrideva, i tuoi occhi no. Potevano esserci lupi e orsi, forse sì, forse no, come nei giorni della vita.

Ti ho risposto: «Gli orsi sono in letargo, e i lupi se ne stanno distanti da noi umani. Puzziamo troppo».

«I grizzly non vanno in letargo», hai commentato.

«I grizzly vivono ad almeno cinquemila chilometri da qui», ti ho risposto dall’interno del cappuccio che faceva rimbombare la mia voce.

Non mi ero accorta del silenzio. Silenzio nel vero senso della parola. Ho smesso di respirare un attimo e di ascoltare il mio cuore che pulsa per la salita. Mi sono voltata perché quel silenzio era assenza. Come in alcuni giorni della vita.

Tu non ci sei. Eri dietro di me un attimo prima e non ci sei più. Mi sono fermata per aspettarti. Le braccia conserte, la posa di chi accetta di malavoglia certe situazioni.

Ti ho visto spuntare dal fianco del bosco, mi hai chiamato: «Vieni», più a gesti che non con la voce.

Ho ridisceso il tratto di sentiero per raggiungerti. Mi hai condotto per un viottolo che non avevo notato. La neve era rivoltata dalle tracce, anche dalle tue orme.

Pochi passi e si è aperta una radura. Aveva qualcosa di magico. Un piccolo stagno ghiacciato in alcuni punti, l’erba gialla che contornava la riva, i pini che sembrava emanassero calore perché sotto di loro non c’era neve ma cuscini d’aghi marroni.

«Prima c’erano tre caprioli», mi hai detto, «ma ci hanno sentito e sono scappati».

«Già», ti ho risposto, «loro sì che devono aver paura, di noi, degli esseri umani».

«Essere Umano, non trovi sia un ossimoro, talvolta?», mi hai chiesto sedendoti sotto un pino.

Ho pensato alle guerre ancora accese nell’anno appena iniziato.

Mi sono seduta accanto a te, ho appoggiato la testa sulla tua spalla. Non ho risposto subito perché ho intravisto la sagoma di un capriolo, correva saltellando verso una discesa sul fianco della montagna. Era come se fuggisse senza togliermi gli occhi di dosso.

«Dipende dal significato che diamo alla parola umano. Forse siamo cattivi dentro, noi esseri Umani. Però sì, in ogni caso siamo un ossimoro».

L’uomo più importante

Papà, radice e luce,
portami ancora per mano
nell’ottobre dorato
del primo giorno di scuola.
Le rondini partivano,
strillavano:
“fra cinquant’anni
ci ricorderai”.

Maria Luisa Spaziani, Papà, radice e luce

Una passata di rossetto leggero sulle labbra, due gocce di profumo ai polsi, mi do un’ultima occhiata allo specchio. Sono pronta.All’uscita di casa vengo salutata dalla bellissima giornata di sole, una carezza di calore sulla pelle ad annunciare che la primavera è alle porte e la vita si risveglia. Mi sento carina e leggera nel mio vestitino a fiori mentre mi reco all’appuntamento con l’uomo più speciale di tutto il mio mondo. Eccolo lì, già seduto al tavolino del bar, che mi sta aspettando.
Mi vede arrivare e mi saluta con un grande sorriso e gli occhi luccicanti di gioia.
«Ciao papà, che bello rivederti!» esclamo mentre mi faccio avvolgere dal suo abbraccio, morbido e rassicurante.
«Mi sei mancato, papi. Non farmi più questi scherzi di non farti vedere così a lungo. Sei che ho sempre bisogno di sapere tutto, come stai, se va tutto bene, se sei sereno».
Lui mi rivolge uno di quei suoi sorrisi dolci, quasi malinconici, che hanno sempre avuto il potere di smuovermi un mondo dentro al cuore.
«Eh, come vuoi che vada. Tutto il giorno nel mio laboratorio a ricavare porta penne con i ferri di cavallo. Che fra l’altro ho quasi esaurito. Quando me ne porti altri?»
Ora, mio padre chiama laboratorio un cantinotto buio e polveroso che, secondo me, non gli fa neanche troppo bene alla salute ma, finché si tiene occupato, tutto sommato è il male minore e quindi lo assecondo.
«Presto ti porto altri ferri, non è che posso sferrare i cavalli apposta con quello che costa il maniscalco, non ti pare?».
Dalla sua smorfia poco convinta capisco che sì, a lui invece parrebbe. Ma preferisce cambiare discorso.
«Ordiniamo?».
Faccio un cenno al cameriere: «Due cappuccini con molta schiuma e una spruzzata di cacao».
Quando arrivano, mio papà si tuffa goloso nella sua tazza. Ne riemerge con i baffi bianchi e marroni. Prendo un tovagliolino, ridendo: «Fai proprio come i bambini! Aspetta che ti pulisco la faccia, non ti si può guardare!».
Torniamo seri, come se avessimo esaurito gli argomenti della classica conversazione di chi non si vuole impegnare in qualcosa di più coinvolgente, forse per pudore di mostrare i propri sentimenti. Quante cose vorrei dirti, papà mio! Sono stata una brava figlia? Ho mai saputo farti capire quanto io ti ami e quanto bisogno ho sempre avuto di te? Ti ho reso felice?
Chissà se anche il tuo silenzio è, come il mio, riempito da mille domande inespresse. Vorrei non lasciarti andare più, ti afferro le mani, come se bastasse per trattenerti ancora. Ma il tempo stringe inesorabilmente. C’era il sole, ora il cielo è già buio. Come è possibile?
«Sai che devo andare ora», mi sgrida con gentilezza staccandosi dalla mia presa.
«Lo so, papi. Ma è troppo triste questo pensiero. Quando ci rivedremo?»
«È compito tuo più che mio. Io faccio tutto il possibile ma sei tu che mi devi chiamare, è così che funziona».
«Va bene, papà. Allora ti lascio andare, per il momento. Arrivederci al prossimo sogno!».

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